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“Va nel paese che ti mostrerò”
Quando qualche straniero abiterà con voi nel vostro paese, non gli farete torto.
Tratterete lo straniero, che abita fra voi, come chi è nato fra voi;
tu lo amerai come te stesso; poiché anche voi foste stranieri nel paese d'Egitto. Io sono il Signore vostro Dio.
Non commettete ingiustizie nei giudizi, né con le misure di lunghezza, né con i pesi, né con le misure di capacità.
Avrete bilance giuste, pesi giusti, efa giusto, hin giusto.
Io sono il Signore vostro Dio; io vi ho fatto uscire dal paese d'Egitto.
Osservate dunque tutte le mie leggi e tutte le mie prescrizioni e mettetele in pratica. Io sono il Signore.
Levitico 19,33-37
Queste parole costituiscono un invito potente a ragionare e agire in questa giornata dei rifugiati, in cui come chiese siamo chiamati ad andare alle radici delle nostre ragioni di fede. Molte sono le direzioni in cui si muove la discussione intorno a noi, i temi dell’accoglienza si contrappongono all’idea che non ci sia abbastanza con cui accogliere. Ogni idea brandita come arma, al punto che non sappiamo più scorgere la verità, la realtà, in mezzo a questo rumore di fondo che esce dal fondo delle nostre paure, dal bisogno di proteggersi, dalle spinte alla sicurezza che chiude le nostre porte.
Spesso anche le persone che incontriamo sono spinte a pensare in un modo o nell’altro dagli slogan che abbondano nei media. Dunque forse una delle prime cose che possiamo fare come comunità cristiane è aiutare a ritrovare la realtà dietro a tutta questa confusione. La parola che le chiese e la diaconia svizzera, protestanti e cattoliche, hanno voluto trovare per questa giornata è la seguente: “i rifugiati hanno dovuto lasciare tutto. Tutto tranne il loro talento”. C’è una perdita fondamentale, una fuga precipitosa, il vuoto e la morte che spingono le persone fuori da una realtà in cui si sentono a casa. Ma c’è qualcosa che ogni persona porta con sé, ed è la capacità di contribuire a fare società, a ricostruire la vita. Si tratta di talenti che devono trovare il loro spazio quando le persone che fuggono arrivano tra noi.
È un po’ la scommessa messa in campo dalle nostre chiese con i corridoi umanitari che permettono alle persone di giungere in una terra di rifugio in modo sicuro, senza rischiare la vita nel mare, senza finanziare i commercianti d’uomini, senza cadere nelle mani di organizzazioni violente e crudeli.
Avendo negli occhi il contrasto tra i bambini e le bambine che arrivano a Fiumicino con i corridoi umanitari e quel bambino Aylan morto su una spiaggia turca, come migliaia e migliaia di altri piccoli e adulti, cerchiamo di capire cosa ci dice questa parola di Dio.
Le parole chiave sono: giustizia, naturalizzazione, integrazione, e contrasto a ogni forma di sfruttamento della condizione di fragilità dei rifugiati.
Giustizia:
significa non agire solo in relazione ai nostri interessi economici, per ciò che ci possono rendere. Pensate ai profughi che lavorano per pochi euro nelle campagne, nel Sud ma anche in Piemonte, a raccogliere mele, uva, pomodori.
Giustizia significa restituire alla persona la sua dignità, riconoscerla nella sua capacità e in tutte le sue ricchezze di essere umano, capace di fare amicizia, di amare, di costruire sé stesso e la società in cui vive.
Giustizia implica uscire da un rapporto strumentale, per incontrare davvero una persona.
Naturalizzazione:
nel senso di rendere naturale la sua presenza qui, non in senso amministrativo. “Tratterete lo straniero, che abita fra voi, come chi è nato fra voi”. Nessuna differenza. Significa non schedarlo nella condizione di straniero, di passaggio, estraneo. Ma riconoscere il suo bisogno profondo di stabilirsi, radicarsi, trovare sicurezza in questa terra che non appartiene certo a noi ma ci è donata. Il senso di proprietà estrema che abbiamo sviluppato, in questa società della tecnologia e della sovrabbondanza, ci ha portati a dimenticare che la terra è più grande di noi, che sta nell’ordine della grazia, del dono. Questa terra che ci è donata gratuitamente ci invita alla condivisione.
Integrazione:
“lo tratterete come uno di voi”. Farà parte, cioè, della vostra vita. Diventerà prossimo, vicino. Gli-le sarete vicini nella sua esperienza di precarietà, fragilità, incertezza, nel suo deserto. Già, per lui/per lei, questa è l’esperienza del deserto, della spoliazione.
La Scrittura ci invita a non dimenticare questa esperienza che sta alla base della nostra fede come riconoscenza per una liberazione ricevuta, gratuitamente. Ciò che vediamo e conosciamo della situazione dei rifugiati nei campi organizzati o spontanei, nelle isole della Grecia, ai confini tra Italia e Francia, ci rimanda alla precarietà e fragilità e della vita umana. Ci rimanda alla condizione di movimento che sta al cuore della nostra vita.
“Va nel paese che ti mostrerò” dice Dio ad Abramo nella prima vocazione a intraprendere un cammino di fede. Se la fede è un cammino, anche nelle nostre esistenze così stabili, riconosciamo nel movimento verso una vita più riuscita, più sicura, più piena, il senso di una comune umanità. I rifugiati oggi sono degli esiliati, stanno su un confine che li mette in pericolo di vita. Cacciati con la violenza dalle loro case non trovano accoglienza nelle nostre nazioni europee. Sono banditi, da là e da qua. Il Levitico ci ricorda che è comandamento di Dio l’accoglienza, la giustizia, l’integrazione. Il riconoscere l’altro come fratello, l’altra come sorella. Vicina di casa, amica, persona con cui compiere un cammino. Il Levitico ci spinge alla fonte della nostra fede, del nostro agire, che è nella parola di Dio.
Condividere non perché siamo improvvisamente più generosi, ma perché sappiamo che ogni cosa che abbiamo viene dalla grazia e dalla benedizione di Dio e quella benedizione è per tutti e tutte. Possiamo condividere la nostra amicizia, il nostro sorriso, ed è il primo passo verso l’altro che ci regala un modo diverso di essere umani, insieme, figli e figlie di Dio.
Pastora Letizia Tomassone Sermone di domenica 17 aprile Chiesa Evangelica Valdese di Firenze
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