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OspitalitàGenesi 18:1-5 26-27 1 Il SIGNORE apparve ad Abraamo alle querce di Mamre, mentre egli sedeva all'ingresso della sua tenda nell'ora più calda del giorno. 26 Il SIGNORE disse: «Se trovo nella città di Sodoma cinquanta giusti, perdonerò a tutto il luogo per amor di loro». Giovanni 6:1-15 1 Dopo queste cose Gesù se ne andò all'altra riva del mare di Galilea, cioè il mare di Tiberiade.
Una grande famiglia si raccoglie sull’erba davanti alle mani di Gesù che distribuisce il pane. È composta da gente venuta da ogni parte per ascoltare la sua parola e ricevere da lui guarigione e senso. Gesù suscita la speranza che tutto ciò che rende misera la vita sia superabile: le malattie, la scarsità, l’oppressione militare. Qualcuno descrive questa folla che ha mangiato i pani di Gesù come una folla ubriaca per l’idea di aver trovato un re che li libererà dai romani invasori. Ubriaca di un’idea di libertà. Ma Gesù mette una distanza tra sé e questa idea della folla. Si ritira sul monte, tutto solo. Come in una danza, la folla lo cerca e lo circonda, lo esalta e ne riceve nutrimento. Poi Gesù si ritira in solitudine, nella preghiera, nella relazione più intima e forte con Dio che si manifesta come la sorgente dei suoi gesti pubblici. Quando rende grazie sul pane, prima di distribuirlo lui stesso, senza delegare a nessuno questo gesto necessario di cura. Quando parla di un cibo che non perisce, di cui pani e pesci solo il segno materiale e terreno. In questo gesto Gesù esprime la sua ospitalità. La stessa che viene attribuita ad Abramo alle querce di Mamre e che gli guadagna l’attributo di “giusto”. L’ospitalità è uno dei segni predominanti nella Scrittura: la condivisione di viveri e bevande, l’offerta di un rifugio, sono immagini parlanti del Regno di Dio. Sono ciò che Gesù vuole farci intendere con semplicità rispetto a quel regno che non risponde alle attese della folla, ma al tempo stesso risponde profondamente ai bisogni della nostra umanità. La speranza di un mondo in cui non ci siano muri di esclusione o privazioni che provocano la morte. Gesù è l’ospite perfetto, capace di sfamare più di cinquemila persone in una volta sola, così come Abramo che giunge a dire “fermatevi qui, è per questo che siete passati da questa strada”. L’altro, gli altri che fanno la loro strada faticosa nel deserto, trovano ristoro nel loro viaggio. E per il credente, per Abramo, questi viaggiatori sporchi e provati sono l’occasione di esercitare la propria umanità. Dicono i commentatori che Abramo non si accontentava di ricevere i viaggiatori di passaggio, ma anche nell’ora più calda stava all’erta all’entrata della tenda per scrutare il deserto, per non lasciar passare invano nessuno. Abramo cercava chi poteva aver bisogno di lui, pronto ad accoglierlo come un dono di Dio che faceva maturare ancora un po’ la sua umanità. Non farsi cogliere di sorpresa dall’avvento dell’altro significa essere pronti all’ospitalità. È un insegnamento netto e semplice che viene dall’agire e dalle parole di Gesù e di tutti i profeti. Come discepoli di Gesù l’ospitalità è il modo in cui siamo chiamati a continuare la testimonianza dell’evangelo. Ma il termine “ospite” ha due significati, di colui o colei che accoglie ma anche di chi è ricevuto. E Gesù è anche molto spesso un ospite, a causa della precarietà della sua vita. Non ha una casa, dunque ha bisogno di essere accolto nelle case, che siano di amici o di avversari. Anche alla morte avrà bisogno di un sepolcro imprestato. E nella scena della moltiplicazione ha bisogno di pani e pesci offerti da qualcuno tra la folla. Per lui, l’ospitalità concessa o rifiutata diventa il segno e la misura della nuova vita, al momento del giudizio finale. Perché l’ospite che viene ricevuto si trasforma nell’occasione di Dio di parlare, nell’ospite che accoglie nel Regno di Dio. Tutto il ministero di Gesù è contraddistinto da questa dinamica: coloro che invitano Gesù diventano a loro volta ospiti alla tavola di Dio. Perché Gesù non è un ospite che scompare e si integra, come si usa dire oggi per indicare che non crea problemi. Gesù è un ospite che inquieta e interpella, che pone le domande scomode sulla giustizia, che non accondiscende alle attese di sicurezza della gente ma getta lo sguardo più in là. Quando è lui che invita, come nella scena dei pani e dei pesci, o quando è accolto a una tavola, Gesù pone le domande scomode, quelle che fanno crescere. È l’ospite che porta la presenza di Dio che trasforma e porta a compimento la nostra umanità. Ora, noi siamo la comunità di discepoli e discepole nata da quella parola, da quei gesti, da quella presenza. La nostra prassi di ospitalità, data e ricevuta, scambiata come un’occasione di crescita, è il modo in cui possiamo rendere presente il Dio di Gesù Cristo nel mondo. Il Dio da lui mostrato è accogliente e ospitale: così ha da essere la sua chiesa. Pastora Letizia Tomassone, Chiesa Evangelica Valdese di Firenze |
Ultimo aggiornamento: 1 Agosto 2015 ©Chiesa Evangelica Valdese di Firenze |