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Candela dell'Avvento

Meditazioni di Avvento


Martedi 25 Dicembre - Natale

Canto dei pellegrinaggi.
O SIGNORE, io grido a te da luoghi profondi!
Signore, ascolta il mio grido; siano le tue orecchie attente al mio grido d'aiuto!
Se tieni conto delle colpe, Signore, chi potrà resistere?
Ma presso di te è il perdono, perché tu sia temuto.
Io aspetto il SIGNORE, l'anima mia lo aspetta; io spero nella sua parola.
L'anima mia anela al Signore più che le guardie non anelino al mattino, più che le guardie al mattino.
O Israele, spera nel SIGNORE, poiché presso il SIGNORE è la misericordia e la redenzione abbonda presso di lui.
Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe.

Salmo 130

 

Venga il tuo regno

Matteo 6,10

Non si osa quasi predicare oggi questa domanda dell'antica preghiera cristiana: oggi, nella particolare atmosfera sociale e politica del presente. Quasi fosse una preghiera di disillusi e di deboli, che intendano voltare le spalle al mondo ed evadere dalle responsabilità presenti e dai compiti immediati di costruire una nuova civiltà più libera e giusta. Quasi fosse una preghiera reazionaria, tesa, senza rendersene troppo chiaramente conto, a mantenere l'ordine costituito e la società attuale con le sue ingiustizie, minando alla base la volontà rivoluzionaria di effettive realizzazioni e di concreti miglioramenti sul piano storico. Quasi fosse una preghiera stonata con l'epoca e che suonasse disfattismo, sfiducia democraticamente illecita verso la città del domani, che gli uomini vogliono costruire con mani generose.

C'è veramente da domandarsi se, per avere questa impressione e questo spirito di timidezza davanti alla preghiera del Regno, noi non siamo stati infuenzati dalle idee che corrono sui giornali e nelle conversazioni, più che da quell'Evangelo le cui parole non passeranno anche nel passare dei cieli e della terra. Forse perché siamo sensibili alle esigenze e agli orientamenti del nostro secolo fin nel foro più intimo della fede che ci è data dalla predicazione evangelica, noi non sentiamo più questa preghiera in tutto il suo significato antico e in tutta la sua farla attuale. Noi preghiamo questa preghiera, ma senza comprenderla, soprattutto senza forse crederla. Non saper pregare per il Regno significa infatti non credere nel Regno. Significa credere in altri regni e non avere la sapienza evangelica per vedere oltre il loro limite. Oppure significa non credere in nessun regno, malati di disfattismo, poveri di ogni speranza.

Se non crediamo nel Regno che deve venire, vuol dire che non crediamo nel Regno venuto: cioè non crediamo in quel Re oscuro, sconosciuto, bistrattato, sul cui capo è stata posta una corona di spine, sulle cui spalle è stato posto un mantello di porpora, nella cui mano è stata posta una canna. Crediamo che la beffa avvenuta nel cortile del pretorio di Gerulsalemme sia stato l'ultimo atto del dramma e che la scritta posta sulla croce del condannato - «Questo è Gesù, il Re dei Giudei» sia stala l'espressione della giusta condanna di un grande ingannatore.

Ma se, qualunque cosa debba ancora avvenire, abbiamo compreso che il tempo è compiuto e che siamo chiamati a ravvederci e a credere all'annuncio buono del Regno: se abbiamo saputo vedere che l'acqua cambiata in vino, la moltiplicazione dei pani, la tempesta sedata, i malati guariti, i morti risuscitati sono dei segni precursori dell'avvento del Regno: se abbiamo saputo accogliere con la gioia e lo stupore della fede le dichiarazioni inaudite di Colui che dice di avere vinto il mondo e di avere ricevuto ogni potere nei cieli e sopra la terra, al lora non possiamo non pregare:« Venga il tuo Regno».

Vi può essere in questa preghiera tutta l'umanità di colui che prega, vi può essere quella invincibile concupiscenza di cui parlava un Riformatore, per cui anche nella sfera religiosa l'uomo ama se stesso e cerca il proprio interesse. Chi soffre e dal fondo della propria sofferenza sospira al suo stanco «Fino a quando?», può scambiare il suo desiderio di liberazione con il desiderio del Regno. Chi ha fame di pane o fame di casa o fame di amore, può scambiare il suo bisogno insoddisfatto con il desiderio del Regno; chi ha errato e peccato e si vede vincolato al suo errore e al suo peccato, può scambiare il suo disgusto e il suo imbarazzo morale con il desiderio del Regno. Inquesto senso la preghiera del Regno ha certo bisogno di essere perdonata. D'altra parte il Regno è anche tutto questo, è anche la riparazione di tutte le ingiustizie, la guarigione di tutte la malattie, la consolazione di tutte le afflizioni, la redenzione da ogni male e da ogni peccato. Se si chiede che Dio regni, si chiede che non regnino più la malattia e l'ingiustizia, la sofferenza, il peccato e la morte.

Ma nella sua purezza, la preghiera del Regno si ricollega ai Salmi, là dove il salmista sospira: «Come la cerva anela ai rivi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio. L'anima mia è assetata di Dio, del Dio vivente: quando verrò e comparirò al cospetto di Dio?» (Sal. 42,1-2); «lo aspetto l'Etemo ... l'anima mia anela al Signore. più che le guardie non anelino al mattino» (Sal. 130, 5-6). Nella sua purezza la preghiera del Regno non è preghiera di interesse, è preghiera di amore. Amore per il Signore Gesù Cristo, il cui nome non possiamo più sopportare che venga bestemmiato da tutti coloro che non lo conoscono e che non lo comprendono e che ogni giorno gli rimproverano di non intervenire a risolvere la situazioni del mondo e di non manifestare la sua qualità di Signore. Amore per il Signore Gesù Cristo, da cui sappiamo che nessuna forza potrà separarci mai, ma da cui d'altra parte sappiamo di essere «assenti» finché egli venga:(2 Cor. 5, 6 s). Amore per il Signore Gesù Cristo e desiderio immenso di consumare e di gustare appieno la nostra comunione con lui. Il Regno che deve venire, non è qualche cosa: è Lui.

Così che la preghiera «Venga il tuo Regno» si trasfigura nell'altra preghiera con cui si conclude ogni preghiera, ogni annuncio, ogni profezia, ogni promessa, ogni speranza nella Bibbia: «Vieni. Signore Gesù!" (Apoc. 22.20). E la preghiera dei viventi e la preghiera dei trapassati dei secoli dei secoli si fonde nell' invocazione suprema: «Vieni, Signore Gesù!».

Fratelli, sorelle, siamo qui oggi una volta di più per ricevere la nostra fede dalla Parola e per pensarla alla luce de lla Parola che è Cristo. Dopo avere ascoltato e meditato oggi questa Parola, siamo chiamati a dare alla nostra preghiera il contenuto e il respiro di Cristo.

Vittorio Subilia, predicazione rivolta alla chiesa Valdese di Aosta il 12 ottobre 1947

tratto da:
Vittorio Subilia. Il Regno di Dio. Interpretazioni nel corso dei secoli. A cyra di Gino Conte. Claudiana. Torino. 1993


Domenica 23 Dicembre - IVa domenica di Avvento

Vi era in Gerusalemme un uomo di nome Simeone;
quest'uomo era giusto e timorato di Dio, e aspettava
la consolazione d'Israele; lo Spirito Santo era sopra di lui; 
e gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non sarebbe
morto prima di aver visto il Cristo del Signore.
Egli, mosso dallo Spirito, andò nel tempio; e, come i genitori vi
portavano il bambino Gesù per adempiere a suo riguardo le
prescrizioni della legge, lo prese in braccio, e benedisse Dio, dicendo:
«Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola;
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, che hai preparata
dinanzi a tutti i popoli per essere luce da illuminare le genti
e gloria del tuo popolo Israele».
Il padre e la madre di Gesù restavano meravigliati delle cose
che si dicevano di lui. E Simeone li benedisse, dicendo a Maria,
madre di lui: «Ecco, egli è posto a caduta e a rialzamento di molti
in Israele, come segno di contraddizione»

Luca 2,25-34

 

Luca ci descrive il mistero del bambino, dopo la ,sua nascita nella stalla di Betlemme, in altri incontri. Uno dei racconti più belli è certamente l'incontro fra il bambino e il vecchio Simeone. L'evangelista riprende volentieri questo motivo del bambino e del vecchio, ben noto sia ai greci che agli ebrei. Sa che questi incontri toccano in modo particolare il cuore degli uomini. Attraverso quest'incontro vuole mostrare chi è il bambino e la trasformazione che può causare anche in chi è già avanti negli anni, come il vecchio Simeone.

Quaranta giorni dopo la nascita, Maria e Giuseppe portano il bambino al tempio di Gerusalemme, per presentarlo al Signore. Luca trascura il rito della purificazione della madre e dell'offerta del bambino al Signore. Gli sembra più importante l'incontro che in quell'occasione avviene nel tempio: «Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d'Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch'egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: "Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele"» (Le 2,25-32).

Luca descrive con quattro pennellate l'essenza del vecchio: è giusto; è pio; aspetta la consolazione di Israele; lo Spirito Santo è su di lui. Giusto significa che Simeone realizza l'ideale dell'uomo descritto dal filosofo Platone già quattro secoli prima di Cristo. Per Platone è giusto l'uomo che vive in base alla sua natura e pratica l'onestà anche nei riguardi delle persone che lo circondano. La giustizia è un atteggiamento fondamentale anche per Israele. Si tratta di vivere in un modo pienamente corrispondente alla volontà di Dio.

Pio indica una relazione interiore con Dio, un legame emotivo con Dio. Simeone è entrambe le cose. Pratica la giustizia e ha il cuore sempre aperto a Dio.

Luca aggiunge che Simeone è un uomo in attesa: attende la salvezza di Israele o, alla lettera, la consolazione di Israele. In Israele, con questo termine si indica la salvezza che il Messia porterà al popolo. La guarigione delle nostre ferite è anzitutto consolazione della nostra tristezza. La consolazione deriva dall'esperienza della presenza di Dio nella nostra tristezza e dal fatto che egli non ci lascia soli. In Gesù, Dio è venuto a noi per restare con noi, non per consolarci a parole, ma per sostenerci nella nostra tristezza.

Infine, su Simeone c'è lo Spirito Santo. Simeone è pieno di Spirito Santo. Quest'espressione tradisce la vicinanza di Luca alla spiritualità degli esseni. Gli esseni affermavano che i fedeli possedevano lo Spirito. Molti primi cristiani provenivano dagli ambienti esseni. In Simeone. Luca descrive il modello del vero cristiano.

Ora questo vecchio, pieno di Spirito, prende il bambino tra le braccia e pronuncia su di lui parole che sono rivolte a Dio. Simeone loda Dio. Ma, nella sua lode, parla del bambino e svela il suo mistero. Ringrazia Dio, che ora gli permette di morire in pace. Il suo ardente desiderio è stato soddisfatto. Nel bambino che tiene fra le braccia, vede la salvezza che Dio ha preparato per tutti i popoli. Gesù non è solo un bambino santo, ma un bambino attraverso il quale Dio vuole fare grandi cose. Questo bambino è la luce. luce che illumina i pagani e rischiara la loro oscurità, e la gloria del popolo di Israele.

Maria e Giuseppe si stupiscono anche per le parole del vecchio Simeone. Simeone benedice i genitori e il bambino. E' una bella immagine di ogni incontro fra bambini e anziani, siano essi i nonni o altre persone avanti negli anni. Il bambino illumina il volto dell'anziano e quest'ultimo risponde con una benedizione, con parole buone sul bambino e sui genitori, mostrando così di essere lui stesso una benedizione per altri.

I bambini hanno bisogno di essere accolti dalle persone anziane, per poter credere in se stessi, per lasciarsi permeare da parole buone, che risvegliano in loro il bene, in mezzo a tutte le parole negative che troppo spesso li feriscono. E i bambini hanno bisogno della benedizione delle persone anziane, per muoversi nel mondo con fiducia e sicurezza. La benedizione li fa sentire sotto la protezione di Dio e li incoraggia a vivere diversamente. I bambini sono sempre una promessa di qual·cosa di nuovo. Ma ciò cne risplende in ogni bambino risplende in modo particolare in Gesù bambino. In lui risplende la gloria di Dio. Il vecchio è felice di poter prendere il bambino fra le braccia. Secondo l'espressione greca, «lo accolse fra le braccia». E' un gesto materno. Sorretto dalle mani del vecchio Simeone il bambino si sente protetto. E ora il vecchio, avendo in mano, nel bambino, la salvezza di Dio, può lasciare tutto, può abbandonarsi, morendo, nelle mani buone di Dio.

L'incontro fra il vecchio e il bambino, descritto da Luca, ci permette di sperare in una felice soluzione dei conflitti generazionali anche ai nostri giorni. Se il bambino rende felice il vecchio e il vecchio, pieno di saggezza, riconosce l'essenza del bambino, la proclama e poi lo benedice, allora anziani e giovani diventano una benedizione e una salvezza gli uni per gli altri. Ma il vecchio Simeone dice ancora una cosa importante a Maria. Le indica il destino che la attende: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione - e anche a te una spada trafiggerà l'anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,34s).

Luca non descrive una scena idilliaca. Il vecchio Simeone rivela a Maria il ruolo che il figlio giocherà in mezzo al suo popolo. Secondo l'atteggiamento che assumerà nei suoi riguardi, ogni persona resterà in piedi o cadrà, risorgerà o perirà. Gesù sarà un segno di contrgddizione. Ai pastori venne dato il segno del bambino nella mangiatoia; ai suoi ascoltatori Gesù darà il segno di Giona. Cosi provocherà e sconcerterà tutti coloro che si aspettavano un segno potente e glorioso da parte di Dio. Con le sue parole e le sue azioni, Gesù svelerà i pensieri degli uomini. L'incontro con lui li porrà davanti alla loro verità. E non sarà una cosa piacevole per tutti. L'anima di Maria sarà trafitta da una spada: anzitutto, perché il figlio si allontanerà sempre più da lei e andrà per la sua strada - cosa che spesso ella non riuscirà a comprendere - ma soprattutto perché morirà su una croce ed ella si sentirà come trafiggere e lacerare da tanta sofferenza. Il vecchio Simeone indica chiaramente a Maria quello che la attende. Non ha bisogno di nasconderle nulla. Può dirle tutta la verità. Infatti sente che ella riconoscerà in quel figlio la luce che Dio ha mandato nel mondo per rischiarare le tenebre.

Anche per noi il Natale non è solo una festa idilliaca, ma anche una festa che ci pone davanti
alla nostra verità. Se, come Simeone, accogliamo il bambino fra le braccia, egli inonderà con la sua luce anche la nostra oscurità, permettendoci di vedere le tendenze nascoste nel nostro cuore che ci impediscono di vivere veramente e offuscano la nostra vera natura.

L'incontro con il bambino nella mangiatoia non è solo bello, ma anche sconvolgente. Ci costringe a guardare in faccia la nostra verità. Il bambino ci mette per così dire davanti a uno specchio, nel quale si riflettono tutte le nostre manie di grandezza e tutti i nostri tentativi di sfuggire alla mediocrità. Il bambino ci costringe a scoprire il bambino ferito dentro di noi e a riconciliarci con lui. E ci mostra che noi non siamo ciò che vogliamo apparire all'esterno. Se come Maria, accogliamo Gesù nella fede e lo lasciamo entrare in noi, allora anche il nostro cuore sarà trafìtto da una spada. Essa separerà in noi ciò che serve alla vita da ciò che ci impedisce di vivere. Separando ciò che è conforme a Dio da ciò che è contrario a lui. In noi Cristo può nascere solo se gli permettiamo di separare l'uomo vecchio, che continua ad allontanarsi da Dio, dall'uomo nuovo che possiamo diventare in lui. Il cambiamento può essere anche doloroso. Può richiedere una sostanziosa potatura per permettere al nuovo di crescere in noi. Nella vita, la nuova linfa cresce a partire dalla vecchia. Ma, affinché il tralcio possa portare fruito, Dio, il vignaiolo, deve tagliare e ripulire molte cose cresciute sul ceppo (cf. Gv 15,2).

Anselm Grün, Il bambino e il vecchio

tratto da:
Anselm Grün. Vi annuncio una grande gioia. Un libro di Natale. Messaggero di S'Antonio Editrice. Padova. 2008


 

 

Domenica 16 Dicembre - IIIa domenica di Avvento

Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me.

Apocalisse 3,20


Non tutti sanno attendere: non chi è sazio, soddisfatto, e non chi è senza rispetto. Sanno attendere soltanto gli uomini che portano con sé un'inquietudine e gli uomini che guardano con rispetto a ciò che è grande nel mondo. Così può festeggiare l'Avvento soltanto colui la cui anima non ha pace, che si sa povero e imperfetto e ha presente la grandezza di ciò che deve venire, di fronte alla quale vale soltanto inginocchiarsi con timore reverente, aspettando finché non si piega verso di noi. E' lo Spirito stesso, Dio in forma di bambino nella mangiatoia. Dio viene, il Signore Gesù Cristo viene, il Natale viene, gioisci cristanità!

[...] Festeggiare l'Avvento significa saper attendere: attendere è un'arte che il nostro tempo impaziente ha dimenticato. Esso vuole staccare il frutto maturo non appena germoglia; ma gli occhi ingordi vengono soltanto illusi, perchè un frutto apparentemente così prezioso è dentro ancora verde, e mani prive di rispetto gettano via senza gratitudine ciò che li ha delusi. Chi non conosce la beatitudine acerba dell'attendere, cioè il mancare di qualcosa nella speranza, non potrà mai gustare la benedizione intera dell'adempimento.

Chi non conosce la necessità di lottare con le domande più profonde della vita, della sua vita e nell'attesa non tiene aperti gli occhi con desiderio finché la verità non gli si rivela, costui non può figurarsi nulla della magnificenza di questo momento in cu risplenderà la chiarezza; e chi vuole ambire alla all'amicizia e all'amore di altro, senza attendere che la sua anima si apra all'altro fino ad averne accesso, a costui rimarrà eternamente nascosta la profonda benedizione di una vita che si svolge tra due anime.

Nel mondo dobbiamo attendere le cose più grandi, più profonde, più delicate, e questo non avviene in modo tempestoso, ma secondo la legge divina della germinazione, della crescita e dello sviluppo.

[...] Gesù sta di fronte alla porta e bussa (Ap. 3,20); del tutto realmente, egli ti scongiura di essere aiutato nella forma del mendicante, del bambino vestito miseramente, ti viene incontro in ogni uomo che ti si para davanti. Cristo peregrina sulla terra finché ci sono uomini che sono il tuo prossimo, che sono lo strumento con cui Dio ti chiama, ti appella, ti rivolge richieste. Questa è la più grande serietà e la beatitudine del messaggio dell'Avvento. Cristo sta di fronte alla porta, vive nella figura dell'umanità fra di noi, gli vuoi aprire le porte o gliele vuoi chiudere?

Ci può suonare strano di vedere in un volto così vicino Cristo, ma egli ha detto che chi si sottrae alla serietà del messaggio dell'Avvento, nemmeno può parlare in cuor suo della venuta del Cristo.

[...] Cristo bussa, non è ancora Natale, ma non è nemmeno l'ultimo grande Avvento, l'ultima venuta di Cristo, e con tutti gli avventi della nostra vita che festeggiamo, il desiderio va verso l'Avvento definitivo, dove si dice: «Ecco, faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5)

Il tempo dell'Avvento è tempo di attesa, ma la nostra intera vita è tempo di Avvento, il che significa di attesa del tempo ultimo, quello in cui saranno cielo e terra nuovi.

 

Dietrich Bonhoeffer, Dietrich Bonhoeffer Werke (DBW) 10, 529,533

tratto da:
Dietrich Bonhoeffer. Voglio vivere questi giorni con voi. Queriniana, Brescia, 2007

 


 

Domenica 9 Dicembre - IIa domenica di Avvento

Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio,
affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
Infatti Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo,
ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.

Giovanni 3, 16-17

 

Se per qualche sventura tutta la Bibbia andasse perduta o distrutta tranne questi due versetti (o anche solo il v. 16), il messaggio cristiano potrebbe ugualmente essere conosciuto, predicato e creduto, l'evangelo continuerebbe a risuonare nel mondo suscitando, dove lo Spirito apre i cuori oltre agli orecchi, fede e conversione.

In questi due versetti infatti c'è tutta la Bibbia: essi bastano a dire e comunicare ciò che è necessario e sufficiente sapere su Dio, sull'uomo e sulloro rapporto. Nella massima concisione viene tra·smesso il massimo di evangelo. È la quintessenza della fede cristiana, raccolta in estrema concentrazione.

Non stupisce che sia una delle parole bibliche più conosciute, citate ed amate - una di quelle parole che è bene conoscere a memoria, così da poterla ripetere ogni giorno, tanto grande e immediata è la forza salvifica che ne promana. Così pure è sempre consigliabile fare come Lutero il quale, nella sua Bibbia personale, sostituì al v. 16 la parola «chiunque» con «Martin Lutero»; ciascun cristiano dovrebbe scrivere lì, al posto di «chiunque», il suo nome nella Bibbia, piuttosto che sulla prima pagina.

In questi versetti ogni parola conta, e la sua ricchezza si dischiude, progressivamente, alla meditazione della fede. Ogni parola va quindi «pesata», accolta nei luoghi profondi della nostra coscienza e meditata a lungo: ciascuna è come uno scrigno che contiene un tesoro di inestimabile valore.

1. Dio «ha tanto amato ... che ha dato». Il dono del Figlio unigenito è il punto di arrivo e il traguardo estremo di una lunga storia d'amore. L'accento cade ovviamente sul «tanto ... che». Perché «tanto»?

a) Perché qui Dio non è più solo colui che dà delle cose, è colui che dà se stesso. L' idolo prende e pretende. Dio . L'idolo non può dare se stesso, altrimenti scompare. Dio appare nella sua più alta espressione proprio nel dono di sé. Si può dare molto amando poco, ma non si può dare se stessi amando poco. Amare per Dio significa dare ma soprattutto darsi. Perciò il suo amore è «tanto» (cfr. Giov. 15 ,13).

b) In secondo luogo lo è perché il Figlio non è solo mandato ma proprio dato. Un dono è definitivo, irrevocabile. Il Figlio non è di passaggio, apparizione fugace che oggi viene e domani se ne va, una meteora che attraversa il cielo e svanisce nella notte: il Figlio è «dato», consegnato all'umanità - figura che non passa, presenza che non diventa assenza, aurora che non tramonta. Con questo dono, Dio mette le radici nella dura terra dell'uomo.
Da notare sono anche le due forme verbali al passato («ha amato ... ha dato»): servono a sottolineare il carattere storico della rivelazione di Dio; l'espressione suprema del suo amore è un evento storico molto preciso: la venuta e l'opera di Gesù di Nazareth. Parlare cristianamente dell'amore di Dio è possibile non già evocando l'armonia del creato o le gioie della vita ma riferendosi molto concretamente a Gesù «dato» da Dio al mondo.

2. Dio ha tanto amato «il mondo», cioè l'umanità, che qui è chiamata «mondo» per qualificarla come umanità ribelle, ostile, incredula. Dio ha tanto amato l'umanità che da sempre lo nega, lo contesta, lo evita. Che Dio ami tanto il mondo da dare se stesso per lui, per salvarlo, è un annuncio inaudito e, ancora una volta, scandaloso: Israele aspettava di essere salvato mentre «il mondo» sarebbe stato condannato. Così oggi molti cristiani mettono in parallelo la loro salvezza e la condanna del «mondo». Ma il v. 17 li contraddice apertamente: Gesù non è il salvatore per gli uni e il giudice per gli altri ma è il salvatore per lutti.

3. Dio ha dato «il suo unigenito Figliuolo». Se Dio è nostro Pa·dre (Giov. 20,17) siamo tutti suoi figli, ma Gesù solo è ]'unigenito Figliuolo. Così viene in luce il rapporto unico tra Gesù e Dio e con esso il fatto che, donando Gesù, Dio dona se stesso. Occorre aprire gli occhi sulla pienezza e radicalità di questo dono. Ora la piccola parola «Dio», che gli uni benedicono e altri bestemmiano, comincia a diventare più luminosa che misteriosa: «Dio» significa amore incondizionato che si spende per l'uomo.

4. «...affinché chiunque crede in lui non perisca ma abbia vita eterna». Ora entra in scena l'uomo, finora tutto è stato opera di Dio. Ora la salvezza è compiuta, il dono è avvenuto. Si tratta solo di riceverlo. Chi lo riceverà? «Chiunque ... »! Splendida parola evangeliica! Bisognerebbe scriverla a caratteri cubitali sulla facciata di ogni chiesa. Nessuno è escluso, nessuno è discriminato, nessuno è di troppo. Questo «chiunque» sei tu, sono io. Chiunque «crede in lui». Senza fede nulla accade. Perché la fede è necessaria? Non perché sia un'opera meritoria che poi venga ricompensata, ma per·ché, come dice molto bene Lutero: «Se credi hai, se non credi non hai». La fede è necessaria perché è l'unico modo per ricevere le cose di Dio. Se siamo poveri non è perché Dio non dà ma perché, vivendo senza fede, non riceviamo nulla. La fede è come la finestra o l'apertura attraverso la quale la luce del sole entra in una stanza buia. Se non c'è questa apertura, nessuna luce può entrare. Adoperiamo un'altra immagine: come per mangiare occorre appetito, così per far proprio il dono di Dio, occorre la fede (ma come non è l'appetito che crea il cibo, così non è la fede che crea il dono di Dio).

« ... non perisca ma abbia vita etema»: qui appare il traguardo finale, la «vita elerna» , cioè la vita stessa di Dio. II senso della rivelazione è la vita del mondo. «Eterna» non è solo una indicazione di durata ma di qualità: la vita mortale diventa eterna cambiando comenuti e quindi qualità - vita di amore e non più di indifferenza o cinismo; vita di fede e non più di incredulità o scetticismo; vita di speranza e non più di diffidenza o grettezza.

Quale può essere una traccia di commento omiletico? Il grande rischio, predicando su un testo come questo, è di dire una serie di pie banalità. Nessuno danneggia tanto l'evangelo come chi, predicandolo, lo banalizza. Qui occorrerebbe mantenersi su livelli di alta tensione spirituale. Guai quando l'evangdo diventa buon senso! II nucleo centrale e vitale del testo è la successione: amore divino che si dona - fede umana che lo riceve - vita eterna che ne scaturisce.

Bisognerà mettere in rilievo il fatto che Dio si coinvolge tutto nella rivelazione, si identifica con essa, la rivelazione non è una maschera dietro la quale può nascondersi una realtà diversa. Dio non è diverso da Gesù Cristo. In Lui è Dio che ci incontra, ci parla, ci salva.

Bisognerà però anche mettere in rilievo il fano che nella rivelazione dell'amore di Dio non è solo Dio in gioco, lo siamo anche noi. Cristo è venuto a salvare, non a giudicare, ma chi non crede è già giudicato (Giov. 3,18). La salvezza rifiutata diventa giudizio. È in gioco la vita e la morte del mondo - la sua vita e la sua morte «eterna», come durata e come qualità.

Sulla soglia dell'apocalisse, in questa «ultima ora» (I Giov. 2,18) in cui il mondo chiede la vita e fabbrica la morte, giunge il messaggio inaudito di un amore eterno che si offre senza riserve e senza condizioni e che reca con sé il dono supremo: la vita eterna. Per vivere il mondo non ha bisogno di più beni o di più forza: ha bisogno di fede. Senza fede, nulla lo salverà. Con la fede, è già salvo.

Paolo Ricca, Il massimo dell' evangelo

tratto da
Paolo Ricca, Alle radici della fede. Meditazioni bibliche. Claudiana, Torino, 1987

 


 

Domenica 2 Dicembre - Ia domenica di Avvento

E tutti quelli che li udirono si meravigliarono delle cose dette loro dai pastori.

Luca 2,18

Di ciò che i pastori di Betlemme avevano da dire alla gente, potevano e dovevano meravigliarsi realmente non solo alcuni, ma tutti. Essi avevano due cose da comunicare e lo stupefacente, per tutti coloro che udivano, era nel rapporto esistente fra queste due cose. Una era molto naturale e normale: avevano visto un neonato; indubbiamente, nella maggior parte delle persone cui essi lo raccontavano, ciò non destava alcuno stupore. Poi l'altra cosa piuttosto soprannaturale e singolare: era apparso un angelo e aveva parlato loro; di ciò si saranno stupiti i più, ma non tutti: poiché alcuni sapevano che accadono più cose fra cielo e terra di quante la nostra sapienza dai limiti scolastici lasci immaginare. Perché un angelo non deve apparire e poter dire qualcosa? Ma ciò che, senza eccezione, stupì tutti e stupisce ancora ai nostri giorni è la frase che l'angelo aveva detto ai pastori a proposito di quel neonato: «Oggi a voi è nato il Salvatore, che è il Cristo, il Signore!».

Quel rapporto fra le due notizie era, per tutti coloro che ascoltavano, oltremodo stupefacente.

Stabiliamo innanzi tutto questo: il contenuto di tutto il discorso, tanto colmo di stupore, dei pastori, è, secondo la dottrina della Chiesa cristiana, identico a ciò che si intende con la parola Rivelazione. Si potrebbe anche dimostrare benissimo che, effettivamente, vi è pur sempre qualcosa d'altro che merita di chiamarsi Rivelazione. Ma comunque sia: il discorso dei pastori intendeva la Rivelazione di Dio. Ed essa, secondo tale discorso, è questa: il Signore - cioè: il Creatore del cielo e della terra, verso il quale l'uomo è e rimane sempre debitore di se stesso - questo Signore si è fatto uomo come noi, nel nostro spazio e nel nostro tempo, sulla nostra terra ed entrando nella nostra storia, la cosiddetta storia del mondo.

Il Signore Iddio dunque non è soltanto eterno ed invisibile e incorporeo - certo, Egli è anche tutto ciò - ma è pure di questo mondo visibile ed è una persona con un corpo, che parla ed agisce come un pari nostro. Non è abbandonarsi alla fantasia ed all'arbitrio cercarlo in qualche posto nell'«infinito», e farci su di lui una delle tante idee che si possono fare sull'«infinito». Ma egli (senza cessare per questo di essere infinito) è venuto in mezzo a noi nel mondo finito, «è divenuto un povero bambino, poiché ebbe pietà di noi», e ciò che dobbiamo pensare di lui, ci è anche prescritto in un determinato modo.

Noi abbiamo quaggiù un Signore, l'abbiamo in diretto rapporto con la nostra esistenza reale. Ma bisogna dire anche l'altra cosa: il mondo finito non è l'ambito intatto, incontestato, sottoposto alla nostra propria perspicacia e al nostro dominio. Non vi è nessuna «finitezza che riposi in se stessa». Non si può, in una cortese distribuzione dei compiti, assegnare a Dio il cielo e a noi la terra, a lui il mondo invisibile e a noi il mondo visibile. Ma, in questo ambito nostro, Egli ci tocca e ci raggiunge. «il Regno di Dio è vicino». Noi abbiamo quaggiù un Signore, l'abbiamo in immediato rapporto con la nostra reale esistenza. Questo è e questo significa Rivelazione di Dio. Ciò intende il discorso dei pastori a proposito del neonato, che è il Cristo Signore. Di questo si sono tutti stupiti.

Se noi ce ne stupissimo realmente, e se tutti in realtà se ne stupissero - sarebbe l'autentica celebrazione del Natale. V'è uno stupore, a proposito della Rivelazione di Dio, dell'oggetto della festa del Natale, che non è un vero stupore; e che - se lo fosse per ipotesi - non potrebbe essere lo stupore di tutti. La sua irrealtà poi di necessità rende impossibile anche una vera celebrazione del Natale. lo con ciò intendo questo, che al messaggio natalizio ci si può accostare anche con quella meraviglia inerte che si conviene ad un avvenimento storico, la cui importanza e il cui significato non si possono negare, sulla cui portata ci si è lasciati dire qualche notizia, a cui non si è eventualmente alieni dal concedere perfino un carattere prodigioso, soprannaturale - dopo la cui considerazione però, ci si può volgere anche ad altre considerazioni, perché, infine non vi si partecipa o vi si partecipa soltanto come si partecipa, più o meno da lontano, a molti avvenimenti. In questo modo indolente molti si sarebbero meravigliati della notizia dell'apparizione dell'angelo e pochi della notizia del neonato - se fossero state queste notizie il contenuto del discorso dei pastori. Ma il soggetto d'esso era, come abbiamo visto, un altro. Fintanto che la nostra, a proposito del messaggio natalizio, può essere questa meraviglia indolente, il vero discorso dei pastori non è penetrato fino a noi. Se si fosse insinuato in noi quale esso era, cioè in quanto notizia della Rivelazione di Dio, ci meraviglieremmo in ben altra maniera, non così indolentemente, ci meraviglieremmo tutti e subito.

Il vero stupore che allora ci coglierebbe potrebbe consistere nella nostra radicale ribellione a ciò che ci viene detto, ritenendo noi cosa tale da suscitare indignazione che non ci debba essere più concesso di protenderci nell'infinito come e dove ci piace e di fare il nostro Dio di una qualsiasi delle immagini in serie infinita che ce ne potremmo foggiare. Siamo minacciati nell'intima profondità della nostra libertà, se a Dio è realmente piaciuto di essere un Dio ben determinato, che parla e agisce in modo finito e perciò personale. E un'altra circostanza che ci rivolta è il fatto che anche e proprio il campo del finito non debba essere la sfera del nostro dominio; che alle nostre pretese totalitarie, anche e proprio qui, sia posto un limite. Siamo minacciati nell'uso decisivo della nostra libertà, se a Dio è realmente piaciuto di essere finito e quindi, di venire - si potrebbe quasi dire - politicamente, concretamente incontro a noi, anche e proprio nel finito.

Il vero stupore per la Rivelazione di Dio e quindi la vera celebrazione del Natale potrebbe consistere, per noi, nel chiarire questo concetto: la Rivelazione di Dio è veramente (in quel doppio senso) una faccenda che ci indigna. Si deve dirle: no! Si deve negare! Non vogliamo più sentime parlare! Non siamo realmente, tutti noi, molto propensi a decidere in questo senso? Per quanto grave sia questa decisione, bisogna comunque affermare: sarebbe almeno uno stupore vero e, all'oggetto o della celebrazione natalizia, più conveniente di quella.

Il vero stupore che ci potrebbe cogliere, se il discorso dei pastori, quale esso era, penetrasse in noi, potrebbe consistere anche in una profonda riconoscenza per quello che ci viene detto.

Anche a noi potrebbero cadere le bende dagli occhi nel vedere che siamo definitivamente liberati dal «Dio» delle nostre speculazioni e dei nostri sogni, dalle proiezioni nell'infinito che continuavamo a fare e chiamavamo «Dio», senza che fossero Dio.

Ora e soltanto ora, Dio è divenuto per noi Dio: ora che Egli, facendosi uomo e precisamente questo particolare uomo Gesù, ci ha privato della libertà insensata di fantasticare su di lui secondo la nostra misura umana. E potrebbe essere per noi evidente, come una vera liberazione, l'altro fatto: non v'è nulla di vero nell'autodominio e nell'autonomia della nostra esistenza umana, nell'incredulità, priva di Dio, di questo mondo, cui si contrapponga «nei cieli», impotente, un Dio invisibile.

Ora e soltanto ora Dio per noi è divenuto Dio, poiché Egli, quando il Cristo venne in mezzo a noi, ci ha privato dell'insensata libertà di volerci governare ed aiutare da noi stessi. Potrebbe avvenire che ci fossimo tanto stancati, per motivi di ogni sorta, di crearci i nostri dèi e della nostra somiglianza con Dio, da attaccarci alla Rivelazione di cui hanno raccontato i pastori, come uno che sta per annegare si aggrappa alla mano che gli viene portata per salvarlo all'ultimo momento. Anche questo sarebbe autentico stupore. E sarebbe il vero stupore, che alll'oggetto della celebrazione natalizia non solo sarebbe conveniente come quell'altro, ma gli corrisponderebbe. Poiché il Salvatore non è nato per procurarci scandalo, ma perché noi e tutto il popolo avessimo grande gioia.

Non siamo forse tutti più inclini a stupirci veramente in questo senso? Chi potrebbe anticipare come si attui la decisione di cui qui si tratta? E chi potrebbe indagare i cuori e dire che qui sarà presa in questo modo e là in un altro? Ma si può e si deve indirizzarvi: se ciò che i pastori hanno detto penetrerà in noi, avremo tutti motivo di stupirci realmente.

 

Karl Barth, Rivelazione, 1933

tratto da
Karl Barth. L'Avvento il Natale.Morcelliana, Brescia 1992

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Ultimo aggiornamento: 24 Dicembre 2012 © Chiesa Evangelica Valdese di Firenze