Imparare a vivere

di Ute Latendorf

Si può imparare dal sole

A scaldare,

Dalle nuvole

A fluttuare leggeri nell’aria,

Dal vento si impara

A dare spinte,

Dagli uccelli

A guadagnare altitudini.

Dagli alberi si impara

A stare saldi in piedi.

Dai fiori si può imparare

a splendere,

Dalle pietre

a restare,

Dai cespugli in primavera

a rinnovarsi,

Dalle foglie in autunno

a lasciarsi andare,

Dalla tempesta

S’impara la sofferenza.

Dalla pioggia si può imparare

A spandersi,

Dalla terra

A diventar materni,

Dalla luna

A cambiare,

Dalle stelle si impara

Ad essere una fra le tante,

Dalle stagioni si impara

Che la vita

Ricomincia sempre daccapo…

(dal Gemeindebrief 3/2005

delle Chiese Luterane della Sicilia)

 

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Sulla fede

di Olivia Bertelli

 

L’anno scorso, mentre manifestavo a Roma in occasione della firma della costituzione europea, seguendo il corteo mi sono ritrovata di fronte all’entrata del palazzo dei Congressi mentre era in corso la riunione dei capi di stato europei. Mi sono fermata, mi sono appoggiata alle transenne che mi dividevano da quel centro di potere e senza neanche pensarci ho pregato. Ho pregato il Signore che li illuminasse, che lo Spirito Santo li guidasse nel prendere decisioni giuste per il bene dei popoli e che ognuno dei signori seduti là dentro sentisse il peso della sua enorme responsabilità e facesse così in modo da adempiere con la massima serietà e correttezza al suo compito. Attorno a me i manifestanti intonavano slogan politici, i poliziotti in tenuta antisommossa erano schierati ovunque, c’era nell’aria un generale sentimento conflittuale, ma io mi sono fermata e ho pregato. Io, che sono sempre stata un po’ scettica riguardo al ruolo, e più che altro al senso, delle preghiere d’invocazione a Dio, invece di essere nervosa o preoccupata per la situazione, ho trovato la calma e la speranza gioiosa nella mia fede, nella fiducia nel Signore. Mi sono sentita libera da ogni schieramento, da ogni sentimento ostile, da ogni tensione e ho fatto leva in quel momento più che mai sulla sincera, profonda e forte fiducia nell’amore di Dio. Senza esclusioni, senza condizioni. Quella preghiera veniva dal mio cuore, perché lì era radicata la mia fede che il Signore mi ha donata chiamandomi, mi piace pensare, con queste parole : “Io ti fidanzerò a me in eternità; ti fidanzerò a me in giustizia e in equità, in benignità e compassioni. Ti fidanzerò a me in fedeltà e tu conoscerai l’Eterno” (Osea 2, 21-22). Proprio questa giustizia e questa equità di cui parla il profeta Osea sono le componenti principali di quel pilastro che dà forza alla mia vita, la fede. Qualcuno potrebbe domandarsi perché io ritenga così importanti proprio questi due aspetti. Innanzitutto la giustizia, nella fede, è la giustizia del Signore, che unisce e non che divide, che riconcilia il figlio prodigo con il padre, che non conosce il rancore perché si fonda sul pentimento, sul ravvedimento e sul perdono. Sì, soprattutto sul perdono, un perdono a cui rispondo con la più sincera e profonda fiducia perché è come pura acqua di sorgente per la mia anima così debole. Mi sembra quindi che venga spontaneo affiancare l’equità alla giustizia. Troppe volte la giustizia terrena si distacca dall’equità e troppo spesso sembra che, se è vero che la legge è uguale per tutti, ci sia sempre qualcuno che è più uguale degli altri. Invece il fidanzamento in giustizia e in equità non può che essere universale, cosmopolita, sincero e fedele. D’altro canto, è proprio il Signore che ci dice come questa giustizia ed equità saranno i cardini e le funi della fede in Lui: con benignità e compassione. Proprio nell’uscire dal cinismo a cui siamo oggigiorno subdolamente condotti, trovo in queste parole il senso di quell’unico pilastro a cui Dio mi ha chiamata. Capisco infatti il senso della chiamata nel momento in cui cerco di vedere il mondo non più dal centro, in cui sono nata e cresciuta, ma dai bordi, dai limiti, dalla periferia, quando una volta raggiunti i confini più lontani mi volto e osservo da laggiù il centro, allora prendo coscienza che quell’equità, quella benignità, quella compassione di cui parla il Signore nella sua chiamata può essere da noi corrisposta nell’amore verso il prossimo.

E’ proprio qui che si intreccia nuovamente la mia fede con le mie scelte di vita. Penso infatti che la mia decisione di occuparmi delle situazioni critiche in cui versano i paesi in via di sviluppo abbia in molti sensi l’impronta di una fede mirata all’amore per il prossimo nella critica degli schemi odierni e nel bisogno di mutarli alla luce delle parole di Dio :“Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore diventa perfetto in noi” (1 Giovanni, 4: 12). E’ l’amore per i figli di Dio, per la creazione che fa nascere dentro di me una sorta di bisogno vitale di adoperarmi per l’opera del Signore in quanto mi ritengo essere un suo strumento. Non è quindi un “fare del bene” per farmi bella agli occhi del Signore, per andare in giro a evangelizzare o cose simili, ma è un lavorare che deve portare solo al bene di colui o colei al quale o alla quale è rivolto. Insomma, è un bene senza secondi fini da parte di chi lo esercita. Inoltre, cosa fondamentale per cui ho la volontà di portare avanti tutto questo è il fatto che la mia fede, proprio in quanto costante fiducia nel Signore, ha scacciato la paura, anzi, ha scacciato ogni tipo di paura. Forse questo è un tratto ingenuo e sognatore della mia fede e forse ne dimostra l’eccessiva spavalderia, qualcuno potrebbe obbiettarmi che rischio di duellare con i mulini a vento, ma l’assenza di “paura” che la fede mi ha donata è dovuta al fatto che per fare tutto ciò di cui vi sto parlando sono consapevole del fatto che come ha detto Gesù “Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua”.

Se quindi la croce che il Signore mi ha indicato di prendere è una vita dedita alla costruzione di un possibile mondo diverso, resta il problema, che non m’illudo di poter risolvere una volta per tutte, di come seguire Cristo. Dell’amore per il prossimo quale stella polare del mio cammino vi ho già parlato, penso, quindi, che ci sia un altro elemento importante: una sorta di fede militante. Come dice Paolo nella lettera agli Efesini : “State dunque saldi: prendete la verità per cintura dei vostri fianchi; rivestitevi della corazza della giustizia; mette come calzature ai vostri piedi lo zelo dato dal vangelo della pace; prendete oltre a tutto ciò lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno.” Si potrebbe forse dire che l’elemento militante della fede, è una scelta cosciente di lotta portata avanti da un sentimento appassionato e ininterrotto per la vita, ma è proprio questa sicurezza di vivere la fede come un pilastro portante dell’esistenza che mi porta a vedere una lotta ostinata nel seguire Cristo. Una lotta in primo luogo rivolta a me stessa, poiché, nel rapporto fra me e Dio non sarà certo Dio a cambiare, e la sua chiamata comporta necessariamente un radicale cambiamento che cerco di costruire giorno dopo giorno e su cui rifletto spesso. Dall’altro lato, però la lotta è anche all’esterno, è verso schemi mentali e comportamentali pericolosi che portano alla costruzione di una Babilonia sempre più imponente. Tutto ciò mi dà quindi la consapevolezza che quando chiedo più giustizia, uguaglianza, e rispetto io mi metto nella posizione di rispondere alla chiamata in quello che credo sia uno dei modi migliori: tentare di dare agli altri ciò che Dio ha dato a me con la sua chiamata. E proprio nella duplice lotta quotidiana io definisco me stessa cristiana.

Tutto questo rappresenta la fine della fede come asservimento a una dottrina, per la quale troppe volte alcune persone vedono Dio come un Super-io costrittivo ed imposto sin dalla nascita al quale devono ubbidire, ma del quale non cercano di capire davvero il messaggio di salvezza attraverso quel vangelo di pace di cui parla Paolo. Accanto, quindi, alle schematizzazioni della religione come insieme di precetti e regole morali devo affiancare nella mia critica anche quel sentimento religioso che ben poco ha a che fare con la fede in Cristo ma che mi sembra parente fin troppo stretto di una forte idolatria che si manifesta in molteplici casi. Spesso mi sembra di udire nei discorsi dei credenti il dialogo dei discepoli sulla strada di Emmaus: erano rimasti delusi dalla morte di Cristo perché avevano voluto vedere in lui qualcosa che lui non poteva essere: la realizzazione dei loro personali desideri. Per loro il fatto stesso che Cristo fosse morto dimostrava che non era stato in grado di liberare Israele. Non erano quindi tristi per la morte di Gesù, ma erano piuttosto delusi, le loro aspettative erano andate in fumo. Questo per il semplice fatto che si erano costruiti una loro immagine di Gesù, a cui avevano affibbiato attributi che ritenevano giusti, adatti a un capo-popolo. Sono senza dubbio questi gli aspetti che più tengo a tenere lontani dalla mia fede poiché la farebbero degenerare in qualcosa di irriconoscibile. Penso, concludendo, che questa certezza, questa fiducia che è la fede sia l’asse portante non solo della stessa vita, ma anche di una certa capacità di scegliere in cui è presupposta anche la nostra forza di combattere.

Ciò che mi preme sottolineare, come direbbero gli inglesi last but not least che tradotto suonerebbe all’incirca come ultimo nell’ordine ma non per importanza, è il fatto che mi riesce assai difficile, sostanzialmente impossibile, scindere la mia vita dalla mia fede: io posso definirmi una ragazza, italiana, ventenne, studentessa, ma con questo non ho detto ciò che sono veramente: cristiana, e più precisamente valdese. Finchè non avrò detto questo di me avrò detto troppo poco e quando avrò detto questo, tutto il resto seguirà, sarà una conseguenza naturale di questo. Colgo qui l’occasione di rispondere ad una domanda che ci è stata posta: il nostro rapporto con la disciplina. Domanda di non certa né facile interpretazione, ma penso di poter rispondere in questo modo. Vi ho detto che il come seguire Gesù io l’ho basato sulla messa in pratica dell’amore per il prossimo, ma ciò non basta. Freud per illustrare l’es, l’io e il super io li rappresentava in uno schema che potremmo identificare con il termine di anima, ebbene questa nella parte inferiore non è delimitata, non è chiusa. Questo perché, ed è la cosa che più mi colpisce dell’animo umano, non si può dire fin dove arrivi, pesca negli aspetti più torbidi della natura umana, quel cavallo nero del mito della biga alata di Platone è molto più forte e pericoloso del cavallo bianco. La mia fede mi fa capire proprio questo, la mia infrangibile limitatezza, la costante distanza con il Totalmente Altro. Proprio per questo, però, come disse Lutero: “pecca forte, sed credi fortiter”. Infatti se bastasse la fede a determinare le mie azioni, se bastasse la fede per fare sempre le scelte giuste, forse sarebbe relativamente più semplice non cadere nell’errore, ma non è così per quel cavallo nero della biga alata che non posso far finta che non esista, ma posso comprenderlo e dominarlo col polso fermo della fede. Per tutto questo ringrazio infinitamente il Signore, per questo preziosissimo dono che mi ha fatto. Amen.

 

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Ricordando gli impegni di ACCRA

a cura del GLAM (FCEI)

 

Pubblichiamo di seguito due importanti appelli: uno riguarda l’acqua nel nostro paese, l’altro l’agricoltura in Africa, entrambi segnalati dalla Commissione Globalizzazione e Ambiente (GLAM) della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia..

 

 

VERSO IL FORUM ITALIANO DEI MOVIMENTI PER L’ACQUA


L'acqua è fonte di vita. Senza acqua non c’è vita. L’acqua costituisce pertanto un bene comune dell'umanità, un bene irrinunciabile che appartiene a tutti. Il diritto all’acqua è un diritto inalienabile: dunque l’acqua non può essere di proprietà di nessuno, ma deve essere condivisa equamente da tutti. Il modello neoliberista ha prodotto una enorme disuguaglianza nell’accesso all’acqua, dovuta anche alle scelte politiche di Governi inefficaci e corrotti, nonché ha generato una sempre maggior scarsità di quest’ultima a causa di modi di produzione distruttivi  dell’ecosistema.

 Le istituzioni economiche, finanziarie e politiche che per decenni hanno creato il degrado delle risorse naturali e l’impoverimento idrico di migliaia di comunità umane oggi dicono che l’acqua è un bene prezioso e raro e che solo il suo valore economico può regolare e legittimare la sua distribuzione.
Noi sappiamo che non è così. Dopo decenni di ubriacatura neoliberista, gli effetti della messa sul mercato dei servizi pubblici e dell’acqua dimostrano come solo  una proprietà pubblica e un governo pubblico e partecipato dalle comunità locali possano garantire il diritto e  l’accesso all’acqua per tutti e la sua conservazione per le generazioni future.

 

In questa battaglia, insieme globale e locale, è ormai largamente diffusa la consapevolezza delle popolazioni riguardo alla necessità di non mercificare il bene comune acqua e non esiste quasi più territorio che non sia attraversato da vertenze per l’acqua.

Le lotte per il riconoscimento e la difesa dell’acqua come bene comune hanno acquisito in questi anni una rilevanza e una diffusione senza precedenti, assumendo anche nuovi significati ed approfondimenti. Da una parte, le lotte contro la privatizzazione dei servizi pubblici, e per un nuovo governo pubblico e partecipato degli stessi, sono diventate uno degli assi dell’azione dei  movimenti e uno dei nodi del conflitto sociale. Dall’altra, lo specifico tema dell’acqua ha raggiunto consapevolezza sociale e diffusione territoriale, aggregando culture ed esperienze differenti e facendo divenire la battaglia per l?acqua un paradigma di un altro modello di società.

Se per anni, soprattutto grazie all’azione del Comitato per il Contratto Mondiale dell’Acqua, il concetto di acqua come bene comune ha contribuito a costruire modelli valoriali e nuove narrazioni dei conflitti in corso, oggi, grazie al radicamento dei  movimenti, l?acqua è diventata vertenza territoriale con contenuti di forte radicalità e capacità d?azione.



L?esperienza felicemente in corso della campagna per la raccolta firme in Toscana in calce ad una legge di iniziativa popolare per la ripubblicizzazione del servizio idrico; le lotte in Abruzzo che, dall’opposizione al terzo traforo del Gran Sasso, hanno costruito un percorso regionale fino alla nascita dell’Alleanza Abruzzese per l’Acqua; la costituzione del Coordinamento Acqua Pubblica Lazio che ricompone vertenze sia per impedire le privatizzazioni in corso, sia per rimettere in discussione quelle già avvenute; la lotta dei  movimenti contro la svendita del servizio idrico a Napoli e le decine di vertenze aperte in altrettanti territori del Paese, dimostrano come sul tema della difesa dell’acqua si sia sedimentata una nuova cultura e sia scesa in campo una massa critica sufficiente per consentirci di dire che cambiare si può. Qui ed ora.


Con due nuove consapevolezze : la certezza di essere immersi in una battaglia di dimensione planetaria, che dalle lotte in America Latina, in Africa e in India chiama i movimenti ad aprire conflitti nel nord del pianeta, laddove hanno sede le grandi multinazionali dell?acqua; e la maturata consapevolezza della necessità che l?insieme delle vertenze territoriali trovino un luogo di confronto e di scambio, costruendo alcuni obiettivi comuni a livello nazionale.
Un luogo dove sia possibile fare il punto delle esperienze in corso e provare a lanciare con forza l?obiettivo della ripubblicizzazione dell’acqua a livello nazionale e del governo pubblico e partecipato a livello territoriale.


Ecco perché, con questa lettera, ci rivolgiamo a tutti i comitati e a tutte le reti locali, territoriali e nazionali che in questi anni hanno costruito le lotte dei movimenti, per proporre la costruzione condivisa e dal basso del primo FORUM ITALIANO DEI MOVIMENTI PER L’ACQUA.


Non pensiamo ad un evento, anche se vogliamo che ne abbia la medesima evidenza. Non pensiamo ad un appuntamento fine a se stesso, bensì ad una tappa di ricomposizione di quanto prodotto nelle diverse realtà territoriali per moltiplicarne gli effetti sulla dimensione nazionale.


Pensiamo ad un processo costruito dal basso, dalla forza e dall’autonomia dei movimenti, che, per approssimazioni successive, sappia costruire obiettivi politici comuni e capacità di mobilitazione in grado non solo di invertire la rotta dei processi di privatizzazione dell’acqua, bensì di prefigurare nella concretezza delle esperienze l?alternativa di un altro modello sociale.


Per questo chiediamo a tutte e tutti di aderire alla presente lettera e di  moltiplicarne la diffusione e l’adesione nelle diverse realtà territoriali e non.

A tutte e tutti proponiamo un primo Incontro Nazionale per costituire nelle forme e nei  modi che assieme decideremo (tenuto il 23 luglio).

 

Il COMITATO PROMOTORE DEL FORUM ITALIANO DEI  MOVIMENTI PER L’ACQUA.

 

 

 



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Campagna EuropAfrica/Terre Contadine promossa da Terra Nuova e Crocevia per il GA Gruppo d'Appoggio al movimento contadino dell'Africa Occidentale - fra gli altri AUCS, CIPSI, CISV, COSPE - con la partecipazione di Coldiretti, del ROPPA e con la collaborazione di ROBA dell'Altro Mondo fair trade

(Info: Monica Di Sisto + 39 335 8426752 Coordinatrice Nora Mckeon + 39 335 8388785)



Cari G8 basta aiuti, vogliamo lavorare la nostra terra
I contadini africani della rete ROPPA, sostenuti dalla campagna italiana EuropAfrica/Terre Contadine, rivendicano una crescita di produzione agricola dal 20 all'80% e chiedono, alla luce dei propri successi e delle sconfitte del mercato mondiale, di poter scegliere e gestire direttamente il proprio sviluppo

Roma, 4 luglio 2005 - "Cari G8, l'Africa può nutrire se stessa grazie al lavoro dei suoi agricoltori. Non è grazie a una maggiore invadenza del mercato internazionale che gli africani usciranno dalla povertà, ma grazie al lavoro delle proprie famiglie se saranno garantite loro regole più giuste e il timone del proprio sviluppo". Il messaggio, lanciato ai G8 in vista del vertice scozzese, arriva dagli agricoltori riuniti nella rete ROPPA (Reseau des organisations paysannes et de producteurs agricoles de l'Afrique de l'Ouest), che rappresenta oltre 60 organizzazioni locali in 10 Paesi dell'Africa occidentale. "Malgrado le condizioni climatiche difficili, le catastrofi naturali, i tanti conflitti, l'assenza di misure di protezione e di sostegno e di altre entrate garantite, tra il 1990 e il 2002 abbiamo aumentato le nostre produzioni agricole dal 20 all'80%, più dell'America del Nord (dallo 0 al 20%) o dell'Europa dell'Est che ha subito una riduzione stimata intorno al 50%. In più è risaputo che i nostri prodotti sono la fonte principale delle entrate monetarie del nostro Paese".

Per disporre di entrate monetarie Roppa denuncia che i Paesi africani hanno dovuto sostituire una parte delle coltivazioni di sussistenza con coltivazioni d'esportazione, destinate a approvvigionare gli stabilimenti dell'agrobusiness del Nord del mondo. "Questa situazione ha avuto la conseguenza di ridurre l'Africa occidentale a regione importatrice di prodotti alimentari, proprio quell'Africa che invece era una forte esportatrice. Dal 1993 al 2002 quest'area ha aumentato le proprie importazioni di cereali del 60% (per il resto del mondo l'aumento è stato del 18,2%), mentre la loro produzione è aumentata solo del 16,3% (6% per la media mondiale)". Questa importazione massiccia, largamente favorita secondo i contadini del ROPPA da aiuti alimentari e dalle distorsioni del mercato internazionale, "è il risultato di un liberismo dogmatico spinto dalle istituzioni finanziarie internazionale e con la benedizione dei Paesi donatori, tra i quali i G8 in primo luogo".


Ma l'Africa non e' una terra di disperazione perché, grazie a politiche adeguate di sviluppo e di sostegno, può nutrire se stessa come fa tutti i giorni, grazie al lavoro dei suoi contadini, che sono il 70% dei lavoratori africani. L'agricoltura familiare in Africa già oggi assicura più del 90% della produzione agricola e gestisce più del 95% delle terre agricole. "Nonostante la spietata concorrenza internazionale - svela il ROPPA - i piccoli produttori dell'agricoltura familiare assicurano fino al 90%dell'approvvigionamento alimentare delle comunità locali". Tutte le iniziative dei G8 per risolvere i problemi della fame e del sottosviluppo, secondo il ROPPA, "debbono essere accolte con ottimismo, ma la povertà e la fame debbono attaccate soltanto partendo dalle radici, ossia dalle loro cause politiche. Non bastano soluzioni tecnologiche, o iniezioni di volumi considerevoli di dollari per cambiare le cose in Africa. Perché Blair e i G8 siano coerenti nelle loro iniziative, non possono occultare l'analisi delle cause della liberalizzazione e la privatizzazione dei settori economici e dei servizi in Africa e le loro relazioni con la povertà nelle aree rurali. Non possono che sottoscrivere il riconoscimento del diritto dei paesi alla sovranità alimentari e il diritto di ciascuno di sfamarsi autonomamente, attraverso atti politici concreti e investimenti rivolti all'agricoltura familiare".


Gli agricoltori africani chiedono ai G8 di superare gli schemi consueti delle politiche di sviluppo, di consentire all'Africa di ripensare il proprio anche attraverso misure di protezione dei mercati più fragili e di sussidi, ma chiedono anche l'interruzione, da parte dell'Europa, dei negoziati per gli Accordi di partnership economica (EPAs), "perché non è realistico - sottolinea il ROPPA - ipotizzare un'area di libero scambio dove entrino in concorrenza l'Europa e i Paesi africani tra i più poveri del mondo".

 

Al fianco di questa nuova lotta della più ampia rete contadina africana, in Italia si schiera EuropAfrica/Terre Contadine, la nuova campagna nel corso della quale "le Terre Contadine, del Nord come del Sud del mondo - spiega Nora Mckeon, coordinatrice del programma - prenderanno la parola anche questa volta per far conoscere anche in Italia le richieste delle organizzazioni di base, ma anche per

stringere con i cittadini e i consumatori un'alleanza che costringa le leggi che regolano il mercato a rispettare e dare il giusto valore al patrimonio rurale di questo pianeta". La campagna è promossa dalle ong Terra Nuova e Crocevia per il GA Gruppo d'Appoggio al movimento contadino dell'Africa Occidentale - fra gli altri AUCS, CIPSI, CISV, COSPE - con la partecipazione di Coldiretti, del ROPPA e con la collaborazione di ROBA dell'Altro Mondo fair trade.

Ecco il testo completo dell'appello


ROPPA - Réseau des Organisations Paysannes et des Producteurs Agricoles de l'Afrique de l'Ouest (ROPPA)



MESSAGGIO DELLA RETE DELLE ORGANIZZAZIONI CONTADINE E DEI PRODUTTORI AGRICOLI DELL'AFRICA DELL'OVEST AL PRIMO MINISTRO TONY BLAIR E AI MEMBRI DEL G8



Dieci anni dopo il segnale d'allarme lanciato dal Summit Mondiale dell'alimentazione del 1996, si constatano poche evoluzioni nel miglioramento della situazione alimentare di una larga parte della popolazione del globo. Ci sono ancora 840 milioni di persone che soffrono la fame e 2 miliardi di persone con carenze nutrizionali. Ciò vuol dire che l'obiettivo di ridurre della metà le persone che soffrono la fame entro il 2015 non potrà essere raggiunto se la tendenza riscontrata si manterrà costante.


La situazione è particolarmente grave per l'Africa.

Milioni di persone vivono tutti i giorni la precarietà alimentare e la povertà. Più della metà della popolazione dei Paesi Africani al di sotto del Sahara non hanno a disposizione nemmeno un dollaro al giorno per nutrirsi e vivere sereni. I tre quarti di questi poveri provengono da un contesto rurale. E' così, la fame e la povertà colpiscono innanzitutto coloro che vivono negli insediamenti agricoli a conduzione familiare e che forniscono la parte essenziale dei prodotti alimentari di base.


 Le ragioni utilizzate per spiegare la fame e la povertà sono conosciute e ricorrenti. Per porre loro rimedio noi abbiamo ascoltato i numerosi appelli al soccorso e l'impegno rinnovato della comunità internazionale per l'Africa, il solo continente dove la fame non viene mai meno. Quante iniziative, strategie, piani e programmi elaborati nel corso di questi ultimi venti anni: Programmi di aggiustamento, sostegno al buon governo, programmi di lotta contro la povertà, sostegno alla liberalizzazione e alla privatizzazione, l'accordo di Lomé, accesso ai mercati.! Ci siamo un po' persi per la strada!

 Tutto questo è costato alla Comunità internazionale miliardi di dollari, si dice! Ma per i produttori agricoli che cosa ha rappresentato, e che impatto ha avuto? Bisogna per forza riconoscere che le basi di un cambiamento qualitativo nei sistemi di produzione sono lontane dall'essere assicurate. Per un'Africa occidentale soggetta a siccità cicliche solo l'1,2% delle terre coltivate vengono irrigate contro il 19,6% nel resto del mondo. Malgrado la povertà dei nostri suoli, noi non disponiamo che di 0,01 kg di fertilizzanti e di altri inputs per ciascun ettaro messo in valore, mentre il resto del mondo ne utilizza in media 100 kg per ettaro. Per investire nei nostri insediamenti le banche ci mettono a disposizione a malapena 20 dollari per ogni ettaro. Il controllo delle malattie e degli insetti è semplicemente fuori dalla nostra portata. Fortunatamente noi abbiamo le nostre varietà agricole tipiche e i saperi ancestrali che in nessun caso vogliamo ipotecare in cambio di varietà geneticamente modificate o di qualche innovazione poco sperimentata e dalle conseguenze disastrose per noi stessi e per il nostro ambiente ancora siano!

Il paradosso: un'Africa agricola che dipende dall'estero per nutrirsi


Malgrado le condizioni climatiche difficili, le catastrofi naturali, i tanti conflitti, l'assenza di misure di protezione e di sostegno e di altre entrate garantite, tra il 1990 e il 2002 abbiamo aumentato le nostre produzioni agricole dal 20 all'80%, più dell'America del Nord (dallo 0 al 20%) o dell'Europa dell'Est che ha subito una riduzione stimata intorno al 50%. In più è risaputo che i nostri prodotti sono la fonte principale delle entrate monetarie del nostro Paese. Le nostre capitali e le grandi città sono state costruite con il valore aggiunto del nostro lavoro!


Ma le nostre condizioni di vita fondamentalmente non sono cambiate! Noi abbiamo sempre un accesso difficile ai servizi sociali di base. I nostri giovani non vogliono più rimanere nei nostri villaggi e dedicarsi ai lavori dei campi! Questo semplicemente perché i mestieri dell'agricoltura non nutrono più la loro forza lavoro, non fanno vivere una famiglia e fiorire dei bambini! Per disporre di un'entrata monetaria abbiamo dovuto sostituire una parte delle nostre coltivazioni di sussistenza con coltivazioni d'esportazione, destinate a approvvigionare gli stabilimenti dell'agrobusiness nei vostri Paesi del Nord del mondo.


Questa situazione ha avuto la conseguenza di ridurre l'Africa occidentale a regione importatrice di prodotti alimentari, proprio quell'Africa che invece era una forte esportatrice. Dal 1993 al 2002 quest'area ha aumentato le proprie importazioni di cereali del 60% (per il resto del mondo l'aumento è stato del 18,2%), mentre la loro produzione è aumentata solo del 16,3% (6% per la media mondiale)". Questa importazione massiccia, largamente favorita secondo i contadini del ROPPA da aiuti alimentari e dalle distorsioni del mercato internazionale, "è il risultato di un liberismo dogmatico spinto dalle istituzioni finanziarie internazionale e con la benedizione dei Paesi donatori, tra i quali i G8 in primo luogo.


L'arrivo massiccio e incontrollato di prodotti alimentari d'importazione ha avuto effetti perversi sulla produzione locale, sulla professione e i redditi dei produttori. Sono numerose le aziende agricole delle zone costiere che hanno dovuto abbandonare l'allevamento di volatili o la risicoltura impossibilitati a vendere sui propri mercati locali a causa dei prodotti alimentari importati sui quali alcuni godono di sovvenzioni dirette o camuffate.
 

Il mercato mondiale non può sradicare la fame e la povertà

La situazione potrebbe peggiorare se i nostri Stati fossero costretti a lasciare incustodite le nostre frontiere e i nostri mercati agricoli e agroalimentari come stabilirebbero gli accordi della Wto e come ci spinge a fare l'Unione Europea con gli Accordi di Partenariato Economico (EPAs). La realtà risaputa è che nel sistema attuale di liberalizzazione e di globalizzazione, i contadini non guadagnano niente in cambio. Che siano africane, europee, asiatiche o americane, le aziende agricole a conduzione familiare vedono i loro redditi ridursi nonostante l'aumento della produzione. Tanti tra noi sono stati costretti ad abbandonare e i giovani si allontanano dal mestiere.

I nostri produttori agricoli dei Paesi poveri indebitati o molto indebitati, altrimenti detti "persone terra terra" non siamo convinti che solo attraverso il mercato mondiale la nostra povertà si andrà riducendo e la fame si sradicherà. Noi non abbiamo mai smesso di essere nel mercato mondiale proprio come produttori di materie prime d'esportazione, fonti principali di denaro per la stragrande maggioranza dei nostri Paesi. Questo però non ha cambiato la nostra condizione di povertà.


Noi sappiamo, dal punto di vista dei nostri villaggi, che il mercato è sicuramente buono per gli scambi, ma a un certo livello è soprattutto buono per gli intermediari e per i ricchi commercianti! Il mercato internazionale è forse più conveniente per gli agricoltori, ma al momento esso non arricchisce che le multinazionali! E' per questo che noi pensiamo che coloro che governano il mondo che sono "più in alto di tutti" devono prendere delle misure coraggiose per cambiare

profondamente il sistema commerciale, i negoziati della WTO e degli EPAs e devono riflettere bene su strumenti più appropriati di regolazione e di gestione dell'offerta dei prodotti agricoli.

Pensare altre politiche


Noi produttori agricoli africani rappresentiamo l'immensa maggioranza di quelli che sono poveri e hanno fame! Ma non vogliamo vivere di carità e di condiscendenza umanitaria! Noi non vogliamo basare le nostre società rurali sull'aiuto alimentare, per quanto generoso esso possa essere! Noi vogliamo innanzitutto vivere del nostro lavoro!


Noi vogliamo che l'agricoltura e gli agricoltori vengano considerati per le loro molte funzioni e missioni: alimentari, sociali, ambientali e culturali. Un'azienda agricola familiare non è una fabbrica! E' un'unità di produzione, certamente! Ma è un sistema di vita, un modo d'essere e di riprodurre la società! I prodotti agricoli non sono dei beni manifatturieri i cui scambi debbono essere regolati unicamente con le leggi del mercato, conti tutti imperfetti.


E' arrivato il momento che le cose cambino! E' arrivato il tempo di altre politiche e di altri investimenti per l'agricoltura. La povertà non scomparirà dai nostri villaggi fino a quando non sarà riconosciuta all'agricoltura la missione fondamentale di affrancare i nostri Paesi dalla dipendenza alimentare, di favorire il loro accesso a una sovranità alimentare, come è successo in Europa o in America. La povertà e la fame non scompariranno dai nostri Paesi, se noi stessi, i nostri prodotti e i nostri mestieri non godremo di misure appropriate di sostegno e di protezione da parte dei nostri Governi.


Iniziativa Blair: si può e si deve fare di meglio


Dal 2001 i summit dei G8 sono dei momenti importanti sono dei momenti importanti per dei nuovi impegni dei Paesi più ricchi per se stessi, per il mondo e per l'Africa. Tutte le iniziative debbono essere accolte con ottimismo, quella di Blair in particolare! Ma la povertà e la fame debbono attaccate soltanto partendo dalle radici, ossia dalle loro cause politiche. Non bastano soluzioni tecnologiche, o iniezioni di volumi considerevoli di dollari per veder cambiare le cose in Africa.

Perché Blair e i G8 siano coerenti nelle loro iniziative, non possono occultare l'analisi delle cause della liberalizzazione e la privatizzazione dei settori economici e dei servizi in Africa e le loro relazioni con la povertà nelle aree rurali. Non possono che sottoscrivere il riconoscimento del diritto dei paesi alla sovranità alimentari e il diritto di ciascuno di sfamarsi autonomamente, attraverso atti politici concreti e investimenti strutturali rivolti all'agricoltura familiare.

 Fino a che l'aiuto allo sviluppo sarà condizionato all'adesione a schemi di sviluppo dettati da un liberalismo dogmatico, le economie dell'Africa occidentale continueranno a degradarsi e a causare miseria e occasioni di tensione quali quelle registrate negli ultimi anni. Blair deve sostenere il diritto di ciascun Paese, in particolare quelli dell'Africa, di proteggere la propria agricoltura e la propria economia anche con delle tariffe doganali.

 Bisogna senza dubbio sollevare la cappa di piombo che grava sui Governi dell'Africa occidentale e che impedisce loro ogni diritto di avere altre politiche rispetto a quelle già compromesse dei «Documenti di Strategia di Riduzione della Povertà!» (DSRP) all'elaborazione dei quali i poveri e i gruppi vulnerabili hanno partecipato poco.


Blair dovrà ugualmente ottenere dai suoi pari l'arresto immediato dei negoziati per gli Accordi di partenariato economico tra l'Europa e la CEDEAO. In effetti non è realistico immaginare la creazione di una zona di libero scambio e l'entrata in competizione tra l'Europa e i Paesi della CEDEAO che sono tra i più poveri del mondo. Questo è assolutamente inadeguato ai voti fatti di guidare l'Africa verso l'uscita dalla povertà.


Dalla Bibbia: una storia

di Augusto Giron

 

Molti anni fa, c’era un maestro, la cui specializzazione era fare l’impossibile. Dotato di questa capacità, lui si trovava a insegnare in una casa della città chiamata: Capernaum.

Allora, veniva tanta gente che non c’era più posto per nessuno. Nemmeno, di fronte alla porta della casa. Il maestro si chiamava: Yeshua.

Fuori della casa, si trovava un uomo che giaceva in un lettuccio. L’uomo aveva bisogno che Yeshua lo guarisse perché era paralitico. Lui non poteva fare niente per se stesso.

Aveva, però, quattro uomini che guardarono la sua sofferenza e il suo desiderio, la sua fede.

Loro dicevano a se stessi:

Noi non possiamo aprire la folla, o portare il paralitico sopra la folla…

Non possiamo fare un tunnel…

Non abbiamo un elicottero…

Non possiamo aspettare sempre!

Ma! Possiamo fare un’apertura nel tetto.

Si, si, si !!! Questa cosa la possiamo fare.

Un buco nel tetto… nel punto ove è Yeshua… scoperchieremo il tetto nel punto dov’egli si trova !

E poi faremo scendere la barella davanti a Yeshua…

A questo punto dissero:

“Diamoci da fare”

“Impegniamoci”

“Diamoci una mossa”

Io mi immagino questi quattro uomini…

Prendono il lettuccio con le due mani.

Forse, uno di questi ha detto:

Non tanto rapidamente,

Aspetta, aspetta, aspetta !

Questo per bacco è molto grasso!

Questo tipo è grande!

Forse ha detto: Oh mio Dio, oh mio Dio, oh mio Dio, salva! Questo paralitico…

Oppure, quando sono giunti al muro della casa, uno di loro ha detto:

No! non possiamo fare un’apertura nella casa di pietro! Pietro è un uomo severo e duro. Potrebbe arrabbiarsi molto.

Ma un altro uomo può aver detto:

Ricorda! Noi abbiamo fede che Yeshua farà un miracolo. Chi vedrà il miracolo… ringrazierà il Signore.

Io li immagino mentre portano l’uomo sul tetto. La forza, il vigore, il sudore sulla faccia… la polvere sul vestito… l’odore… uff!

Immagino le cose che forse hanno pensato:

Che dirà la gente quando si accorgerà che abbiamo fatto un buco sul tetto? Gli occhi della gente saranno su di noi!

Ma!

Immagino il momento in cui Gesu vide la loro fede…

Penso che lui avrà pensato:

Che fede

Che preghiera

Che visione

Che guida

Che strategia

Che lavoro

Che uomini sono questi?

Mi immagino il silenzio assoluto quando il paralitico fu: messo giù. Mi immagino il silenzio assoluto quando il paralitico fu fatto calare.

Forse solo si poteva ascoltare il vento…

Dopo un momento, quattro uomini udirono queste parole: alzati! Levati!

E l’uomo paralitico si alzò immediatamente sano e salvo… Sano come un pesce…

Prese il suo lettuccio e uscì in presenza di tutti… forte come un cavallo!

Cosi che tutti si stupirono,

E glorificarono Dio dicendo:

“Non abbiamo mai visto nulla di simile.”

“Una cosa cosi non l’abbiamo mai vista.”

“Giammai non vedemmo cotal cosa.” (Bibbia Diodati).

 

Io, mio immagino i quattro uomini:

Che iniziano a saltare di gioia…

E si abbracciano…

Tornarono a casa molto felici.

Tornarono a casa con contentezza.

Sapendo che avevano fatto un buon lavoro.

Il lavoro di Dio!

Il lavoro eterno!

Il lavoro che ha eterna ricompensa.

Il lavoro che Gesù aspetta che i suoi discepoli devono fare…

(Marco 2).

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Forse noi potremmo considerare questi elementi per fare il lavoro del Regno de Dio:

Fede

Preghiera

Visione

Guida

Strategia e

Lavoro.

Il Padre Nostro a puntate

di Elsa Woods

 

“Sia fatta la tua volontà…”

La volontà di Dio, che parolona! Una parolona abusata tante volte! Che ombrellone comodo sotto il quale possiamo nascondere tutto quello che succede, bene o male che sia. E questo può anche farci cadere in un fatalismo di tipo islamico: ma io piccola creatura posso conoscere questa volontà di Dio? Non è un po’ pretenzioso? Sembra che la Bibbia sia stata scritta proprio per farmela conoscere.

Leggo la Genesi e vedo che Dio vuole la vita in diverse forme, vuole una vita buona, vuole, come diciamo oggi, la biodiversità.

Leggo i 10 comandamenti e vedo che Dio vuole che l’uomo impari a relazionarsi bene col suo dio e col suo prossimo.

Leggo il Sermone sul Monte e vedo che Gesù vuole un’etica spinta agli estremi che scava nei pensieri e nelle motivazioni delle nostre scelte.

Leggo i Vangeli e vedo Gesù comportarsi in un certo modo, Lui che come unico su questa terra ha vissuto seguendo la volontà del Padre.

Leggo di un posto chiamato Gethsemaneh e vedo una terribile battaglia di volontà dove si suda sangue.

Leggo il resto del Nuovo Testamento e vedo che posso sperare bene che la volontà di Dio sarà sempre trionfante in me, come in tutti quelli che credono sinceramente in questa vita e nella sua fine.

E’ chiaro che le linee indicative della volontà di Dio ci sono, e come! Con ciò devo rendermi conto prima di tutto che la volontà di Dio non è mai imposta. Dio mi mette davanti a delle scelte vere, non finte. La seconda cosa per me importante è che devo rendermi conto che questa volontà è la volontà di un Padre, che dialoga con i suoi figli (lo vediamo descritto così bene per esempio nel dialogo fra Dio e Abramo davanti a Sodoma).

A volte si sente dire nel nostro ambiente: “Devo scoprire il piano di Dio per la mia vita”. Questa espressione mi dà un po’ l’idea di un Dio architetto che fa un disegno molto dettagliato per ogni suo cliente e poi dice: “Se vuoi goderti una casa perfetta la devi costruire precisamente come io l’ho disegnata per te”. Non penso che dalla lettura della Parola di Dio possiamo dedurre che Dio è così. La nostra Bibbia non consiste so in un libro, come il Levitico, dove l’immagine di un Dio architetto potrebbe saltar fuori; ma abbiamo per fortuna i 4 Vangeli dove possiamo incontrare un Gesù tentato come noi.

Abbiamo un Cristo che ci dice che ci fa veramente liberi, anche di scegliere. E con questa libertà ci mette anche una grossa responsabilità sulle spalle. Siamo liberi di seguire o non seguire quelle linee generali demarcate nella Parola, liberi di fare la volontà di Dio o non farla. Sempre in dialogo con Dio, Padre vivente, mai seguendo uno schema prestabilito da un Dio, architetto e basta.

Un’ultima cosa: sono madre di 3 ragazzi, ma anche quelli che non sono genitori possono ben immaginare la scena di una battaglia di volontà di un genitore con suo bimbo di 2 anni. Il bambino sta davanti alla libreria e sa com’è divertente tirar giù tutti i libri e magari strappare un bel po’ di pagine, ma sa benissimo che è una cosa non gradita al genitore. Il genitore dice ancora una volta “NO” con lo sguardo. Il bambino è libero di fare o di lasciare. Quanto è difficile per lui dire in quel momento: “sia fatta la tua volontà”. Deve pesare il dispiacere di uno sculaccione contro il godimento della trasgressione. Ancora non capisce che si sta anche giocando un più grande godimento futuro nel non sciupare un bel libro che potrà leggere un domani, quando sarà più grande.

Devo ammettere che troppe volte sono come quel bambino di 2 anni: che il Signore possa ancora insegnarci a pregare con sincerità: “Sia fatta la tua volontà!”.

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Diaconia della cultura

Corso di formazione per volontari sostenitori dell’attività della Libreria Claudiana di Firenze

 

INCONTRO DI PRESENTAZIONE

 

MARTEDI’ 20 SETTEMBRE 2005 -

BORGO OGNISSANTI 14/R

ORE 17:30 – 18:30

Ai volontari e alle volontarie viene richiesto una disponibilità minima di 8 ore mensili. Per un ciclo minimo di 6 mesi. A seconda delle inclinazioni e delle disponibilità raccolte, il servizio di volontariato si esplicherà nelle seguenti aree di lavoro:

 

- interne alla Libreria: segretariato contabile, immagazzinamento dati, confezionamento pacchi, ecc.= (Massimo 2-3 volontari)

 

- esterne alla Libreria: spedizioni, consegne, commissioni esterne, gestione di servizi vari da svolgere da casa con il proprio computer, cura di banchi libro,

(= il numero varierà a seconda delle disponibilità)

 

animazione culturale:

 

promozione di attività culturali in collegamento col Centro Culturale Protestante da ospitarsi in Borgo Ognissanti;

 

segretariato di attività culturali collegate alla libreria e alla vita delle chiese;

 

organizzazione di iniziative di promozione libraria in collaborazione con l’editoria locale e nazionale, l’associazionismo del territorio;

(= senza limiti, si possono formare uno o più gruppi di lavoro)

 

Il/la volontario/a deve essere membro di una chiesa evangelica, motivato/a ad interpretare l’attività di sostegno alla Libreria con spirito di servizio.

Non è previsto rimborso spese di alcun genere. Per chi offrirà un servizio continuativo nell’arco dell’anno, con mansioni da svolgersi nei locali della libreria, è prevista l’iscrizione all’Associazione Evangelica di Volontariato.

Puntualità, discrezione e riservatezza sono doverose.

 

Costituisce parte integrante del percorso formativo la lettura e la discussione finale di gruppo sul testo:

- C.Papini, G.Tourn, Claudiana 1855-2005. 150 anni di presenza evangelica nella cultura italiana, Claudiana 2005

L’acquisto a prezzo agevolato del libro costituisce titolo di iscrizione al Corso di formazione.

 

Info: 055.28.28.96

libreria.firenze@claudiana.it

 

 

Il naso tra i libri

a cura di Sara Pasqui Rivedi

 

Elena Loewenthal

Eva e le altre. Letture bibliche al femminile

Ed. Bompiani 2005, pp.330, € 17

 

Nota biografica

 

E.L. nata a Torino nel 1960 è studiosa dei testi della tradizione ebraica e traduttrice della letteratura di Israele. Collabora con La Stampa , Tuttolibri, Specchio. Lavora da tempo alla edizione italiana di Leggende degli Ebrei di Louis Ginzberg per Adelphi editore (ben sette volumi di cui quattro già pubblicati). Nel 1997 ha vinto il premio Andersen con I bottoni del signor Montefiore ed altre storie ebraiche. Nel 1999 ha ricevuto un premio speciale dal Ministero dei Beni Culturali per la sua duplice attività di studiosa e traduttrice. In collaborazione con Giulio Busi ha pubblicato Mistica ebraica. Testi delle traduzioni segrete del giudaismo dal III al XVIII secolo.

Il suo primo romanzo è stato Lo strappo dell’anima. Una storia vera. Nel 2004 ha pubblicato Attese entrato in finale al premio Strega. A gennaio è uscita questa sua ultima fatica: un modo di vedere e di dare voce e corpo ad alcuni personaggi biblici soffermandosi ad analizzare le figure femminili più significative della Bibbia.

 

Eva e le altre. Letture bibliche al femminile

 

L’Autrice rivisita la Bibbia (testo ebraico) privilegiando soffermarsi su alcune figure femminili ed analizzarne le vicende, le esperienze, il loro rapportarsi con il mondo circostante, sempre maschile e dominante. E.L. ha una profonda conoscenza dei testi sacri, possiamo dire “dimestichezza” e lo studio attento dei libri biblici da lei scelti manifesta il suo interesse nell’evidenziare la personalità, i sentimenti, le scelte, le attese, la determinazione di queste donne alcune delle quali sono dei veri archetipi cioè figure esemplari a cui ancora oggi facciamo riferimento come Eva considerata dalla tradizione “la madre di tutti i viventi”, infatti secondo il racconto della Genesi essa è la prima donna, creata esclusivamente per essere la compagna di Adamo. Eva rivela subito una forte personalità, nota il frutto proibito, ne è attratta e dunque si lascia facilmente tentare dalla voce suadente del Serpente, anzi potremmo asserire che coglie l’occasione offertale per trasgredire, le parole dell’animale sono un pretesto per agire e dunque decidere e scegliere. Accetta consapevolmente di disobbedire prendendo coscienza di sé e del ruolo che da quel momento le verrà assegnato da Dio, diciamo che la trasgressione è un atto di autonomia e di libertà. Adamo resta nell’ombra, figura marginale ed anche pavida. La tradizione ebraica, afferma E.L., non si sofferma sul peccato e sulla colpa così penalizzanti per la religione cristiana, poiché reputa l’episodio necessario per l’inizio della Storia che senza l’atto di disubbidienza della donna non sarebbe mai cominciata e Dio, predicendole le doglie del parto, non maledice, ma enuncia un elemento peculiare della femminilità. Questa interpretazione liberatoria ci offre una chiave di lettura del testo biblico molto più serena da cui emerge una Eva protagonista la quale rinuncia all’Eden, luogo senza tempo e senza sofferenza, preferendo una vita segnata dal dolore e dalla sottomissione all’uomo annunciatale da Dio. Dolore ed obbedienza sottomessa, un prezzo alto da pagare! Cosa ne riceve in cambio? La conoscenza.

Accanto ad Eva, la matriarca, nel libro incontriamo Sara, Rebecca, Rachele, “i costruttori di case”, cioè le capostipiti del popolo ebraico, tutte sterili ed alle quali solo in tarda età, quando ormai la speranza di procreare le ha da tempo abbandonate, sarà dato il dono della fertilità affinché possa avverarsi la promessa fatta da Dio ad Abramo (Genesi 13 v.16). Nel libro, insieme a queste tre donne così importanti nella economia della storia di Israele, è ricordata Rachab, la prostituta, che vive in una casa addossata alle mura di Gerico. Essa offre generosa ospitalità agli esploratori ebrei affinché trovino rifugio e protezione, intuitiva e previdente, protegge i nemici del suo popolo e così avrà salva la vita e si assicurerà un posto nella Storia. Non è una traditrice, ammonisce l’Autrice, ma piuttosto una profetessa che riesce a cogliere dall’espressione dei volti e dai toni delle voci ciò che di lì a poco accadrà e cioè “una teofonia di sangue”.

Dalle pagine del libro viene incontro al lettore Ruth, la moabita, che decide di seguire la suocera Naomi in una terra a lei sconosciuta ed estranea, di abitare fra gente dai costumi e dagli usi diversi dai suoi e si adegua alla nuova vita. Casualmente andrà a spigolare nel campo di Boaz e fra loro sboccerà una storia d’amore dolce e tenera, una delle più belle narrate dalla Bibbia. Ma la scrittrice narra anche la storia della infelice Tamar, sorellastra di Amnon, di Abhisag, la giovane prescelta per rallegrare la vecchiaia del re David, di Anna madre di Samuele, di Ritzpah, concubina di Saul, a cui vengono uccisi i due figli, e di altre che hanno cooperato a costruire la storia del popolo di Israele. Queste donne, le cui vicende si dipanano sotto gli occhi del lettore invitandolo, direi sollecitandolo, a rileggere i passi biblici che le riguardano, hanno una caratteristica comune: parlano pochissimo, spesso tacciono, ma agiscono non solo con le azioni, bensì con i gesti, gli sguardi, i sospiri, i sussurri, oppure con un bisbiglio, come Anna che espande il suo dolore davanti all’Eterno perché afflitta da sterilità.

E.L. traccia questi profili con elegante perizia, attenta e sovente commossa partecipazione, ma pure con un sottile filo di scherzosa ironia. Dedica dei capitoli molto intensi anche ad alcune figure maschili e non con l’intento di contrapporre l’uomo alla donna, ma bensì per completare lo svolgersi della relazione esistente fra Dio e la sua creatura, maschio e femmina, (Genesi 1 v.27) e così incontriamo i profeti Giona ed Elia, ma anche Mosè ed Abramo. Giona è un profeta un po’ bizzarro ed anche un po’ capriccioso, recalcitra di fronte alla chiamata di Dio, è riluttante a tal punto da tentare la fuga per non recarsi a Ninive ad esortare il ravvedimento se non vuol essere distrutta dall’ira del Signore, non se la sente proprio di fare il profeta, senza meno dà la sensazione di avere paura, ma è l’unico personaggio della Bibbia che alla domanda: - Insomma chi sei ? – risponde senza esitazione anzi con grande spontaneità: - Sono un Ebreo e temo il Signore! -.

Elia è colui che incontra il Signore “nel silenzio sottile” poiché l’Eterno era “non nel vento, non nel tuono, non nel fuoco, ma nel suono del silenzio”, dunque non gli si manifesta nel movimento e con il rumore ma nella quiete. Il profeta non tenta di capire, ma accetta questa epifania silenziosa di Dio, la contempla senza interrogare, avverte solamente che il Signore è in quel “silenzio sottile” e ciò gli basta. Potenza della fede ! Elia non sperimenterà la morte poiché viene rapito in cielo su di un carro d’oro e secondo la tradizione ebraica può ritornare da un momento all’altro fuorché alla vigila dello Shabbat e delle feste perché turberebbe i preparativi che devono terminare prima del tramonto.

Mosè è l’uomo prescelto da Dio per trarre fuori d’Egitto gli israeliti ridotti in stato di schiavitù. È anche “il bastone” nelle mani del Signore per guidarli attraverso il deserto ed educarli alla legge divina. Dunque il condottiero, la guida, il maestro, il profeta è in realtà il portavoce di Dio e a Lui obbedisce senza esitazioni, senza incertezze, in piena fiducia. Eppure proprio questo uomo così sottomesso al volere divino, in un eccesso di ira per il traviamento degli ebrei, popolo dalla “cervice dura”, spezzerà le Tavole della Legge, scagliandole con impeto ai piedi del monte Sinai distruggendo così l’opera del Dio Creatore, fattura delle Sue mani (Esodo 32 v.15, v.16, v.19). E.L. commenta questo episodio richiamandosi ai maestri della tradizione giudaica che vedono nella distruzione delle tavole la possibilità che Dio offre al suo servo di decidere, dunque di usare la libertà, la stessa libertà di cui le prime tavole erano messaggere. Questa libertà andata perduta con le pietre frantumate è un sogno, una utopia, “le tavole perdute erano il paradosso di una legge che impone la libertà”.

Infine Abramo, il patriarca, simbolo di fedeltà ed ubbidienza, il quale, alla chiamata di Dio, lascia la terra di Ur per percorrere la via che l’Eterno gli ha indicato senza porre domande, senza rimpianto, senza incertezze e dubbi. Nel proseguo della storia Abramo manifesta la sua totale sottomissione non opponendosi mai agli ordini impartiti da Dio. Anche quando gli viene comandato di sacrificare Isacco, l’unico figlio, non si ribella, non si indigna, ma silenzioso si appresta ad esaudire la richiesta ed a compiere il sacrificio. Non ci è dato sapere cosa provi poiché non un lamento esce dalla sua bocca, né un gesto rivela il suo stato d’animo, è pronto a fare la volontà di Dio e questo basta. A questo proposito è interessante leggere il commento dell’Autrice che rompe con l’interpretazione tradizionale.

 

Appuntamenti comuni in Settembre

 

Martedì 6 alle ore 18.30 fino alle 22.30 in v. Manzoni 21 incontro ecumenico sul tema “Firenze e la Toscana: esigenze e prospettive di dialogo” con i promotori del convegno interreligioso dei bambini del 30 gennaio scorso.

Mercoledì 14 alle 9.30 incontro dei pastori e responsabili evangelici dell’area fiorentina in Borgo Ognissanti.

Giovedì 15 in Via Spaventa 3 alle 18.30 incontro ecumenico per pianificare gli incontri interreligiosi cristiani, ebrei, islamici.

Martedì 20 alle 17.30 in Borgo Ognissanti presso la Claudiana incontro di preparazione alla Diaconia della Cultura, vedi p.26-27 di questo fascicolo.