«Tenere viva nel cuore questa
dolcissima predestinazione»
Tratto dalla rubrica " Dialoghi con
Paolo Ricca" del settimanale Riforma del 21 settembre 2007
Sono stato battezzato nella Chiesa
cattolica romana, ma da pochi mesi sono entrato a far parte, in modo
ufficiale, della Chiesa evangelica valdese, di cui ho sempre
condiviso in gran parte la dottrina teologica. Ultimamente,
approfondendo quest’ultima, ho iniziato a nutrire una grande
perplessità sul tema della doppia predestinazione. Domando: ha ancora
senso parlare di questo argomento oppure lo possiamo considerare
datato? Perché Dio, che è tutto Bene dovrebbe scegliere per alcuni
esseri umani la salvezza (bene) e per altri la dannazione (male)? Se
il genere umano è predestinato, allora siamo tutti come dei
«burattini» nelle mani di Dio che è il nostro «burattinaio», e ciò
rischia di portarci verso il disimpegno.
Massimiliano Bianchi –
Pistoia.
No, il tema non è datato, a meno di non considerare datato il tema
di Dio. Ha dunque senso parlarne, anche se non è facile (Calvino dice
che questo tema «sembra a molti alquanto ingarbugliato»). Ha senso
parlarne perché – come ha giustamente intuito il nostro lettore
– la dottrina della predestinazione ha a che fare molto da
vicino con la realtà profonda di Dio, anzi ci conduce, come la
dottrina della Trinità, nel cuore del suo mistero. Dice ancora
Calvino: interrogarsi sulla predestinazione significa «entrare nel
santuario della sapienza divina», ma per evitare che questo santuario
si trasformi in «un labirinto», bisogna che la mente umana non
pretenda a tutti i costi di scandagliare ogni segreto che Dio ha
voluto riservare a sé soltanto. Calvino lo ricorda non per soffocare
le domande, ma per avvertire che non a tutte le domande è possibile
oggi dare una risposta ed è meglio una domanda senza risposta
piuttosto che una domanda con una risposta sbagliata.
Ma veniamo alla domanda del nostro lettore: riguarda la «doppia
predestinazione» sulla quale egli nutre «una grande perplessità».
Anch’io la nutro. Mi chiedo però se partire dalla «doppia
predestinazione» sia il modo migliore per avviare una riflessione
sulla predestinazione. Propongo un itinerario un po’ diverso,
articolato in tre tempi: che cos’è la predestinazione? Che
cos’è la doppia predestinazione? Che cosa possiamo pensarne?
Un termine
rischioso
Che cos’è la predestinazione? Il termine, benché biblico,
può facilmente trarre in inganno in quanto suggerisce l’idea di
un «destino» molto simile al Fato che ha dominato tanta parte del
pensiero greco antico e al quale ogni esistenza umana era sottoposta,
senza la possibilità di sfuggirgli o di modificarlo. Ne può nascere
una concezione fatalista della storia e della vita, e da qui a
pensare che, in balia di quel Fato, «siamo tutti come burattini»
nelle mani di un «burattinaio» che sarebbe Dio – come teme il
nostro lettore –, il passo è breve. Ecco: la prima cosa da fare
per cercare di comprendere la dottrina delle predestinazione è, se
possibile, liberarsi da questa visione, che ne è una caricatura.
Forse la parola «predestinazione» non esprime adeguatamente il
messaggio che contiene. Meglio sarebbe parlare di «elezione». La
predestinazione infatti non è altro che l’elezione di cui parla
l’apostolo Paolo quando dice che in Cristo Dio «ci ha eletti
prima della fondazione del mondo» (Efesini 1, 4). È
l’esperienza di Geremia, al quale Dio rivela: «Prima
ch’io t’avessi formato nel seno di tua madre, io
t’ho conosciuto» (Geremia 1,5). Ed è quello che dice
l’apostolo Paolo: «Quelli che Dio ha preconosciuti, li ha pure
predestinati» (Romani 8, 29). Predestinati a che cosa? «A essere
conformi all’immagine del suo Figlio». Non dunque a essere dei
burattini, ma a conformarci a Cristo, cioè a «camminare
com’egli camminò» (I Giovanni 2, 6), a seguire il suo esempio
facendo quello che ha fatto lui (Giovanni 13, 15), ad avere «lo
stesso sentimento» che è stato in lui (Filippesi 2, 5), a custodire e
osservare le sue parole. A tutto questo tende la predestinazione: non
a trasformarci in automi o marionette, ma a farci crescere verso
Cristo. Potremmo esprimerci in questi termini: predestinazione vuol
dire che Gesù è il nostro destino. Ma appunto: questo «destino», che
è Gesù, è «prima che Abramo fosse» (Giovanni 8, 58), è iscritto in
Dio da sempre. Ecco il senso del pre-conosciuti e pre-destinati: Dio
ci ha eletti, cioè ci ha pensati con amore, «prima della fondazione
del mondo», cioè prima di creare il mondo e di creare noi. Un
po’ come una madre ama il suo bambino prima ancora di
concepirlo, così Dio ci ha amati non solo prima che noi amassimo
(debolmente) lui, ma addirittura prima che noi esistessimo. Questo mi
sembra un pensiero stupendo, che già riempiva di meraviglia
l’autore del Salmo 139: «Nel tuo libro erano tutti scritti i
giorni che m’erano destinati, quando nessuno d’essi era
sorto ancora. Oh, quanto mi son preziosi i tuoi pensieri, o Dio!»
(vv. 16-17). Non siamo figli del caso né della necessità, ma di un
pensiero di Dio. Siamo un pensiero di Dio. Come spiegarlo? Perché Dio
ci pensa? Perché ci pensa con amore e ci elegge? Non c’è altra
riposta che questa: perché Dio è così, lui che «sceglie le cose che
non sono come se fossero, affinché nessuna carne si glori davanti a
Dio» (I Corinzi 1, 28-29). La risposta, cioè, non sta in noi, ma in
lui. È questa – per citare ancora Calvino –
«l’altezza della sapienza di Dio, che egli ha voluto che fosse
da noi adorata più che compresa».
La doppia
predestinazione
Ma come la mettiamo con la doppia predestinazione? Secondo questa
dottrina – come ricorda il nostro lettore – Dio destina
gli uni a salvezza e vita eterna, usando verso loro misericordia, e
gli altri a condanna ed eterna perdizione, usando verso questi il
metro della giustizia? È una dottrina proponibile e difendibile? Dio
è davvero questa specie di Giano bifronte, che con una mano salva e
fa vivere e con l’altra condanna e fa morire? Non c’è
forse qui una contraddizione insostenibile, tale da suggerire un
pensiero assurdo, per non dire blasfemo, cioè che in Dio ci sarebbe
anche il suo contrario, Dio e Antidio insieme, una miscela davvero
troppo umana di amore e odio, luce e tenebre, vita e morte, salvezza
e perdizione? Calvino, come altri teologi prima di lui (a esempio,
gli «agostiniani moderni» Gregorio da Rimini e Ugolino da Orvieto) e
altri dopo di lui (a esempio il «partito» vincente al Sinodo di
Dordrecht del 1618-19), hanno sostenuto, malgrado tutte le
difficoltà, la dottrina della doppia predestinazione, sia pure con
notevoli variazioni che qui non possiamo illustrare, anche se ne
varrebbe la pena. Che dire al riguardo ? Farò due sole
considerazioni.
[a] La prima è che nella Bibbia c’è, in tutta una serie di
passi, qualcosa che assomiglia a una doppia predestinazione, anche se
non mi sembra si possa dire che nella Bibbia ci sia una dottrina in
merito. Nella Bibbia la doppia predestinazione non viene teorizzata,
ma semmai constatata. Alcuni testi biblici affermano o implicano la
doppia predestinazione (o qualcosa del genere), altri testi la
escludono. Farò un solo esempio. Da un lato la Bibbia afferma
ripetutamente che la salvezza è per tutti («Dio ha rinchiuso tutti
nella disubbidienza per far misericordia a tutti» Romani 11, 32);
d’altro lato ci sono parole di Gesù e di Paolo che dicono o
sembrano dire il contrario: «Molti sono i chiamati e pochi gli
eletti» (Matteo 22, 14); «Uno sarà preso e l’altro lasciato»
(Matteo 24, 40); Dio «fa misericordia a chi vuole e indura chi vuole»
(Romani 9, 18), come in antico indurò il cuore del Faraone. Dunque,
la contraddizione c’è nella Bibbia stessa, è innegabile e
– mi sembra – insuperabile.
[b] Può però essere superata se si segue il teologo Karl Barth che
su questa questione ha scritto alcune delle sue pagine più alte,
muovendo una critica radicale all’interpretazione tradizionale
della dottrina della doppia predestinazione. Qual è il suo discorso?
In sintesi è questo: la doppia predestinazione – il «sì» e il
«no» di Dio sull’umanità: il «sì» sull’esistenza
dell’umanità, il «no» sul suo peccato – esiste realmente,
ma il «no» di Dio è stato inchiodato e cancellato da Cristo sulla
croce. Dio stesso, attraverso Cristo, ha preso su di sé, portato e
sopportato tutto il peso del suo «no», della condanna e della morte.
Dopo la croce e nella luce della risurrezione, resta solo il «sì»,
solo la predestinazione alla salvezza e alla vita. In Cristo troviamo
la nostra elezione (e, come ho detto, la nostra predestinazione),
perché siamo eletti in lui, l’«eletto di Dio» (Luca 9, 35; 23,
35); e troviamo anche la cancellazione della nostra condanna, perché
la nostra condanna l’ha portata lui. In Cristo la doppia
predestinazione diventa un’unica predestinazione – quella
alla salvezza e alla vita eterna. Che dire di questa interpretazione?
Direi che essa corrisponde sicuramente al cuore del messaggio
evangelico e come tale va accolta come linea di fondo di un discorso
cristiano sull’argomento. Essa dissipa le ombre che la dottrina
classica della doppia predestinazione poteva proiettare su Dio e
libera le coscienze da ogni timore, ansia o turbamento. Ma anche qui
è consigliabile non trasformare il messaggio in teorema e, ancora una
volta, non rinchiudere Dio in un evangelo diventato sistema.
La posizione
di Barth
Che dire in conclusione? Per quanto concerne la doppia
predestinazione ci sono due possibilità: o sospendere il giudizio,
accettare la contraddizione presente nella stessa Bibbia, senza
pretendere di risolverla; oppure far propria la posizione di Barth
nel senso sopra indicato – e personalmente propenderei per
queste seconda ipotesi. Per quanto concerne invece la predestinazione
(non quella doppia, ma quella semplice, e non tanto la dottrina,
quanto il fatto), essa è biblica, cristiana ed evangelica e fa parte
della nostra Confessione di fede. Per una volta la voglio citare
(nell’italiano dell’epoca), dalla versione del 1662 (che
riproduce sostanzialmente quella francese del 1655): «Noi crediamo
che Iddio cava da quella corruttione e condannatione [del genere
umano, di cui si parla nell’articolo precedente] le persone
ch’egli ha elette dinanzi la fondatione del mondo, non perché
egli prevedesse in loro alcuna buona dispositione alla fede o alla
santità, ma per la sua misericordia in Jesu Cristo suo
figliuolo…» (articolo 11). La predestinazione ha un
grandissimo pregio, anzi due. Il primo è che àncora saldamente la
vita, la fede, la salvezza in Dio, riconosciuto e confessato come
alfa e omega, come principio e fine del nostro «destino». Questo
mette nel cuore la certezza incrollabile del favore divino che non
verrà mai meno, per cui la salvezza non è a rischio, per quanto
avverse possano essere o diventare le circostanze della vita. Non
dimentichiamo che la predestinazione è stata di immenso conforto per
i protestanti perseguitati in Francia e altrove: il «sì» di Dio li ha
per così dire corazzati contro il «no» di Roma e dei suoi alleati che
cercavano di distruggerli. Il secondo pregio è che la predestinazione
fonda quello che è stato chiamato «il trionfo della grazia», in
quanto l’elezione in Dio precede assolutamente ogni merito
dell’uomo, ogni sua eventuale «buona disposizione alla fede o
alla santità». Potremmo dire che la predestinazione è il corollario
del primato della grazia gratuita e incondizionata, cara alla
Riforma, o addirittura il suo coronamento. Ecco perché Calvino
– ancora lui – scrive che questa dottrina «non è soltanto
utile, ma anche dolce e saporita per i frutti che reca». Gli fece
eco, nel Cinquecento, il bestseller del protestantesimo italiano, Il
beneficio di Cristo, contro cui si accanì per decenni
l’Inquisizione romana, che a un certo punto parla della
«consolazione ineffabile» che suscita nel credente «la memoria della
sua predestinazione», il che lo induce a ripensare «continuamente nel
suo cuore questa dolcissima predestinazione» (Benedetto da Mantova e
Marcantonio Flaminio, Il beneficio di Cristo, a cura di Salvatore
Caponetto, Claudiana 1975, p. 99).
Tratto dalla rubrica "Dialoghi con Paolo Ricca" del
settimanale Riforma del 21 settembre 2007
Paolo Ricca pastore e professore emerito della Facoltà
Valdese di Teologia di Roma
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