«Venga il tuo Regno!» è la seconda richiesta del Padre Nostro, che è sicuramente la preghiera più conosciuta e ripetuta da sempre in tutta la cristianità. Lo è per due ragioni: a motivo del suo autore, anzitutto, che è Gesù stesso, e in secondo luogo a motivo del suo contenuto, che è di valore eccezionale.
Nel 1535, quando aveva già 52 anni, Martin Lutero, scrisse queste parole: «Ancora oggi, come un lattante, succhio al Padre Nostro, come un adulto ne bevo e me ne nutro senza mai saziarmene». Questo nutrirsi del Padre Nostro come un lattante succhia il latte della madre, è però possibile, aggiunge Lutero, solo considerando attentamente ogni singola parola che pronunciamo, altrimenti succede che la bocca parla, ma la mente vaga altrove. Ciò accade ogni qual volta, invece di pregare il Padre Nostro, lo si recita, ripetendone meccanicamente le parole. In tal caso, dice ancora Lutero, il Padre Nostro diventa «il più grande martire sulla terra».
È dunque essenziale, quando si pronuncia questa preghiera, soppesare bene le parole che diciamo. Cerchiamo di farlo anche con le parole «Venga il tuo Regno!». Che cosa vogliono dire?
Due sono le domande alle quali dobbiamo rispondere: 1) Che cos’è il regno di Dio? 2) Perché dobbiamo chiedere che venga e come può «venire»?
1. Il regno di Dio (o dei cieli) è il cuore della predicazione di Gesù. Non è un caso che il cartello posto sulla croce con il quale si indicava il motivo della condanna a morte, dicesse: «Gesù di Nazareth, re dei Giudei». Gesù infatti ha fatto tutt’uno con il Regno che ha annunciato.
Che cosa ha detto, Gesù, del Regno?
Ha detto tre cose: che è un «evangelo», cioè una buona notizia (Mt. 4,23), che è un «mistero» (Mc. 4,11; Mt. 13,11 e Lc. 8,10 hanno il plurale «misteri»), e che è «vicino» (Mc. 1,15).
Perché e per chi il Regno è un «evangelo»? Lo è per i peccatori, ai quali è annunciato e donato il perdono. Lo è per i malati, molti dei quali vengono guariti. Lo è per i poveri, che vengono evangelizzati e dichiarati «beati». Lo è per gli affamati, che vengono saziati perché il pane non solo è moltiplicato, ma viene distribuito, cioè condiviso (oggi il pane è «moltiplicato» a livello industriale, ma non è affatto condiviso, lo mangiano in pochi). Il Regno è un «evangelo» per le donne, che finalmente vengono accolte nella compagnia dei discepoli di Gesù. Lo è per gli ultimi, che diventano primi, lo è per gli esclusi, che vengono inclusi. Il regno di Dio è il nostro mondo capovolto.
Ecco perché i potenti della terra ne hanno tanta paura. Ecco perché Gesù, il re di questo regno, è stato arrestato, processato, condannato a morte e giustiziato. Il mondo nel quale l’uomo è re non sopporta il mondo nel quale Dio è re. Ma l’Evangelo è proprio questo: che Dio è re e viene a regnare su questa terra ostile e su questa umanità ribelle, e noi possiamo già cominciare a vivere come coloro sui quali e attraverso i quali Dio regna.
Il Regno è anche, secondo Gesù, un «mistero». In che senso? Nel senso che ha, per così dire, un doppio statuto, se ne può quindi parlare solo dialetticamente: è vicino, ma non lo si può localizzare; è presente, ma anche futuro; è dato (Lc. 12,52), ma anche promesso; già vissuto, ma ancora invocato; è «dentro di voi» (Lc. 17,21), ma anche fuori. C’è poi un altro senso nel quale il Regno è un mistero: nel senso che non è evidente, non può essere mostrato e tanto meno dimostrato, non può essere identificato con nessuna realtà terrena, religiosa (la Chiesa) o laica (la società senza classi); è una presenza segreta, anche se possiamo qua e là discernerne i «segni» (i miracoli di Gesù, per esempio, non sono altri che i segni del Regno vicino).
Ed è perché il Regno è mistero che Gesù ne parla quasi sempre in «parabole», che vuol dire «paragoni». Come non è possibile una visione diretta del Regno, così non è possibile su di esso un discorso diretto. Non si può dire quello che il Regno è, ma solo che «è simile a», cioè può essere paragonato a, per esempio, una donna che mette il lievito nella pasta. La cosa che più colpisce di queste similitudini è che sono tratte dalla vita di tutti i giorni: il Regno è dunque presente segretamente nella profanità dell’esistenza quotidiana, è come un filo d’oro presente nella trama, talvolta grigia, della nostra vita. È bellissimo che Gesù abbia saputo vedere questo filo d’oro che noi, senza di lui, non vedremmo, e che ci apra gli occhi, con le sue parabole, per farlo vedere anche a noi.
2. Questo Regno va però invocato: «Venga il tuo Regno!». Che cosa vuol dire?
Vuol dire anzitutto che il Regno non lo possiamo costruire noi, lo dobbiamo invocare da Dio. È il frutto di una sua decisione (che sollecitiamo con la preghiera), non dei nostri sforzi.
In secondo luogo, dicendo «Venga il tuo Regno!», chiediamo a Dio che il suo Regno, già presente, sia manifestato: la «venuta» è la manifestazione.
In terzo luogo, pronunciando quelle parole, ci dichiariamo disponibili a essere, come singole persone e come comunità, lo spazio umano nel quale si avverte la vicinanza del Regno.
«Venga il tuo Regno» significa anzitutto che venga in noi. In questo senso ha ragione Lutero quando afferma «Regno di Dio non significa altro che essere pii, onesti, puri, miti, mansueti, benigni, ripieni di ogni virtù e di ogni grazia, sì che Dio abbia in noi il suo possesso ed egli solo sia, viva e governi in noi». Questo nostro necessario coinvolgimento personale e comunitario può anche essere espresso altrimenti. Siccome Gesù prediligeva parlare del Regno in parabole, potremmo anche dire così: pregando «Venga il tuo Regno!», noi implicitamente chiediamo a Dio che ci aiuti a essere noi stessi, come singoli e come comunità, parabole vive del Regno, e così riuscire a manifestarlo, o quanto meno a segnalarlo alla nostra generazione.
Paolo Ricca, Come in cielo, così in terra Itinerari biblici. Caludiana, Torino, 2029