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Candela dell'Avvento

Tempo di Avvento 2020

Tempo di Avvento


Natale

La Parola è i verità; diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi,
piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria.
Giovanni 1,14

Io sto qui, presso la tua mangiatoia, Gesù, vita mia;
io vengo a portarti e a darti tutto ciò che tu mi hai dato.
Prendi il mio spirito, la mia ragione, il mio cuore, l'anima,
il coraggio; prendi ogni cosa e possa esserti gradita.

Paul Gerhardt

 

O Du Fröhliche/O tu splendente ascolta e guarda l'esecuzione su TouTube

O tu felice, o tu beato,
tempo di Natale portatore di Grazia!
Il mondo è smarrito, Cristo è nato:
Rallegrati, rallegrati, Cristianità!

O tu felice, o tu beato,
tempo di Pasqua portatore di Grazia!
Il mondo è avvolto in nastri, Cristo è risorto:
Rallegrati, rallegrati, Cristianità!

O tu felice, o tu beato,
tempo di Pentecoste portatore di Grazia!
Cristo, il nostro Maestro, santifica lo spirito:
Rallegrati, rallegrati, Cristianità!

O tu splendente non è sempre stato un canto di Natale e soprattutto non era una canzone allegra. Il poeta Johannes Daniel Falk, nato a Danzica nel 1768, scrisse questa canzone per dei poveri orfani. Falk vive ormai a Weimar, quando nell'anno di guerra 1813, nel bel mezzo di una tempesta di neve, un piccolo orfanello bussa alla sua porta. Falk aiuta il ragazzo e fonda la "casa di soccorso per bambini trascurati”, dove fino a 30 bambini trovano rifugio. Gli offre da mangiare, li affida a famiglie e li istruisce nella sua scuola domenicale. Eppure il destino lo aveva colpito duramente, poco prima, infatti, aveva perso quattro dei suoi sette figli a causa del tifo.
Nel 1815 Falk vuole scrivere una canzone per questi “suoi” orfanelli. Sta cercando una melodia. Poiché si dice che il ragazzo accolto per primo fosse siciliano, vuole trovarla in una canzone della sua patria. Finalmente la trova nella collezione di canzoni popolari europee di Herder: “O Sanctissima” cantavano i pescatori siciliani al lavoro. Falk compone il testo come inno per tutte le tre feste principali dell'anno liturgico: Natale, Pasqua e Pentecoste.
Solo più tardi il suo assistente Heinrich Holzschuher scrive la seconda e la terza strofa e la canzone diventa il popolare brano esclusivamente natalizio come lo conosciamo oggi.

 

Quarta Domenica di Avvento - 20 Dicembre

8 In quella stessa regione c'erano dei pastori che stavano nei campi e di notte facevano la guardia al loro gregge. 9 E un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e furono presi da gran timore. 10 L'angelo disse loro: «Non temete, perché io vi porto la buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà: 11 "Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore.
12 E questo vi servirà di segno: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia"». 13 E a un tratto vi fu con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste, che lodava Dio e diceva: 14 «Gloria a Dio nei luoghi altissimi, e pace in terra agli uomini ch'egli gradisce!» 15 Quando gli angeli se ne furono andati verso il cielo, i pastori dicevano tra di loro: «Andiamo fino a Betlemme e vediamo ciò che è avvenuto, e che il Signore ci ha fatto sapere». 16 Andarono in fretta, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia; 17 e, vedutolo, divulgarono quello che era stato loro detto di quel bambino.
18 E tutti quelli che li udirono si meravigliarono delle cose dette loro dai pastori.
19 Maria serbava in sé tutte queste cose, meditandole in cuor suo. 20 E i pastori tornarono indietro, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato loro annunciato.

Luca 2, 8-20

« La luce eterna entra e dona al mondo un nuovo splendore.
Essa risplende nel mezzo dlla notte e ci trasforma in bambini di luce»

Martin Lutero

 

«L'Evangelo non insegna solo la storia di Cristo, ma lo attribuisce e lo dona a tutti coloro che ci credono, che è l'essenza stessa del Evangelo. A cosa mi servirebbe che fosse nato mille volte e che tutto questo mi fosse stato cantato ogni giorno nel modo più delizioso, se non imparo che vale per me e deve diventare di una cosa mia? Laddove la voce risuona, e così debolmente che echeggia, il mio cuore la sente con gioia. Penetra al fondo del cuore e risuona armoniosamente. Se ci fosse qualcos'altro da predicare, l'angelo evangelico e l'evangelista angelo l'avrebbero detto. Poi dice: E questo sarà per voi un segno: troverete un bambino avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia. Le fasce non sono altro che la Sacra Scrittura, nella quale è avvolta la verità cristiana; è qui che troviamo la fede descritta»

«Stiamo quindi in guardia da tutti gli insegnamenti che non insegnano Cristo. Cos'altro vuoi sapere? Di cosa hai ancora bisogno, se sai quello che è stato già detto di Cristo, cioè che, grazie a lui, tu pratichi la fede in Dio e l'amore verso il tuo prossimo e fai al tuo prossimo ciò che Cristo ha fatto a te? Questa è l'intera Scrittura riassunta nel modo più conciso, così che non siano necessarie ulteriori parole o altri libri, ma che è sufficente che tu viva e agisca in questo modo»

«È coricato nella mangiatoia. Consideralo, per essere sicuro che niente deve essere predicato nel mondo tranne Cristo. Che cosa è la mangiatoia se non l'assemblea del popolo cristiano riunito nelle chiese per la predicazione? Noi siamo gli animali di questo presepe, Cristo ci viene presentato come pastura; ne dobbiamo nutrire le nostre anime, cioè, condurle alla predicazione; colui che va ad ascoltare le prediche, va a questa mangiatoia, sì, ma devono essere delle prediche su Cristo. Poiché non tutte le mangiatoie hanno il Cristo, e non tutti i sermoni insegnano la fede; anzi, c'era una sola mangiatoia a Betlemme dove era nascosto questo tesoro, ed era anche una povera stalla disprezzata, nella quale non c'era foraggio. Quindi la predicazione dell'Evangelo è priva di tutte le altre cose, essa non ha e non insegna altro che Cristo; ma se insegna qualcos'altro, non è più la piccola mangiatoia del Cristo, ma
la mangiatoia dei cavalli di battaglia, piena di insegnamenti umani e di pastura umana»

Martin Lutero Vangelo per la messa della notte di Natale (1521), una lettura allegorica del testo biblico.

Dietrich Buxtehude - Nun komm der Heiden Heiland, BuxWV 211

 

Terza Domenica di Avvento - 13 Dicembre 2020

Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei mandarono da Gerusalemme dei sacerdoti e dei Leviti per domandargli: «Tu chi sei?»
Egli confessò e non negò; confessò dicendo: «Io non sono il Cristo».
Essi gli domandarono: «Chi sei dunque? Sei Elia?» Egli rispose: «Non lo sono». «Sei tu il profeta?» Egli rispose: «No».
Essi dunque gli dissero: «Chi sei? affinché diamo una risposta a quelli che ci hanno mandati. Che dici di te stesso?»
Egli disse: «Io sono la voce di uno che grida nel deserto: "Raddrizzate la via del Signore", come ha detto il profeta Isaia».
Quelli che erano stati mandati da lui erano del gruppo dei farisei; e gli domandarono: «Perché dunque battezzi, se tu non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?»
Giovanni rispose loro, dicendo: «Io battezzo in acqua; tra di voi è presente uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me, al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio dei calzari!» Queste cose avvennero in Betania di là dal Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

Giovanni 1, 19-28

"Tu chi sei ?" La domanda è posta in modo lancinante. È tempo di tirar fuori la tessera professionale! È comodo poter classificare in una categoria chi parla, identificarlo: vogliamo sapere con quale autorità sta parlando. Tutto questo rimanda a logiche istituzionali precise e se uno non è né il Messia, né Elia, né un Profeta con la maiuscola, non dovrebbe battezzare.

Ci vedo il segno di un modo di ascoltare profondamente riduttivo che ho visto spesso all'opera. Ci si aspetta che qualcuno abbia un tale punto di vista, che assuma una tale presa di posizione, e gli si attribuisce un ruolo, perché noi lo abbiamo "identificato", classificato. Questo evita le sorprese e conduce i rapporti sociali a girare a vuoto.

Ma Giovanni Battista si presenta semplicemente come una voce. Esorta i suoi interlocutori a prestare maggiore attenzione a quello che dice e meno a preoccuparsi il posto che occupa. Inoltre si considera un traghettatore: grida, nel nome del Signore, apre una via, attende colui che verrà dopo di lui. In breve, non sta costruendo un territorio o una proprietà, sia essa intellettuale o spirituale. In qualunque modo la si consideri, lo si guardi, l'esistenza di Giovanni è precaria. È posto in un luogo intermedio, al di là del Giordano, non è davvero stabilito. È posto in un tempo intermedio, con una missione provvisoria. Egli afferra una parola che rilancia prima che un altro la compia.

In questo inizio dell'Evangelo, Gesù è annunciato come la parola, Giovanni Battista come la voce. Dicono parole che trasportano coloro che le accologono con favore. "Il "trasporto", in questo caso, è tanto emotivo quanto geografico o temporale. Queste sono le parole che ci fanno andare oltre, fuori dalle nostre identità ben definite. E, proprio come Giovanni Battista ha detto, queste sono parole sulle quali non possiamo mettere le mani: ci precedono e ci seguono.

"Io sono ..." è una formula ricorrente nel Vangelo di Giovanni, ma è sempre seguita da una metafora, questa figura retorica che ci trasporta altrove ("trasporto" del resto è il significato primario della parola metafora in greco). Oppure, è lasciata in sospeso, per tre volte, nel capitolo 8: "Io sono", senza attributo. Evidentemente si tratta di un'eco della storia di Mosè che voleva assolutamente avere la risposta alla domanda: chi sei tu? È anche una bella immagine di una parola che ci libera e ci apre alla vita.

Frédéric de Coninck Théologien mennonite Réforme 10 Dicembre 2020

 

Seconda Domenica di Avvento - 6 Dicembre 2020

15Guarda dal cielo, e osserva, dalla tua abitazione santa e gloriosa.
Dove sono il tuo zelo, i tuoi atti potenti?
Il fremito delle tue viscere e le tue compassioni non si fanno più sentire verso di me. 16Tuttavia, tu sei nostro padre; poiché Abraamo non sa chi siamo e Israele non ci riconosce. Tu, SIGNORE, sei nostro padre, il tuo nome, in ogni tempo, è Redentore nostro.
17SIGNORE, perché ci fai peregrinare lontano dalle tue vie e rendi duro il nostro cuore perché non ti tema?Ritorna, per amor dei tuoi servi, delle tribù della tua eredità!

Isaia 63, 15-17

1Oh, squarciassi tu i cieli, e scendessi! Davanti a te sarebbero scossi i monti.
2Come il fuoco accende i rami secchi, come il fuoco fa bollire l'acqua, tu faresti conoscere il tuo nome ai tuoi avversari e le nazioni tremerebbero davanti a te.
Isaia 64, 1-2

7Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore.
Osservate come l'agricoltore aspetta il frutto prezioso della terra pazientando,
finché esso abbia ricevuto la pioggia della prima e dell'ultima stagione.
8Siate pazienti anche voi; fortificate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. […] 10Prendete, fratelli, come modello di sopportazione e di pazienza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore.
Giacomo 5, 7-10

 

Il tempo d’Avvento è una tradizione. Si attende ogni anno di nuovo la nascita di Gesù, del bambinello nato a Betlemme, la discesa degli angeli, la visita dei pastori e poi dei tre magi che recano doni, come se questo fosse il cuore dell’attesa natalizia. Certo, si tratta di un bambino particolare, unico, di un bimbo divino, che in qualche modo viene dal cielo. Ma normalmente tutte le nostre emozioni si fermano lì, a quella culla, a quella mangiatoia circondata da angeli e pastori.

Ben diversa, durante i lunghi anni di esilio in Babilonia, era l’attesa, da parte del popolo d’Israele, di un intervento di Dio, che salvasse il suo popolo dall’annientamento, dalla definitiva cancellazione dall’elenco dei popoli. L’attesa d’Israele era spasmodica: si trattava di una questione di vita o di morte, di essere o di non essere. Il brano di Isaia mette in luce appunto la drammaticità di quell’attesa: si attendeva che Dio, il Dio d’Israele, si rivelasse come il salvatore del suo popolo – che si rivelasse tale proprio quando quel popolo, piombato in una situazione di assoluta impotenza, era prossimo alla fine, quando in nessun modo avrebbe potuto salvarsi con le proprie forze. Il popolo, per bocca del profeta, si rivolge a Dio, richiamandone l’attenzione verso la terra.

All’inizio, Dio è rappresentato come estremamente distante, come abitante nei cieli. Non è solo un’espressione retorica, di reverenza e di adorazione; essa è insieme l’indizio che Israele si sentiva davvero abbandonato dal suo Dio, come se questi si fosse ritirato altrove, fuori dal mondo, abbandonando il suo popolo – e la terra intera – al loro destino. L’esilio d’Israele era il segno che Dio si era allontanato dal suo popolo, e questa separazione da lui, che il popolo sperimentava con l’esilio, è appunto ciò che normalmente definiamo come condizione di peccato. Il peccato, dunque, come separazione, come esilio, come isolamento da Dio, da colui che ci costituisce e ci fa essere. Una separazione che cancella qualsiasi possibilità di comunicazione con lui da parte nostra, un esilio che siamo noi stessi ad aver provocato, ad aver scelto quando non ci siamo più fidati di lui, un isolamento che ci getta in una situazione di impotenza, la quale diventa massima proprio quando più ci crediamo potenti.

L’esilio in Babilonia, per Israele, non era che l’esito visibile di quello che, silenziosamente, invisibilmente, ma ormai da secoli, era accaduto nel rapporto tra Israele e il suo Dio. La tradizione era mantenuta, ma senza più convinzione, la Legge era teoricamente in vigore, ma senza più efficacia sui comportamenti effetivi del popolo, anzitutto delle sue classi dirigenti. Dio era già da tempo altrove.

Ma d’un tratto, al Dio distante e remoto, al Dio totalmente altro, il popolo si rivolge in maniera diversa, in una maniera sorprendente e rarissima in tutto l’Antico Testamento: «Tuttavia, tu sei nostro padre». Nonostante la distanza, malgrado la sensazione di abbandono, Israele si rimette nelle mani di Dio come in quelle di un padre, si rivolge a Dio come a colui che più gli è vicino. Non si affida alla propria fedeltà alla Legge divina, allo zelo nelle pratiche religiose, alla propria storia e gloria.

Anzi, in questo brano, esso arriva addirittura a prendere le distanze dai suoi tradizionali patriarchi, dai suoi padri carnali – Abraamo, e Israele (cioè Giacobbe) – per rendere la paternità a Dio soltanto. «Abraamo non sa chi siamo, e Israele non ci riconosce », cioè: siamo rifiutati da tutti, persino dai nostri stessi padri; senza di te non siamo che orfani. «Siamo diventati – dice il profeta – come quelli che non portano il tuo nome». Il popolo, insomma, riconosce la distanza che lo separa finanche dalla propria consacrata e celebrata tradizione che ne faceva appunto un popolo – il popolo eletto – e si appella direttamente a davanti a lui, né la fedeltà né i meriti degli antenati.

Di questo popolo, distrutto dalla immensa potenza babilonese, non resta che una voce: quella del profeta che si rivolge a Dio. Ma proprio nel momento della più grave distretta, della più grande povertà e tribolazione, la voce osa dire: «Tu, Signore, sei nostro padre, il tuo nome è Salvatore nostro». Come a dire: siamo indegni di portare il tuo nome; eppure, nel tuo stesso nome è iscritta la salvezza di questo popolo indegno. E torna a reclamare l’attenzione di Dio dall’alto dei cieli, per ricevere da lui quella salvezza.

Non si sta pregando per la salvezza dell’anima dei fedeli, non è una preghiera astratta e generica; si chiede un intervento concreto di Dio in favore del suo popolo in carne e ossa: «Oh, squarciassi tu i cieli, e scendessi!». Con questa esclamazione di sapore apocalittico, Israele implora Dio di azzerare la distanza che separa da lui il popolo e il mondo (questo significa: squarciare i cieli); lo implora di scendere, di abbassarsi, di umiliarsi a salvare un popolo tanto basso. Lo implora di ritornare. Il ritorno di Israele nella terra promessagli da Dio, la fine del suo esilio dalla patria e in fin dei conti da se stesso, è inscindibilmente legato al ritorno di Dio fra il suo popolo. La terra, la patria, non è più la terra «dei padri» – i quali, come dice il testo, non riconoscono più Israele – non è più la terra del passato, ma diventa in sostanza la terra «del padre», di Dio Padre di cui s’invoca il ritorno – diventa insomma la terra del futuro, della promessa.

Questo è il tenore dell’attesa d’Israele, al tempo dell’esilio babilonese, come pure al tempo della nascita di Gesù, e anche oltre, nei duemila anni successivi, fino a oggi. Questa era l’attesa delle prime generazioni cristiane, che trovava compimento nella venuta di Gesù, nel suo ritorno nella pienezza della gloria di Dio.

Ne sono chiaramente riconoscibili gli accenti persino nella Epistola di Giacomo: «Siate pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. […] Fortificate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina . […] Prendete come modello di sopportazione e di pazienza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore». Non dunque l’attesa di un tenero bambinello in una culla, bensì l’attesa dell’avvento del Salv atore, del ritorno di Dio con il suo popolo, l’attesa dell’Emmanuel, del Dio-con-noi. In Gesù – così crediamo – Dio scende dai cieli, dalla sua dimora, si abbassa, si umilia, fino a prendere su di sé l’umanità, fino a iscrivere nel suo stesso nome la nostra salvezza.

Ecco dunque il vero contenuto dell’Avvento: Dio che squarcia i cieli, che azzera la distanza che ci separa da lui; che ci salva dalla condizione di peccato, dal reciproco esilio, nostro e di Dio; che trasforma questo esilio, unilateralmente e miracolosamente, in un’occasione di salvezza , di vicinanza estrema e definitiva a lui, e ci p ermette di chiamarlo «padre». Per noi cristiani, Gesù Cristo significa tutto ciò. Per que sto, i cieli che si squarciano, i monti che si scuotono, il fuoco che accende ciò che è morto, Dio che si abbassa per tornare con noi, li rappresentiamo non soltanto nella croce e risurrezione del Cristo, ma pure, in tutt’altra maniera, nella tenera figura del bambinello di Betlemme, una figura che ci per mette di sperimentare anche emotivamente, oltreché spiritualmente, la figliolanza da Dio e la sua paternità.

Che la nostra consacrata tradizione non c’impedisca, proprio a Natale, di ricordare tutto questo, e che il Signore ci permetta di invocare anche oggi, come figli trepidanti e desiderosi: «Padre, ritorna».

Pastore Marco Di Pasquale Riforma numero 47, 7 dicembre 2012

 

Prima Domenica di Avvento - 29 Novembre 2020

27 Poi Gesù se ne andò, con i suoi discepoli, verso i villaggi di Cesarea di Filippo; strada facendo, domandò ai suoi discepoli: «Chi dice la gente che io sia?»
28 Essi risposero: «Alcuni, Giovanni il battista; altri, Elia, e altri, uno dei profeti».
29 Egli domandò loro: «E voi, chi dite che io sia?» E Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo».
30 Ed egli ordinò loro di non parlare di lui a nessuno.
31 Poi cominciò a insegnare loro che era necessario che il Figlio dell'uomo soffrisse molte cose, fosse respinto dagli anziani, dai capi dei sacerdoti, dagli scribi, e fosse ucciso e dopo tre giorni risuscitasse. 32 Diceva queste cose apertamente. Pietro lo prese da parte e cominciò a rimproverarlo. 33 Ma Gesù si voltò e, guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro dicendo: «Vattene via da me, Satana! Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini».
34 Chiamata a sé la folla con i suoi discepoli, disse loro: «Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua. 35 Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio e del vangelo, la salverà. 36 E che giova all'uomo se guadagna tutto il mondo e perde l'anima sua? 37 Infatti, che darebbe l'uomo in cambio della sua anima? 38 Perché se uno si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre suo con i santi angeli».

Marco 8, 27-38


Pur rivelandosi ogni giorno attraverso il suo ministero, Gesù fino alla fine rimarrà non riconosciuto da alcuni. Anche tra i suoi discepoli, il suo ruolo e la sua missione a volte si scontrano con l’incomprensione. E la chiaroveggenza di cui dà prova Pietro in questo passaggio degli Evangeli non impediranno all'apostolo di fraintendere un po' più avanti i propositi del maestro.

Questo episodio arriva subito dopo una guarigione miracolosa, operata da Gesù su un cieco. Come se potesse essere più difficile rimediare alla cecità del cuore ... Un’esperienza che ci ricorda, ancora oggi, quanto il messaggio e la personalità di Cristo implichino una semplicità e una complessità ...entrambe bibliche.

Porre la domanda su chi è Gesù per noi, in questo tempo particolare dell'Avvento non è indifferente. In queste quattro settimane di Avvento coltiviamo l'arte dell'attesa. L'attesa cresce e si adorna di speranza. Per gestire l’impazienza per le prossime vacanze decoriamo le nostre case, le nostre tavole ma anche i nostri cuori, le nostre interiorità come i nostri interni. Ci prepariamo alla venuta di Cristo con tutto il nostro corpo, per mezzo dei sapori specifici di questo mese, con la nostra anima, attraverso meditazioni bibliche, con tutta la nostra intelligenza, attraverso le nostre varie ricerche e domande.

La fede è la speranza delle cose che non vediamo ancora. Che non sappiamo ancora. L'Avvento è il momento di questa speranza di fede. E finché c'è speranza lì c'è vita e amore. Alcune chiese hanno proposto di prolungare il tempo dell'Avvento o meglio di anticiparlo. Per darsi il tempo, in questo periodo difficile da vivere in isolamento e soprattutto in un orizzonte confinato, di avere più luce, più creatività nelle nostre case. Più tempo per chiederci chi è Gesù per noi.

Liberamente tratto da Rèforme 26 Novembre 2020

 

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Ultimo aggiornamento: 24 Dicembre 2020 © Chiesa Evangelica Valdese di Firenze