Una lettera di amore: il capitolo 43 del Libro di Isaia è una missiva d'amore pronunciata da Dio nei confronti del suo popolo.
Il contesto è quello dell'esilio in Babilonia, evento sconvolgente, a causa del quale il popolo del Signore è in lutto, ha appeso le sue cetre alle fronde dei salici e non riesce nemmeno a cantare (Sal 137,1-4). In questa situazione di sconforto, in cui la speranza sembra esser andata totalmente perduta, Dio si affaccia e fa sentire la sua voce.
Come se parlasse all'orecchio della persona amata, il Signore rimembra le meraviglie che ha compiuto nei confronti del popolo eletto, confermando ancora una volta la ferma decisione di non abbandonarlo, di volerlo liberare dall'angoscia, dalla nuova schiavitù e condurlo nella terra promessa alle madri e ai padri di un tempo.
Non si tratta di un semplice ritorno: ritornare fa immaginare alla restaurazione di un passato glorioso, come se nulla fosse successo. Dio non elimina la realtà, non chiede di cancellare il passato, ma allo stesso tempo dice solennemente: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche!» (Is 43,18). Non la nostalgia, non lo sguardo puntato dietro le spalle, ma occhi diretti al cielo e al futuro: questo è quel che il Signore chiede al popolo.
Guardando in avanti, Israele può scorgere la luce di una speranza nuova che scaturisce dalla destra del Signore. Nuova, infatti, non restaurata, bensì ri-creata. Fin dal primo sorgere del sole, Dio ha valutato la creazione – opera delle sue mani – essere molto buona (Gen 1,31): come potrebbe il Creatore non curarsi di lei? Come potrebbe lasciare che vada in rovina?
La parola del Signore che dice: «Ecco, faccio una cosa nuova» (Is 43,19) è efficace, essa prende forma nel momento in cui essa è pronunciata. «Proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?»: lo sguardo dell'essere umano è facilmente trascinato all'indietro, a un momento ritenuto più felice, più prospero, meno problematico; la memoria, tuttavia, può essere deformata dalle asprezze del presente, dai pensieri angoscianti che fanno sfociare in un pessimismo totale e totalizzante. È ora il momento in cui l'opera nuova e rinnovatrice di Dio si compie: non me ne accorgo perché è silenziosa come il filo d'erba che spunta dal suolo, come un bocciolo che apre al mondo la sua corolla.
La voce del Creatore mette in fuga ogni malinconia, invitando a volgersi verso il deserto, nella direzione della realtà temuta. In mezzo alla desolazione il Signore fa scaturire freschezza, acqua nuova, destinata ad irrigare e a dissetare ogni creatura: le piante, gli animali, gli esseri umani. Un'immagine che da un lato apre alla possibilità di futuro in generale, dall'altro introduce un concetto che oggi più che mai deve essere chiaro: l'interconnessione delle creature. 1
L'acqua nuova di Dio non è ad uso esclusivo degli esseri umani: da essa possono – o meglio devono – trarre beneficio tutte e tutti, tanto il popolo amato, quanto «le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi» (Is 43,20). Noi esseri umani possediamo quella convinzione – sbagliata, per giunta – di considerare la creazione qualcosa di dovuto e ancor peggio di nostra proprietà: non usiamo le risorse, bensì esse sono da noi aggredite, spinti da una logica che esula dal comando-permesso del Signore di essere lavoratori nella e della Terra (Gen 1,28).
Osiamo puntualizzare, inoltre, che un tale comportamento è diventato caratteristico e prerogativa delle donne e degli uomini del Nord del Mondo, di quella regione del nostro pianeta in cui lo sviluppo e il progresso hanno fatto montare l'umano in arroganza, provocando disastri su più fronti. L'azione antropica aggressiva ha, di fatto, determinato una discriminazione fondamentale non solo tra umani e animali e piante, ma anche tra gli stessi uomini.
L'acqua nuova di Dio, al contrario, fluisce non per un gruppo ristretto di privilegiati, bensì per ogni essere che abita questo pianeta, dimora di tutte le cose create. Nel tempo presente in cui le nuova generazioni sono angosciate da ansia climatica, in cui le crisi economiche vogliono essere affrontate con le guerra, in cui popoli rubano risorse ad altri popoli, in cui l'ingiustizia è perpetrata non solo tra umani, ma anche nei confronti di tutti gli altri esseri viventi, ecco giunge ancora una volta la voce innamorata di Dio che promette di aprire, nella progressiva desertificazione dell'esistenza, una strada nuova, una nuova via da percorrere per far “ritorno” alla creazione buona nata dalle sue mani.
La strada c'è, l'itinerario è segnato, perché il Creatore è provvidenza, non lascia soli né noi, né ogni altro essere vivente. All'imbocco di questa nuova strada, noi umani abbiamo a disposizione una duplice scelta: stazionare immobili, intimoriti dal nuovo, paralizzati dalla nostalgia del passato o scorgere in questa via, la promessa rinnovata del Signore di essere abitanti e curatori di questo bellissimo giardino che ci è stato gratuitamente donato.
La parola d'amore di Dio è degna di fiducia ed abbatte ogni paura: sia nostro il coraggio di inoltrarci sulla strada del rinnovamento, della cura e della salvaguardia della cosa creata, perché in ballo la posta è alta e ci coinvolge personalmente. Sia nostro il coraggio di attraversare l'impervio cammino che possa traghettarci verso un mondo nuovo, come gli Israeliti passarono in mezzo ai flutti del Mar Rosso (cfr. Es 13-14), perché alla fine del cammino troveremo una terra in cui non solo scorrono latte e miele (Es 3,8), ma anche e soprattutto «come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne» (Amos 5,24).
Marco Agricola - Nella disuguaglianza il Signore è provvidenza in "TEMPO DEL CREATO 2024 Disuguaglianza" Commissione GLAM della FCEI