Meditazioni di Avvento
E questo vi sia di segno: troverete un bambino
avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia
Luca 2, 12
Per i pastori di Betlemme, trovare il bambino «avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia» deve essere, secondo il senso del sacro testo, il «segno» per riconoscere che questo bambino è il Salvatore, il Cristo Signore esso sta a significare che fra Dio nell’alto dei cieli e gli uomini sulla terra c’é, ora, la pace e che agli uomini in tal modo sono dati, realmente e definitivamente, consigli, ordini e speranza. Le fasce e la mangiatoia devono essere il «segno» di questo.
Com’e strano! Fasce e mangiatoia parrebbero dire: miseria, povertà, stenti e necessità. «Questo vi sia di segno»? Chi, in questo, cercherà il miracolo che Dio nell’alto dei cieli e l’uomo sulla terra siano realmente ed effettivamente divenuti una cosa sola? Questo segno non esprime piuttosto il contrario, l’ira divina e l’impotenza umana, la dilacerazione profonda in cui l’uomo passa il suo tempo senza conforto, senza ordini e senza aiuto? Ma la parola è intesa proprio cosi: «Questo vi sia di segno!»: ecco il prodigio, il Salvatore, per coloro che cercano l’aiuto, é qui.
La Chiesa antica aveva ragione quando, in questo testo, trovava un’allusione al nascondimento della Rivelazione divina. E Lutero aveva particolarmente ragione quando interpretava le fasce e la mangiatoia come un accenno alle Scritture dell’Antico Testamento, in cui Cristo si manifesta sì, ma appunto velatamente. È vero: l’Antico Testamento è in realtà il segno, la rivelazione nell’oscurità. Parla, sì, dall’inizio alla fine, di un’alleanza fra Dio e l’uomo. Ma questo Dio, in tutto il suo agire, é il Dio santo, severo, corrucciato, e l’uomo, in tutto il suo agire, è caparbio e nella sua caparbietà é un essere impotente. L’Antico Testamento non arriva fino alla pacificazione fra le due parti. Questo evento, che promette l’alleanza fra Dio e il suo popolo, non si avvera ancora nell’Antico Testamento. È manifesto anche nell’Antico Testamento, ma oscuramente nascosto, sotto ciò che potremmo intendere anche in senso contrario. L’Antico Testamento non e che il segno della sua verità. È soltanto «profezia» di Cristo: «Troverete un bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia, e questo vi sia di segno!».
Chi cerca la Rivelazione divina, cerca invano, se non si attiene a questo segno. Si può e si deve fidarsene: la Rivelazione non è dove noi crediamo vedere il cielo sulla terra o una terra divenuta celeste, dove crediamo di vedere Dio e l’uomo in armonia o in accordo completo. La Rivelazione non è un’entità riconoscibile, né una intelligenza e una forza dimostrabile, trionfo evidente, successo tangibile, prosperità rigogliosa.
V’è anche tutto questo, certo; ma se si vuole vedervi una «rivelazione» bisogna chiarire che ciò che si vede non è in nessun caso Rivelazione divina. Le manca, per attingere la divinità, il nascondimento. La Rivelazione divina non si lascia scoprire così come si lascia scoprire la bellezza di un’opera d’arte o il genio di un uomo, o come un uomo un popolo può scoprire se stesso.
La Rivelazione divina è lo schiudersi di una porta che si può aprire solo dal l’interno e non dall’esterno. Si può scoprirne soltanto il segno, ma non si può scoprire colui che è «vero Dio e vero uomo». Si possono scoprire soltanto le «fasce» e la «mangiatoia» di Betlemme e la croce del Golgota.
Non si possono scoprire il conforto, il precetto e la speranza, che Cristo ci dà: si può scoprire soltanto il proprio vuoto assoluto, la propria contraddizione a tutto, non Dio che ci domanda perché siamo cosi vacui, perché ci opponiamo a lui con tanto accanimento. Potremmo anche non scoprire questo segno, se ciò non ci fosse dato. Questo segno ci e dato, come é certo che ci è dato l’Antico Testamento. Sulla base della legge e dei profeti possiamo ben imparare a vedere che esso è eretto al centro della nostra vita.
Chi si attiene a questo segno, trova la Rivelazione divina, raggiunge il Cristo, il Signore, riceve conforto, impegno e speranza. Si può dirlo in modo cosi certo e positivo? No, non «sì» può dirlo affatto, e tanto meno in modo cosi certo e positivo. Ma proprio in tale modo sta scritto nelle Sacre Scritture: «Troverete il bambino». Non l’ha detto un uomo qualsiasi, ma l’angelo del Signore, e all’angelo del Signore si può credere. E da lui si può ben ascoltarlo e lasciarselo dire: lo troverete - non solo il segno, ma ciò che il segno indica: «il bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia».
A colui che si attenesse realmente al segno, saldamente e assolutamente solo a questo segno, si potrebbe dire con certezza e positività incomparabile: Sei sulla strada che conduce alla Rivelazione di Dio, la troverai. Poiché il nascondimento, che é espresso in questo segno, non è un’oscurità qualsiasi, un enigma qualsivoglia, un paradosso come che sia, ma il nascondimento di Dio, della sua Rivelazione.
Chi guardasse là dove si presenta questo segno senza batter ciglio, senza lasciarsi sviare dalle «rivelazioni» che non sono la Rivelazione divina, avrebbe già trovato, proprio in tale modo, la Rivelazione divina. Si troverebbe sulla linea che porta infallibilmente a questa meta. Perché, a questo punto, dobbiamo parlare al congiuntivo, con frasi ipotetiche? Esse hanno un significato indicativo, intendono una proposizione assoluta: Troverete! Siamo d’accordo riguardo al segno e siamo d’accordo riguardo al Cristo, cui il segno si riferisce. Ma siamo d’accordo nell’attribuire le due cose all’angelo del Signore, e nel lasciarcelo dire da lui quale angelo del Signore? Ecco la condizione perché tutto l’indicativo natalizio «Troverete!» valga anche per noi. Se questa condizione manca, non siamo collocati su quella linea e non possiamo giungere a quella meta. Ma non possiamo crearla. Chi può fare in modo di attenersi realmente all’alleanza fra Dio e l’uomo, realmente e seriamente senza esitare, all’alleanza in cui la pace cercata gli rimane pur sempre così occulta? Non va tutto contro la presunzione che noi lo facciamo? Il miracolo della Rivelazione in se stessa non deve già essere accaduto all’uomo che si sa attenere veramente a questo segno?
Ma perché non dovrebbe essere soddisfatta già anche questa condizione? Perché l’indicativo del Natale non dovrebbe indicarci già pure che noi non dobbiamo stare fuori, o considerarlo una sublime meraviglia come fosse il portale di una cattedrale gotica, e che noi, invece, siamo già dentro? Che noi abbiamo realmente ripetuto le parole dell’angelo del Signore e le abbiamo udite veramente da lui: «Voi troverete!».
Che noi siamo dunque per via, nel mezzo misterioso di quella strada che si stende fra il segno e colui che il segno indica!
Io posso averlo detto in tutta verità, può venir pronunziato in tutta verità a tutti coloro che leggono: Oggi a voi é nato il Salvatore!
Io? Può esser detto? Sì, a Dio nei cieli nessuna cosa é impossibile, perciò neppure sulla terra tra gli uomini in cui egli ripone le sua compiacenze.
Karl Barth, “Nascondimento”, 1933
(meditazioni sul Natale scritte su diversi importanti quotidiani tedeschi dal 1926 al 1933)
Karl Barth, Weihnacht, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1957.
tratto da Karl Barth,“L’Avvento. Il Natale”, Morcelliana, 1992
domenica 21 dicembre, IV di Avvento
«... sarà chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente»
Isaia 9,5
“Decreto miracoloso”, si chiama questo bambino. In lui e avvenuto il miracolo di tutti i miracoli, dal decreto eterno di Dio è scaturita la nascita di un bambino salvatore. Nella forma di un bambino Dio ci ha dato suo Figlio, Dio si e fatto uomo, il Verbo è divenuto carne (Giovanni 1,14).
Questo e il miracolo dell’amore di Dio per noi ed è la sapienza insondabile di un decreto: il fatto che questo amore ci vinca e ci salvi. Ma poiché questo bambino di Dio e in sé un decreto miracoloso, allora in quanto tale è fonte di ogni miracolo e ogni decreto.
Chi in Gesù riconosce il miracolo del Figlio di Dio, chi riconosce ogni sua parola e azione come miracolose, troverà in ogni miseria e dubbio il suo consiglio definitivo, ultimo, consolatore. Si, prima che il bambino possa aprire le labbra, è ricolmo di miracolo e di consiglio.
Va’ dal bambino nella mangiatoia, credi nel Figlio di Dio e troverai in lui miracolo su miracolo, consiglio su consiglio.
Dio si e fatto bambino Questo bambino significa “Dio é potente”. Il bambino nella mangiatoia non è altri che Dio stesso. Cosa più grande non può essere detta: Dio si è fatto bambino. Nel Gesù bambino di Maria abita il Dio onnipotente.
Fermati un attimo a riflettere! Non dire, non pensare nulla! Stai davanti a questo annuncio! Dio si e fatto bambino!
Povero come noi, misero e bisognoso di aiuto come noi, un uomo in carne e ossa come noi, nostro fratello. Eppure é Dio, eppure é forza.
Dov’é la divinità, dove la forza di questo bambino? Nell’amore divino con cui si e fatto uguale a noi. La sua miseria nella mangiatoia è la sua forza. Nella forza dell’amore si supera l’abisso tra Dio e gli uomini, si supera il peccato e la morte, si perdonano i peccati e si risveglia dalla morte.
Inginocchiati di fronte a questa povera mangiatoia, di fronte a questo bambino di povera gente e ripeti con fede le parole balbettanti del profeta: «Dio é potente»!, e allora egli sarà il tuo Dio e la tua forza.
Dietrich Bonhoeffer DBW 16, 636s.
tratto da Dietrich Bonhoeffer, "Voglio vivere questi giorni con voi", Queriniana, Brescia, 2007
domenica 14 dicembre, III di Avvento
«Poichè un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato...»
Isaia 9,5
Si parla della nascita di un bambino, non dell’atto sconvolgente di un uomo potente, della scoperta audace di un saggio, dell’opera pia di un santo. È qualcosa che realmente va oltre ogni comprensione: la nascita di un bambino deve determinare la grande svolta di tutte le cose, deve portare salvezza e redenzione all’intera umanità.
Ciò per cui si affaticano invano re e uomini di stato, filosofi e artisti, fondatori di religioni e maestri di morale, accade ora soltanto con la nascita di un bambino. Un bambino viene posto al centro della storia universale per svergognare le opere umane più forti.
«Un bambino e nato agli uomini, un figlio e dato da Dio» (Is 9,5). Questo è il mistero della redenzione del mondo, in cui e racchiuso ogni passato e ogni futuro. L’infinita misericordia del Dio onnipotente giunge a noi, discende a noi nella forma di un bambino, di un figlio. Che ci sia nato un bambino, che ci sia dato un figlio, che questo bambino, Figlio di Dio, mi appartenga, che io lo conosca, lo abbia, lo ami, che io sia suo e lui mio, da tutto questo dipende ora la mia vita.
Un bambino ha la nostra vita nelle mani. [. . .] Il nostro vecchio, saggio, navigato, mondo deve aver scrollato il capo con sicumera, forse deve aver addirittura sorriso, quando ha sentito l’invocazione di salvezza dei fedeli cristiani: «Ci é nato un bambino, ci e dato un figlio».
Dietrich Bonhoeffer DBW 16, 634s.
tratto da Dietrich Bonhoeffer, "Voglio vivere questi giorni con voi", Queriniana, Brescia, 2007
domenica 7 dicembre, II di Avvento
«Egli é venuto su... come una radice che esce da un arido suolo; non aveva forma né bellezza da attirare i nostri sguardi, né apparenza da farcelo desiderare. Disprezzato e abbandonato dagli uomini, uomo di dolore, familiare col patire, pari a colui dinanzi al quale ciascuno si nasconde la faccia, era spregiato e noi non ne facemmo stima alcuna»
Isaia 53,2-3
Le parole che abbiamo letto iniziano quel mirabile cap. 53 del Libro di Isaia che e stato chiamato il quinto Vangelo: scritto da un grande profeta sconosciuto del VI secolo a.C., lascia pensosi di fronte alle espressioni stupendamente concrete con le quali ha saputo designare il mistero di Cristo a cosi grande l distanza di secoli. Ma certo il grande profeta anonimo era spiritualmente più vicino a Cristo che molti degli stessi contemporanei di Gesù: Erode, Caiafa, Pilato, gli scribi che non compresero Gesù. Era più vicino a Cristo che molti dei nostri stessi contemporanei, che vivono in un mondo pretendente il nome di cristiano, nel secolo che è il XX dopo Cristo, e di cui pure la reale posizione spirituale è di molti secoli prima della nascita di Cristo — ante Cristum natum — tanto il loro spirito è lontano dall’Evangelo ed estraneo a Cristo.
Guidati dall’alta ispirazione del profeta, vogliamo cercare di comprendere qualcosa della bassezza di Cristo.
È facile predicare falsamente l’abbassamento di Cristo. È facile vedere nell’abbassamento di Cristo uno spirito di umiltà e dire che noi dobbiamo imitare tale umiltà. Ma questo significa vedere Cristo nelle categorie della morale: quello che importerebbe allora in lui non sarebbe la sua persona, ma i sentimenti che egli ha coltivato: per cui la sua persona potrebbe essere dimenticata, la sua persona potrebbe anche non essere mai vissuta: rimarrebbe alto, indipendente, il sentimento, l’idea, il simbolo. Ma Cristo non va predicato nelle categorie della morale, Cristo va predicato nelle categorie della fede: non si ammira Cristo, si crede in Cristo.
Ora non è facile credere in un uomo che non ha nessun titolo da «attirare i nostri sguardi, né apparenza da farcelo desiderare». Quello che sconcertò i giudei del secolo I fu il modo in cui Gesù apparve. Essi si aspettavano che il Signore apparisse nella pienezza della sua potenza: era un’attesa perfettamente comprensibile. Non avevano capito, non potevano aver capito questa profezia: non si vedono i contorni e le forme di un oggetto mentre è notte, bisogna aspettare il giorno e, quando è giorno si stenta a credere che l’oggetto chiaramente visto alla luce sia lo stesso che si era toccato a tastoni nel buio e che si era immaginato tutto diverso. I giudei si aspettavano un Messia potente, pieno di prestigio e di autorità: e invece si trovarono davanti un individuo oscuro, di famiglia provinciale, la cui nascita appariva piuttosto equivoca e lasciava luogo a dubbi, la cui opera sembrò non risolvere nessuno dei loro problemi religiosi e politici e finire in uno smacco. Non ne fecero stima alcuna, lo disprezzarono e infine lo abbandonarono.
Per gli uomini dei secoli passati era difficile immedesimarsi in questa situazione: perché gli uomini dei secoli passati si erano abituati a considerare Gesù sul piano delle grandezze umane e sotto una luce ideale. Gesù per loro non era più una radice che esce da un arido suolo, ma era anzi un grande albero lussureggiante, la cui statura sorpassava la statura di tutti gli altri alberi vicini e le cui vigorose radici si abbarbicavano a un terreno grasso, fecondo, coltivato da secoli di predicazione. Apprezzato e seguito dagli uomini, tutti ne avevano stima e la chiesa che aveva preso origine dal suo nome era piena di forme e di bellezze da attirare gli sguardi e ricca di apparenze, così che il suo favore era desiderato e sollecitato.
Oggi le cose sono cambiate e stanno cambiando a ritmo impressionante. La grande marea dell’incredulità che sale e che sta togliendo del tutto dal volto la maschera dell’ipocrisia, tanto a Oriente quanto a Occidente, aiuta noi a porci nel nostro tempo negli esatti termini di fronte a Gesù. Il terreno da cui sorge la radice cristiana, per lunga, ostinata incuria, è ridiventato terreno arido, non più irrigato, non più coltivato dagli uomini terreno considerato straniero rispetto alla civiltà e alla vita degli uomini, terreno di cui, per magnanima concessione, si lascia ancora l’uso — e neanche dappertutto! — a quel particolare sindacato di tecnici specializzati che sono gli esseri religiosi.
In questo terreno una piccola radice, che sembra ormai del tutto disseccata, incapace di far germogliare nuovi virgulti. Quale nuova primavera ci si può aspettare dalla vecchia, esausta radice cristiana, che ha dato tutto quello che poteva dare e che ormai da mille segni sembra sopravvissuta alla sua funzione? Il cristianesimo ha fatto le sue prove nella storia e con quali risultati chiedono pensosi e turbati gli uomini della nostra generazione? — Che ci stanno a fare 20 secoli di cristianesimo? Che cosa hanno prodotto di buono e di meglio? Che cosa è cambiato? Quali sono i frutti dell’opera di Cristo?
Se le ideologie che hanno retto questi ultimi secoli e che derivano, sia pur indirettamente, la loro ispirazione dal cristianesimo, si rivelano spuntate e impotenti ormai a dare un’anima alle nazioni e una struttura vivibile alla società — se in un mondo che si richiama a quel cristianesimo che ha innalzato in mezzo alle genti il vessillo dell’amore del prossimo, il problema sociale si dibatte senza trovare la soluzione — bisogna pure, e senza altri rinvii, pensare a cercare nuove verità e nuovi messaggi capaci di orientare l’umanità e risolvere i suoi problemi. Non è forse giunta l’ora storica delle grandi decisioni: non dobbiamo una volta per tutte lasciare alle nostre spalle il nome del Messia di Nazareth, che si e rivelato incapace di risolvere i problemi del nostro mondo e cercare all’orizzonte altri nomi e altri sistemi più validi a salvarci?
Cosi Gesù oggi è di nuovo e una volta di più l’essere «disprezzato e abbandonato dagli uomini, pari a colui dinanzi al quale ciascuno si nasconde la faccia». Ieri non aveva neanche più senso confessare Cristo, perché tutti si dicevano cristiani: oggi e ridiventato difficile confessare Cristo, richiede una maturità e una fermezza di fede chiaroveggente, che certo non è frequente. Per cui diventa tentante velare o addirittura nascondere la propria faccia di cristiani. La timidezza, l’incertezza, la mancanza di gioia della fede dei cristiani indica in quale misura essi siano determinati da questo disprezzo diffuso e come sia difficile superare lo scandalo della mangiatoia di Bethlehem, che è una cosa sola con lo scandalo della croce e che si ripercuote nei secoli.
Gli uomini di oggi come gli uomini di ieri, giudei o greci che fossero ieri, cristiani o atei che siano oggi, rimangono sconcertati e inquieti davanti al mistero del Figlio dell’Uomo. E pressati dall’urgenza angosciosa dei problemi che battono alla porta della nostra generazione o passano oltre e, animati dalla speranza di un nuovo messianismo, voltano la faccia verso altri punti dell’orizzonte contemporaneo o rimangono nella loro apatia rassegnata e scettica, che non si scuote più neppure di fronte al pericolo di una nuova guerra.
E così l’uomo di dolore rimane solo, più che mai familiare col patire, rimane il grande spregiato, di cui non si ha stima alcuna, perché non si ritiene più di dover calcolare il suo nome e il suo spirito nel calcolo delle forze che devono presiedere alla civiltà come alla vita personale degli uomini.
Ora è precisamente in questa situazione che possiamo e che dobbiamo determinare il nostro atteggiamento di fede. Avere la serena audacia di rovesciare i termini dell’accusa: ci vien detto da tutte le parti che siamo degli illusi e dei ritardatari a seguire Gesù di Nazareth. Ebbene, non è semplicemente vero. È vero il contrario e quelli che non lo sanno sono i veri illusi e i veri ritardatari.
Un’affermazione folle, senza fondamento? Si, certo, folle della stessa follia con cui un uomo debole, ammanettato dalla polizia di Gerusalemme e condotto alla crocifissione, poteva dire ai suoi spauriti discepoli di allora e a noi timidi discepoli di oggi: «Fatevi animo, io ho vinto il mondo».
Vittorio Subilia, sermone predicato nella chiesa valdese di Aosta il 18 dicembre 1949
e pubblicato sul «Culto evangelico» del 22 novembre 1953.
Tratto da Vittorio Subilia “La Parola che brucia”, Claudiana, Torino, 1991
domenica 30 novembre, I di Avvento
Disse Maria all ’angelo:« Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». E l’angelo le rispose: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell ’Altissimo ti adombrerà perciò anche il bambino che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio»
Luca 1, 34-35
Ora viene la domanda di Maria. Come avverrà questo? Quanto più grande sta dinanzi ai nostri occhi ciò che significa il nome di Gesù, questo regno che non avrà fine, questo regno stabilito in terra, e il fatto che noi siamo giudicati degni di esser parte di questo regno — tanto più impellente sarà la nostra domanda: come avverrà questo, come sarà possibile? Come possiamo comprendere, da dove avremo orecchie per udirlo e occhi per vederlo? Con questa domanda Maria sta in testa come il prototipo a tutta la comunità dell’Avvento e a tutta la Chiesa.
Questa e la grande domanda che noi dobbiamo porre. Noi non sappiamo come ciò avverrà. Non appena ci astraiamo dal fatto che ciò avviene, possiamo soltanto domandare: come avverrà questo? E non sappiamo dare nessuna risposta. La domanda concernente la possibilità, l’innesto della rivelazione di Dio rimane una domanda senza risposta. La risposta può venire solo dall’altra parte: l’angelo parla con Maria. Non le parla di un uomo; al centro della sua vita, al centro della vita di questa piccola fanciulla viene posto ciò che è assolutamente altro, l’inconcepibile realtà di Dio.
Non vi é risposta, non vi spiegazione alla domanda di Maria. Come risposta vi è soltanto Dio stesso. Dove si parla dello Spirito Santo, si parla appunto e più che mai di Dio. Quando la Bibbia parla dello Spirito Santo, parla di Dio in quanto vincolo fra Padre e Figlio, vinculum caritatis. Questo amore che unisce il Padre e il Figlio è quello che rende possibile che vi sia per noi un Gesù, che il Figlio si sia per noi fatto uomo.
ll mistero più intimo e proprio dell’eterno essere di Dio è anche il mistero del suo amore per noi. Interverrà lo Spirito Santo. Dio stesso renderà possibile che vi siano per noi grazia di Dio e verità. «Perciò anche il bambino che nascerà sarà chiamato Figlio di Dio». Nel prodigio di questa nascita si riconoscerà chi è colui che tu partorirai. ll prodigio sarà il segno di ciò che egli è, opera e compie. E da questo segno — non potremo ignorare questo segno — riconosceremo chi egli è.
Karl Barth, Die Verheissung - Lukas, Kaiser Verlag, München 1935
tratto da Karl Barth,“L’Avvento. Il Natale”, Morcelliana, 1992 |