Diaspora evangelica

Mensile di collegamento, informazione ed edificazione

Anno XLI – numero 7-8-9 – estate 2008

 

 

 

La via di Cristo

di Vittorio Subilia*

 

La via di Cristo in questo mondo è stata la via della croce:

la via dell’Evangelo sino alla fine dell’età presente ha da essere pure via di delusioni e di sofferenze,

via di difficoltà,

via discutibile e contraddittoria.

Ma a chi si è ingaggiato nell’avventura assurda e meravigliosa della fede,

a chi avrà perseverato sino alla fine sapendo che non rimarrà deluso,

l’Evangelo dice:

«Rialzatevi, levate il capo, perché la vostra redenzione è vicina»

(Luca 21,28).

 

 

 

 

 

*Vittorio Subilia (1911-1988), teologo valdese.

 

Tratto da: La parola che brucia, (1991), p. 122.

 

In questo numero:

-        Meditazione biblica di Pawel Gajewski

-        Ricordando Vittorio Subilia a cura di P. Gajewski, V. Pasqui, R.D. Papini

-        Il naso tra i libri di Sara Pasqui Rivedi

-        Laurea honoris causa a Roberto Vacca

-        I rom rumeni: in che modo possiamo essere d’aiuto? di Patrizia Barbanotti

-        Cooperativa “La Riforma”: a lezione di dignità, intervista a Violetta Fraterrigo Sonelli a cura di Roberto Davide Papini

-        Notizie dalle associazioni e dalle chiese evangeliche fiorentine

-        L’archivio di “Diaspora evangelica”

-        Ecumenicamente (s-)corretto di Roberto Davide Papini

 

 

Editoriale

 

        Questo fascicolo è particolarmente segnato dal pensiero di Vittorio Sublia. È anche un modo di ricordare Gino Conte, amico e allievo di Subilia.

Oltre a questo materiale proponiamo diversi contributi che ruotano intorno agli argomenti “testimonianza” e “cultura”. Il tema “cultura” in particolare sarà dibattuto durante la prossima sessione del Sinodo valdese e metodista.

Rinnoviamo l’appello a scrivere alla redazione. Critiche e apprezzamenti che riceviamo sono sempre preziosi; peccato che tutte queste reazioni arrivano quasi sempre per via orale e (quasi) mai per iscritto.

Auguriamo a tutte le persone che leggono “Diaspora evangelica” un’estate benedetta e serena.

Il prossimo fascicolo sarà distribuito negli ultimi giorni di settembre. Per la consegna dei contributi vi preghiamo di essere puntuali e di consegnarli entro il 20 settembre.

 

Rispondere in prima persona (Ezechiele 18,1-4.30-32)

di Pawel Gajewski

 

«Che cosa abbiamo fatto» - si chiedono i giovani ebrei, nati lontano dalla patria – «per meritarci questa vita da esiliati? Sarà che il Signore ha tributato a noi il peccato dei padri per farci morire in questa terra straniera?»

Ezechiele vive intensamente il dramma della seconda generazione degli esiliati in Babilonia. Le domande appena elencate ci portano verso il tema centrale di tutto il capitolo 18 del libro di Ezechiele: il legame tra peccato e morte.

Il nostro testo sembra particolarmente minaccioso: chi pecca morirà. Questo pensiero però dovrebbe essere espresso al presente: chi vive sotto il dominio del peccato è già morto. Il peccato ‘hattā’ nell’ottica di Ezechiele (e di tutte le Scritture ebraiche) ha un significato ben preciso: voltare le spalle a Dio. La conversione, ‘teshuvā’ nella stessa ottica è legata al verbo ‘šub’- tornare sui propri passi, ritornare, cambiare direzione; in altre parole voltare il volto verso Dio. Il capitolo 18 di Ezechiele affronta però anche un altro argomento che vi assume il posto centrale: la responsabilità personale per il male commesso. Questa responsabilità può essere collettiva o individuale; in ogni caso essa è strettamente legata all’azione compiuta.

Vorrei esprimere a questo proposito un pensiero molto personale, anche se legato (così credo) al testo che stiamo meditando. Quando commetto consapevolmente un errore o un atto di trasgressione ho a diposizione due modi per ammetterlo: la terza o la prima persona singolare. “Le mie finanze sono in uno stato disastroso” oppure “Ho gestito le mie finanze in modo disastroso”. La stessa regola vale per una realtà collettiva come la nostra chiesa. “La gente non ascolta il nostro messaggio” oppure “Non siamo capaci di comunicare alla gente il nostro messaggio”.

Credo che Ezechiele voglia affermare questa necessità di comprendere il significato di pensare e parlare in prima persona. Questo significato è concettualmente abbastanza preciso: non sentirsi oppressi dal peso del passato e assumersi la piena responsabilità delle proprie azioni, non quelle dei padri o dei nonni. Il tanto temuto giudizio di Dio non è altro che un passaggio dalla non-responsabilità (oppure mal interpretata responsabilità collettiva) alla piena assunzione delle proprie responsabilità.

Solo quando davanti a Dio e al prossimo mi riconosco peccatore, una vita nuova suscitata dalla Grazia comincia a pulsare nelle fibre più profonde del mio essere.

 

 

Ricordando Vittorio Subilia

a cura di Pawel Gajewski, Roberto Davide Papini e Valdo Pasqui

 

A distanza di vent’anni dalla sua morte il pensiero teologico di Vittorio Subilia suscita due reazioni. La prima è di ridurlo alla sfera di oblio. Non si tratta di una semplice dimenticanza bensì di una chiara scelta di far tacere un teologo un po’ scomodo. Viviamo nei tempi di un qualunquismo teologico che talvolta non ha nulla da invidiare al balbettio dei politici e quindi il cristocentrismo radicale di Subilia talvolta può apparire scomodo. C’è però anche un’altra reazione, quella di rivalutare un approccio teologico radicale e dialogico al tempo stesso, quello di Subilia appunto. La cosa incoraggiante è che questa seconda reazione si vede tra i membri delle nostre chiese che non hanno ancora superato (o superato da poco) i cinquant’anni di vita. Si tratta di una generazione che nel 1976, quando Vittorio Subilia terminava il suo insegnamento alla Facoltà valdese di teologia entrava appena nell’adolescenza.

Quali sono le ragioni di questa attrazione? La prima è senz’altro il cristocentrismo radicale del suo pensiero teologico imparato da Karl Barth ed elaborato in un continuo confronto con Giovanni Miegge. Il libro “Solus Cristus” ne è una testimonianza insuperabile.

Inoltre bisogna riconoscere a Subilia il ruolo del massimo studioso del cattolicesimo romano nell’ambito della teologia protestante. “Osservatore - delegato” dell’Alleanza riformata mondiale al Concilio Vaticano II, Subilia ha saputo cogliere benissimo la sostanza immutabile del cattolicesimo, una sostanza che fa del cattolicesimo e del protestantesimo due modi dialetticamente opposti di vivere la fede cristiana. Vorrei ricordare il suo celebre (e sottovalutato!) saggio, pubblicato nel 1967, “La nuova cattolicità del Cattolicesimo. Una valutazione protestante del Concilio Vaticano Secondo”. Ecco una citazione particolarmente significativa: «Il momento storico che la Cristianità attraversa è dunque di una importanza che non può essere esagerata e che potrebbe essere decisiva per il futuro. Per ragioni molto diverse e in diversa maniera le due Chiese si sentono al di qua della verità, in diffetto verso l’Evangelo e la sua pienezza. Con o contro i loro princìpi, non possono avere una psicologia confessionale trionfalistica, perché sono in uno stato di apertura, di ricerca e di attesa, che le rende reciprocamente corresponsabili del loro domani di cattolicità evangelica» (p.302). (P.G.)

 

***

 

Parlare di Vittorio Subilia a Firenze (e soprattutto su “Diaspora”) significa anche ricordare Gino Conte, suo allievo e amico, indimenticato pastore della Chiesa valdese fiorentina. Così, affidiamoci alle parole di Conte, scritte nel volume in onore di Subilia, “Il pluralismo nelle origini cristiane” (Claudiana, 1994 – 220 pagine – a cura dello stesso Conte e con contributi di autori vari), nel testo introduttivo che traccia un profilo del grande teologo. (R.D.P.)

 

Vittorio Subilia: Alcune note biografiche

di Gino Conte (†)

La presenza di Subilia nella vita evangelica è stata raccolta e schiva. Ha avuto il suo momento di favore e di fama nel periodo del Concilio, e anche se non tutti hanno condiviso il suo radicalismo teologico stimato e apprezzato, per altro, dal cattolicesimo più cosciente che si riconosceva capito più in profondità anche se contestato, ha tuttavia nutrito e segnato in modo determinante l'atteggiamento del protestantesimo italiano nei confronti della Chiesa romana: un segno che c'è da augurarsi non effimero. Poi, però, pur contestando teologicamente ogni tendenza evangelical, ha rifiutato di aggiogarsi al carro delle teologie politiche (diffidava delle teologie del genitivo, o dell'aggettivo, che considerava esposte al grave rischio di non essere più teologia e di rovesciarsi, magari inconsciamente, in antropologia ritornando, certo in tutt’altri contesti, alla tendenza di fondo del liberalismo teologico); e sebbene non lo si possa, in alcun senso, definire uomo di destra e neppure di centro non era affatto un moderato, e teologicamente lo ha mostrato in molte occasioni ha contestato ogni forma di cauzione teologica, evangelica alla “scelta di sinistra” che si affermava egemone negli ambienti protestanti, nostrani e non. Questo lo ha isolato, e gli ha fatto sentire e soffrire un tale isolamento, pur in quella sua capacità di solitudine di cui si è parlato; una sofferenza non tanto soggettiva, quanto oggettiva: per quello che considerava un serio sviamento, dai modesti ambienti protestanti italiani ai larghi orizzonti dell’ecumene cristiana. Tuttavia i più sensibili e intelligenti di coloro dai quali dissentiva, gli hanno mantenuto stima e amicizia fraterna, o l'hanno via via rinnovata, riconoscendo che non era rimasto indietro, attardato e superato, ma che in realtà, nel suo radicamento teologico, era, o meglio indicava sempre oltre; anche oltre se stesso, indubbiamente, e si può dire che riconoscimento e riconoscenza siano nuovamente cresciuti intorno a lui e all'opera che con coerenza, non cocciuta ma motivata, e con sobria passione continuava.

La storia contemporanea della Chiesa valdese e del protestantesimo italiano ha, finora, reso piena giustizia al suo pensiero? Qualcuno se lo è domandato. In ogni caso “le sue opere lo seguono”.

(...)

Nell’estate del 1987 si dichiara il male che nel giro di alcuni mesi avrà il sopravvento. Non riuscirà a portare a termine il libro sulla storia delle interpretazioni del Regno di Dio, al quale lavorava con la consueta passione, mentre le ricerche relative si ampliavano costantemente. Fino alla fine, però, costretto a letto, legge e lavora, annota, cura il suo ultimo numero di “Protestantesimo”, 1/1988. Il 12 aprile 1988 si spegne. Aveva scritto, un giorno: “...il segreto di ogni vita che palpita nell'universo sotto il sole è la tensione di speranza verso il giorno di Cristo”. E più recentemente così concludeva una riflessione biblica su Il Signore dei morti e dei viventi: “Fede significa ferma fiducia che Dio fa e farà tutte le cose bene e non abbandona e non abbandonerà i suoi né nella vita né nella morte. Se credere in Dio significa consacrare tutta la propria vita al suo servizio in risposta alla vocazione dell'Evangelo, per testimoniare di Lui nei più vari settori della società, perché non si dovrebbe fare getto anche della propria morte nelle sue mani, senza preoccuparsene e lasciando a Lui le modalità della sua sistemazione? L'essenziale è la coscienza espressa dall'apostolo: 'Sia che viviamo, sia che moriamo, noi siamo del Signore', che è 'il Signore e dei morti e dei viventi' (Rom. 14,8-9, cfr I Tess. 5,10)”.

 

***

 

Nello scorso mese di novembre, alla ricerca di meditazioni, preghiere ed altro materiale per predisporre la sezione del sito web della nostra chiesa dedicata all’Avvento, ho recuperato nella biblioteca di famiglia il testo di meditazioni bibliche di Vittorio Subilia La Parola che brucia, edito dalla Claudiana nel 1991. Per me si è trattato di una riscoperta che mi ha consentito nelle settimane successive di rileggere con profondo piacere le predicazioni raccolte in questa pubblicazione. Si tratta di un’antologia di 37 meditazioni che coprono un arco temporale che va dal 1939 al 1970, dalle quali emerge tutta la personalità e la statura di Vittorio Subilia. Inscindibilmente teologo e pastore, da questi sermoni spesso emerge un Subilia pastore molto diretto, schietto e concreto nel richiamare le comunità ai propri doveri e alla fedeltà all’annuncio di Cristo.

Propongo ai lettori di “Diaspora” il sermone “La preghiera” che mi ha particolarmente colpito per tre motivi: a) la citazione iniziale della genuina testimonianza di fede e fraternità di una persona semplice; b) il forte richiamo al recupero della preghiera d’intercessione, al pregare “gli uni per gli altri” come mezzo per assumerci la responsabilità degli altri di fronte a Dio; c) la preghiera come un mezzo quasi sommesso, sicuramente non plateale, per entrare in relazione con gli altri e che diviene il fattore di coesione della comunità cristiana. 

Si tratta di un forte richiamo a riscoprire nella preghiera una dimensione che è al tempo stesso guida e sostegno e che spesso l’affannata concitazione della vita quotidiana, la complessità dei rapporti interpersonali e la realtà di diaspora delle nostre comunità ci fanno dimenticare o sottovalutare. (V.P.)

 

La preghiera «Pregate gli uni per gli altri» (Giacomo 5,16)

Sermone predicato da Vittorio Subilia nella chiesa valdese di Aosta il 17 Ottobre 1948

Nelle chiese apostoliche si leggevano nel culto le lettere dei fratelli lontani. Non vedo perché non dovrei e non potrei leggere la lettera che mi è giunta l’altro ieri da Augusto Grosjacques, che è stato ammesso alla nostra chiesa nel 1943, la sera del Giovedì santo, e che ora lavora in Francia.

«Faccio sempre menzione del mio pastore in tutte le mie preghiere, perché il nostro Dio lo aiuti a compiere il suo ministero nella sua chiesa... Ogni sera, quando apro la Bibbia, non mi dimentico di fare menzione dei cari fratelli e sorelle della mia chiesa di Aosta in tutte le mie preghiere perché stiano uniti nella fede in Cristo Gesù nostro Signore e Salvatore. Avrei molto da dire ma il foglio non è abbastanza grande per dire tutto quello che vorrei. Salutate il signor Marguerettaz e la signorina Marguerettaz e il mio compagno De Stefani che è stato ammesso con me alla chiesa. Penso che abbia sempre il cuore nello spirito di Cristo. Saluto pure la signorina Gilda e tutti coloro che hanno partecipato ai corsi biblici con me... Cari fratelli e sorelle della mia chiesa di Aosta, pregate per me e io pregherà per voi e abbiamo sempre, sempre il cuore nello spirito di Cristo Gesù nostro Signore e Salvatore. Che l’Iddio d’Israele sia con noi oggi e in eterno. Amen».

Fratelli miei, quest’uomo rozzo, povero e solo al mondo, a cui nessuno ha badato, che nessuno, credo, ha mai invitato a casa sua, forse perché era vestito male ed era sporco, che quasi nessuno ricorda, quest’uomo che ha detto più di una volta con commozione e gioia che il giorno più bello della sua vita è quello in cui ha potuto confessare la fede nel Signore che aveva imparato a conoscere nelle Scritture e in cui era stato ammesso nella chiesa dell’Evangelo, quest’uomo, che certo ci precede nel Regno dei cieli, mi scrive continuamente lettere così piene di amore cristiano per la sua comunità lontana, così solcate di spirito apostolico, che lasciano pieni di gioia, sì, ma anche di confusione.

Fratelli, noi siamo qui, vestiti bene e veniamo al culto, ciascuno pieno dei suoi propri pensieri. Veniamo al culto, ma c’è veramente fra noi la comunità del Signore Gesù Cristo? Lasciate che vi parli liberamente come tante volte ho fatto. Io non sento fra noi quel collegamento caldo, inconfondibile che è costituito dalla preghiera degli uni per gli altri. Sento spesso fra noi la critica che, se non è aspra, pure è smontante. Sento quella cordialità semplicemente umana, data da rapporti sociali prolungati e che copre il fatto che ciascuno vive per conto suo senza preoccuparsi del fratello e portarne il peso. Sento poco vibrare fra noi lo spirito della preghiera cristiana gli uni per gli altri, che è riflesso dell’amore di Cristo per noi, che è il corrispondente umano nella chiesa della cura vigile, attenta che Dio ha per ciascuno di noi, che è la trasformatrice segreta e potente di tutti i rapporti umani. Questa preghiera è il principio e la chiave necessaria per diventare capaci di accogliere l’altro, anche se non piace, anche se è noioso, anche se è antipatico, anche se è maleducato, anche se ha idee e abitudini diverse dalle nostre, anche se è ancora incerto nella fede. Una preghiera che invece di condannare lo aiuta segretamente a superare i propri difetti, a vincere i propri peccati, a crescere nella fede e nell’ubbidienza, con l’intercedere perseverante per lui.

Se si prega per un fratello, non una volta, nello slancio di un momento, ma con convinta perseveranza, non si può più parlare male del fratello, o avere un atteggiamento duro o sprezzante o anche semplicemente indifferente per lui. Perfino il nostro modo di guardare, di dare la mano, di salutare il fratello, si trasforma se noi preghiamo per lui. Ogni rapporto nella chiesa è falso, è un rapporto pseudocristiano se non è preceduto, accompagnato, seguito dalla preghiera.

Non sappiamo e non possiamo misurare quello che può operare una preghiera intensa, calda, continua per un fratello, per una sorella: quello che può operare per loro e per la creazione di una comunità vivente, quanto può aiutare a superare antipatie, diffidenze, freddezze, incomprensioni. Il fratello non è realmente presente nella nostra vita e noi mentiamo alla comunione con Cristo, mentiamo alla santa Cena fintantoché non sappiamo pregare per lui. Una comunità è una comunità viva e fraterna soltanto quando sa diventare una comunità di preghiera.

Fratelli, aiutatevi gli uni gli altri pregando gli uni per gli altri. Se pregate soltanto per voi, perché le vostre cose vadano bene, voi dovete ancora imparare a pregare. Siate oggetto di preghiera gli uni per gli altri. Portate i peccati degli altri e i pesi gli uni degli altri in preghiera! Come Cristo porta i vostri peccati e i vostri pesi al Padre intercedendo per voi. Vi sono degli esseri nelle nostre comunità che hanno un peso o dei pesi gravi sul cuore: ve ne siete accorti, avete pregato per loro? Vi sono degli esseri nelle nostre comunità che sono soli: ve ne siete accorti e li avete circondati con la vostra preghiera? Vi sono alcuni che si sono sviati perché non avevano ancora compreso o perché hanno amato il presente secolo, che hanno dimenticato di aver legato la loro vita a Cristo e ai fratelli il giorno della loro ammissione. Li avete seguiti, li seguite con la vostra preghiera? Vi sono degli indifferenti che non sono ancora stati scossi dall’appello di Cristo, ve ne sono che non si conducono rettamente: avete assunto la responsabilità del loro atteggiamento davanti a Dio nel tacito mistero della preghiera? Vi sono dei nuovi che invece di porte aperte si trovano di fronte muri di diffidenza. Preparatevi all’incontro con loro nella preghiera.

Che cos’è una comunità di Cristo? Si possono dare molte risposte a questo interrogativo. Una risposta che forse non è formulata di frequente è questa: una comunità cristiana è una comunità di uomini e donne che hanno imparato a pregare gli uni per gli altri, che hanno scoperto nella preghiera il segreto per superare le loro divisioni umane e per stabilire fra loro un’unità nuova e paradossale.

Tratto da Vittorio Subilia, "La Parola che brucia", meditazioni bibliche Caludiana, Torino, 1991

 

Il naso tra i libri: Boris Pahor uno scrittore ignorato

di Sara Pasqui Rivedi

 

Boris Pahor è un grande scrittore del 900, il maggiore degli scrittori sloveni, egli occupa a buon diritto un posto di rilievo nella letteratura mondiale contemporanea, nel 2007 gli viene conferita la Legion d’Onore, prestigiosa onorificenza francese, ed il suo nome appare nella rosa dei candidati al premio Nobel. Testimone di una stagione della Storia europea segnata da eventi drammatici e sconvolgimenti politici di portata planetaria è autore di romanzi, racconti, saggi, scritti polemici e diari in cui forte è l’eco delle terribili esperienze vissute e molteplici sono i richiami autobiografici. È il pesante fardello della memoria che affiora e riporta in superficie il passato con il suo bagaglio di ricordi dolorosi. Da molti anni la sua opera – circa una trentina di libri – viene tradotta nelle principali lingue ed altamente apprezzata, tuttavia nel nostro paese è rimasta sconosciuta fino a pochi anni fa, quasi una specie di ostracismo, di censura per questo scrittore, un silenzio troppo lungo ed inaccettabile. I grandi editori italiani hanno da sempre rifiutato di pubblicare i suoi libri e quindi hanno negato a Boris Pahor l’opportunità di essere conosciuto  e letto dal grande pubblico italiano. Questa esclusione si può attribuire ad una volontà di rimuovere dalla coscienza collettiva accadimenti della nostra storia nazionale del secolo appena trascorso certamente non esemplari. Così alcuni romanzi di questo scrittore sono stati tradotti in lingua italiana (Pahor scrive in sloveno) e pubblicati da case editrici la cui distribuzione si limita al nord-est d’Italia rendendone difficile l’acquisizione. Finalmente nel gennaio del 2008 Necropoli, il suo capolavoro, vede la luce per i tipi della casa editrice Fazi, ben quarant’anni dopo la sua prima pubblicazione e assai dopo essere stato letto e valutato positivamente in numerosi paesi del mondo!

Boris Pahor nasce il 28 agosto 1913 a Trieste alla quale resterà indissolubilmente legato per tutta la vita poiché la città occupa uno spazio privilegiato nei suoi racconti e nei suoi romanzi rievocandone il mare che la bagna, le vie che l’attraversano, il Canal Grande, la piazza Ponterosso, la spiaggia di Barcola e soprattutto l’entroterra carsico da cui trae la sua origine. Egli infatti discende da una famiglia slovena costituita da gente umile e modesta, ma onesta, laboriosa, pacifica. Gente orgogliosa della propria identità e fiera della propria lingua che soffrirà moltissimo con l’avvento del fascismo poiché quale minoranza etnica gli sloveni subiranno una persecuzione spietata. I luoghi di ritrovo e di aggregazione come le Case della Cultura verranno distrutte, i nomi italianizzati, le scuole slovene soppresse, la lingua madre proibita drasticamente. Sarà una vera snazionalizzazione con conseguente spersonalizzazione dell’individuo. Boris Pahor, allora fanciullo, avvertirà la forzata assimilazione come una deprivazione ed una violenza che lo segneranno per tutta la vita, una ferita che ancora oggi continua a sanguinare. Sovente nei suoi libri affiora la coercizione di cui fu vittima come nei due racconti Il rogo del porto e La farfalla sull’attaccapanni. Nel primo l’Autore rievoca l’incendio della Casa della Cultura di Trieste con la vivida descrizione di silhouette nere gesticolanti ed urlanti che si abbandonano ad un frenetica danza macabra attorno all’edificio dato alle fiamme impedendo agli occupanti di uscire e mettersi in salvo. Una scena raccapricciante, quasi un preannuncio dei forni crematori nazisti di cui parlerà in Necropoli. Nel secondo racconto ricorda la piccola Julka, una compagna di scuola, appesa per le treccine ad un gancio della parete dell’aula da un maestro zelante poiché sbadatamente le sono sfuggite poche parole in sloveno. Le dolorose esperienze dell’infanzia prepareranno Pahor alle scelte della giovinezza, aderirà al Fronte di Liberazione Sloveno ed alla lotta clandestina contro il nazifascismo, arrestato verrà inviato a Dachau e successivamente internato in diversi lager. Di questo periodo ne è intensa e terribile testimonianza Necropoli ( 1967). Sopravvissuto all’orrore concentrazionario trascorre due anni in un sanatorio francese e nel 1946 rientra a Trieste. Gli anni successivi gli riserveranno ancora sofferenza ed amarezza: le violenze subite dagli italiani nei territori che allora costituivano la Jugoslavia, l’esodo di migliaia di persone, infine la cocente delusione del comunismo non apportatore di democrazia e libertà, bensì di un sistema totalitario disumano e di una dittatura crudele. Oggi, a novantacinque anni, continua la sua attività di scrittore, ma soprattutto la lotta per l’affermazione dei diritti e della dignità dell’uomo contro ogni prevaricazione ideologica.

Necropoli, Fazi editore, 2008, pp.277, €16.00

Il rogo del porto, Nicolodi editore, 2001, pp.270, €13.00

 

Temi di attualità

Laurea honoris causa a Roberto Vacca

di Brunarosa Sabatini

 

Sabato 31 maggio scorso nei nuovi locali della Chiesa Avventista di Firenze di via del Pergolino, si è tenuta la cerimonia di chiusura dell’anno accademico della Facoltà teologica. In tale occasione, oltre ai diplomi tradizionali, è stata anche conferita a Roberto Vacca la laurea in teologia honoris  causa, nell’indirizzo specialistico “Religione, Diritti e Società” come riconoscimento per la sua opera nel campo della comunicazione, soprattutto per radio.

Come è noto a tutti, credo, Roberto (senza nulla togliere ai suoi collaboratori, fra cui voglio ricordare Milca Zanini) è da anni l’anima, la mente…e il braccio di Radio Voce della Speranza e a lui va il merito di averne fatta un’emittente ormai conosciuta ed apprezzata a livello nazionale.

E in effetti, nel corso della cerimonia sono stati letti alcuni dei molti messaggi inviati o registrati a Radio voce della Speranza, tutti volti a evidenziare la vocazione giornalistica, l’impegno etico e di fede e  la modestia di Roberto.

Anche io ho partecipato con gioia a questo momento importante per Roberto, vecchio amico e collega.

Ci conosciamo ormai da moltissimi anni, a partire da quando, ancora universitari, collaboravamo ad un giornalino forse un po’ maldestro, ma che in maniera molto innovativa si proponeva come interdenominazionale, prevedendo il contributo di membri delle sedi fiorentine di diverse associazioni evanegliche, la parrocchia di Rifredi, la Chiesa Avventista; siamo stati anche colleghi al Liceo Avventista di Villa Aurora, dove Roberto, che è laureato anche in Lingua e Letteratura Inglese, ha insegnato inglese per vari anni, anche se poi in lui è prevalsa la vocazione giornalistica.

Senza entrare nel dettaglio della cerimonia, per altro molto ben organizzata e, in vari momenti, anche molto toccante, vorrei  invece riproporvi alcuni stralci del testo della lectio magistralis, svolta da R.  Vacca al conferimento della laurea, sul tema “La comunicazione cristiana come risposta allo Spirito”.[1]

L’argomento è sicuramente molto attuale e i passi da me scelti, in accordo con il relatore, non pretendono assolutamente di costituire una sintesi dell’intervento, che è molto complesso e per, molti aspetti, ancora aperto, data la vastità del tema trattato, ma intendono piuttosto fornire degli spunti di riflessione. Procederò quindi per tematiche, riportando solo alcuni passi, che di sicuro risulteranno un po’ frammentari.

 

Dalla lectio magistralis di Roberto Vacca (sintesi autorizzata)

 

La comunicazione cristiana come risposta allo Spirito

Vorrei partire un po’ alla distanza, citando un testo degli Atti degli Apostoli (19: 1-7) dove vediamo come la conseguenza della discesa dello Spirito sui nuovi convertiti produca un bisogno quasi irrefrenabile di comunicazione. …Una nuova e più profonda esperienza con Dio produce il bisogno di comunicare in due modi:: “parlare in lingue” (in genere associato alla lode, cfr. Atti 10 : 46) e “profetizzare”. Di solito tendiamo a valutare il fenomeno del “parlare in lingue”senza dare ad un testo come questo un valore “paradigmatico”. Mi permetto di suggerire un atteggiamento meno apologetico e di valutare invece con interesse questa duplice modalità di comunicazione che secondo me si manifesta continuamente nella storia della chiesa, con modalità e proporzioni diverse, contribuendo all’equilibrio o allo squilibrio della formulazione del messaggio cristiano. Un testo che illustra questa duplice modalità di comunicazione è 1 Corinzi 14 :2-4, 23-25, 39.

 

Il dono della lode

A me pare abbastanza chiaro che il parlare in lingue di cui parlano Luca e Paolo rientra nella modalità della lode, dell’espressione emozionale in senso ampio della fede, una caratteristica ineliminabile della comunicazione cristiana che si rivolge a Dio, ma che si estende alla comunità nella sua funzione di incoraggiamento e di rafforzamento della fede. Il parlare in lingue, cioè la modalità della lode individuale e comunitaria, non è un aspetto secondario nella spiritualità cristiana. Essa è essenziale perché veicola un’esigenza di intimità e di emozione che fa parte del bisogno religioso dell’uomo. Non è un caso che il canto faccia da sempre parte dell’espressione liturgica, così come la poesia (i salmi) e in genere la pittura, la scultura e l’architettura”sacra” delle chiese. Tutte espressioni della dimensione emotiva della fede comunitaria, che serve da vincolo importante nell’esperienza dei credenti, aiutando nei momenti difficili e offrendo una dimensione di senso che va al di là della comprensione intellettuale della  fede stessa. In Efesini 5: 19 l’apostolo sottolinea la dimensione comunitaria e relazionale della lode con l’espressione inconsueta “parlandovi con salmi, inni e cantici spirituali”. Una dimensione dunque vissuta collettivamente e che rafforza non solo il nostro rapporto con Dio, ma anche la solidarietà e la comunione fraterna all’interno della chiesa.

… Come protestanti siamo portati ad evidenziare abusi che indubbiamente si sono sviluppati nel corso dei secoli per accomodare la dimensione emotiva ed estetica del popolo, ma possiamo domandarci se non ci può essere anche un abuso di segno diverso, cioè l’assenza di questa comunicazione intra-ecclesiale, che tenga conto delle esigenze delle nuove generazioni, e sia segno di continuità con la tradizione del passato..

…Dunque c’è un campo della comunicazione da esplorare e da aggiornare nella chiesa. Come conseguenza del dono dello Spirito, i cristiani sentono infatti il bisogno di comunicare la lode e l’emozione di essere figli di Dio in modalità espressive sempre diverse. Sta alla chiesa aggiornare queste modalità e non sottovalutarle, pena la perdita di una dimensione fondamentale della fede. E tuttavia sta alla chiesa anche saper equilibrare questa esigenza con un altro dono che le è stato offerto dallo Spirito: quello della profezia.

 

Il dono di profezia

… Non escludo che in certi momenti Dio abbia concesso alla chiesa un dono particolare di profezia, ma in linea di massima la rilevanza del messaggio cristiano non si impone all’evidenza, ma è frutto dello Spirito che “convince di peccato”(Giovanni 16:8). E tuttavia questa rilevanza è anche il frutto di un’osservazione dei “segni dei tempi”… che permette al messaggio cristiano di apparire profetico nel doppio senso di questo termine, cioè nel senso che si pone come messaggio proveniente da Dio e come avvertimento per lo stato di perdizione in cui l’uomo si trova quando è lontano da Dio. Questo messaggio profetico emerge nella chiesa se essa vive nel mondo, senza essere del mondo (cfr. Giovanni17: 1-23). Bisogna vivere nel mondo perché come cittadini siamo interessati al suo benessere e partecipiamo ai valori civili che la società assicura e al benessere che ci concede, ma non siamo del mondo perché riconosciamo un’autorità superiore e non vogliamo appiattirci alle mode e ai capricci di un’etica subordinata agli interessi dei più forti e alle isterie delle maggioranze. In altre parole, la comunicazione profetica deve fare riferimento alla realtà dei nostri interlocutori, per ispirazione di Dio e delle sua Parola, ma non appiattirsi ad essa.

 Capite bene che questo è il punto decisivo nell’ambito della comunicazione cristiana. Essa non può essere solo riformulazione della tradizione e neppure solo comunicazione di lode, deve essere anche comunicazione rilevante per i non credenti attraverso l’analisi dei fenomeni che  investono

l’individuo e la società.

Siamo chiamati ad un difficile compito, quello di essere profeti in un tempo difficile, cioè chiamati a guardare in faccia la realtà anche quando preferiremmo guardare da un’altra parte. Proprio in questi giorni sentiamo questo peso ma anche questa responsabilità, in una società che si impoverisce e si incattivisce verso lo straniero e il diverso. E’ scritto che ci sarà gente che dirà al Signore di avere mangiato e bevuto con lui, ma Gesù risponderà di non averli mai conosciuti (Luca 13:26-27). E’ gente che ha privilegiato il parlare in lingue, dimenticandosi delle proprie responsabilità profetiche. Voglia Dio che questo non succeda a noi.

 

I Rom che provengono dalla Romania: come possiamo essere di aiuto?

di Patrizia Barbanotti

I rom rumeni hanno alle spalle una storia di discriminazione assai più pesante rispetto ai coloro che provengono dalla ex Jugoslavia, dovuta alla politica di assimilazione forzata (romanizzazione) da parte di Ceausescu. L'operazione si svolse senza considerare che i soggetti (o meglio gli “oggetti”) di questa integrazione coatta non avessero a disposizione gli strumenti culturali minimi per affrontarla. Tutto avvenne senza il necessario coinvolgimento degli interessati (errore in cui incorrono facilmente i dittatori, ma che spesso insidia anche i “democratici”). I Rom rumeni si trovarono dunque sradicati dal loro sistema di valori e scaraventati in un tipo di società che non conoscevano e che non li accettava: agli ultimi posti della gerarchia sociale, di fatto esclusi. La scolarizzazione è stata fallimentare: la stragrande maggioranza dei rom non ha avuto la possibilità di andare a scuola o, se ha potuto frequentarla, si è trovata in un ambiente discriminatorio ed umiliante. Questo ha senz'altro favorito l'interiorizzazione di un'immagine di sé come “diversi”, con la paura di essere inferiori, (non adatti allo studio, ad esempio), talvolta compensando questo timore con la convinzione di essere più “furbi”, capaci nel riuscire a sopravvivere alla faccia degli altri, fregandoli in varia maniera.

Il nomadismo è obbligato, non è una scelta. E' frutto del circolo vizioso che si è creato: essere continuamente cacciati, porta a non avere cura di un luogo particolare e a non preoccuparsi delle relazioni con i gagè (non rom) e pregiudica l’integrazione.

Il circolo vizioso non ha niente di arcano, può benissimo essere interrotto: basta garantire un luogo dove vivere senza paura, basta dimostrare accoglienza.

La ricetta è semplicissima, eppure di difficilissima attuazione, e non solo perché nell'area fiorentina il valore dei metri quadrati abitabili o edificabili è tale da non concedere distrazioni. A complicare di molto la questione ci sono i nostri problemi. Confrontarsi con loro ci mette in crisi (almeno per quanto mi riguarda).

Le nostre contraddizioni

1.    Se rifuggiamo dalle soluzioni razziste (come, con l'aiuto di Dio, si può e si deve fare), guardando loro vediamo una faccia del disordine mortale di cui è vittima il mondo; la loro povertà ci interroga, fatichiamo a spiegare loro il motivo per cui noi siamo molto ricchi rispetto alla loro estrema povertà e soprattutto ci sentiamo in colpa per il nostro scarso impegno per modificare la cosa. Eppure noi cristiani dovremmo essere in grado di dare delle risposte e tradurre la parola “peccato” in termini significativi; dovremmo avere qualche idea su come contrastarlo.

2.    Fatichiamo ad accettare che possano essere felici (almeno quanto i nostri concittadini italiani), che sappiano fare festa, anche senza tutte le cose di cui disponiamo. Prenderne atto significa rimettere in discussione un bel po' di cose. Eppure noi cristiani dovremmo essere in grado di giudicare i valori del nostro tempo con lucidità, sapere qualche cosa sull'importanza delle relazioni umane.

3.    Tutti sanno della proverbiale capacità di fingere e mentire che fa parte delle loro “strategie”. Eppure con loro ci rendiamo conto di quanto siamo ipocriti. Di quanto siamo in contraddizione quando diciamo “scusa non posso darti nulla” o “sono povero anch’io” (perché reputiamo indispensabili delle spese che in realtà non lo sono in rapporto alle loro esigenze primarie, perché in realtà non sappiamo vivere per fede). Eppure dovremmo essere testimoni della verità.

4.    Hanno un senso fortissimo della famiglia e dell'amicizia, sono disposti a grandi sacrifici personali per salvarla, hanno il gusto di stare insieme. Ci sembrano degli incomprensibili “fossili viventi” o ci viene il dubbio di aver perso qualcosa per strada. Eppure dovremmo saper riflettere anche sui modelli di famiglia e di società in modo critico.

I nostri limiti

Che fare, dunque?

Normalmente la valutazione delle risorse a disposizione sarebbe il primo passo da fare. Allora non si andrebbe lontano.

Siamo tendenzialmente gente brava e responsabile: le nostre “eccedenze” in termini di tempo libero e risorse economiche sono normalmente contingentate. (Data l'innata ed inestinguibile tendenza che abbiamo tutti a dare del superfluo senza mai intaccare il capitale)

Se ci chiediamo da che parte cominciare per aiutarli mi verrebbe da dire: “teologia” e disponibilità a metterci in gioco.

Può essere poco gradevole guardarci allo specchio, lasciare che le piaghe siano visibili, prendere atto dei nostri limiti e dell'enormità dei compiti che ci stanno davanti, cercare insieme di decifrare la realtà e leggerla alla luce della nostra fede, ma possiamo farne a meno? Non è a questo che siamo stati chiamati?

Sono assolutamente certa che, se glielo chiediamo, il Signore ci guiderà nel fare qualche cosa di utile, per quanto piccola.

 

Cooperativa “La Riforma”: a lezione di dignità

Intervista a Violetta Fraterrigo Sonelli a cura di Roberto Davide Papini

«Ognuno di loro è un libro a parte ed è un libro vero...». Si illuminano gli occhi a Violetta Fraterrigo Sonelli quando parla dei suoi “ragazzi”, degli utenti del centro sociale evangelico e della cooperativa “La Riforma”. Adesso sono 27 persone, uomini e donne, con una notevole eterogeneità per età (quella media è di 40 anni) e la varietà di problemi psichici e relazionali.
Tante le attività in cui sono coinvolti: dai corsi di inglese, computer e gestione del denaro alla palestra; dal cinema alla visita di mostre e musei; dall’animazione teatrale e musicale alle realizzazioni artigianali; dal pranzo insieme in trattoria (momento importante di socializzazione, teraputico oltre che nutrizionale) alla partecipazione a progetti umanitari come quelli verso la Sierra Leone e il Burkina Faso. E poi la redazione di un bellissimo “diario di bordo” dove raccolgono emozioni, sentimenti, paure e speranze: “Noi di via Manzoni”
Lo staff della cooperativa, guidato da Violetta, è composto da quattordici persone tra psicologi, educatori, istruttori, personale amministrativo. Tra questi, schivo (tanto da non voler partecipare all’intervista) c’è anche Piero Luchini, una delle colonne di questa realtà che ha numerosi riconoscimenti e rapporti internazionali: da Strasburgo alla Finlandia, fino alla Danimarca.
— Violetta Fraterrigo Sonelli, facciamo un po’ di storia...
«La cooperativa sociale “La Riforma” si è costituita nel 1995. Gestisce un centro di riabilitazione psicosociale nato a seguito della legge Basaglia, la famosa 180 che ha permesso la riapertura degli ospedali psichiatrici. Il Centro sociale evangelico era uno dei centri di volontariato dove, oltre ad altri tipi di disagio, confluivano anche queste persone uscite dagli ospedali psichiatrici e con grossi problemi psichici».
— Con problemi diversi dagli altri casi che seguiva tradizionalmente il Centro sociale, no?
«Sì, il loro bisogno non era solo quello di mangiare o di dormire, come avevano gli altri, oppure di lavorare. Loro la necessità di lavorare la sentivano poco. Erano persone che avevano bisogno di essere ascoltate. E così avviammo una collaborazione con il Centro di igiene mentale di via delle Casine. Il tutto, ovviamente con l'appoggio della Usl 10A. Questo lavoro è stato sotto forma di volontariato, con un rimborso spese, fino al 1995 come Centro sociale evangelico. Il Centro, intanto, nell’81 aveva ottenuto una convenzione come centro di orientamento e pre-formazione e nell'84 come centro occupazionale».
— Poi nasce “La Riforma”... un nome ambiziosetto. Non crede?
«Sì, certo ambizioso. Un nome che da un lato si rifaceva alla Riforma protestante e dall’altro a quella di Basaglia».
— Ma cosa c’è di “evangelico” in questo lavoro che fate?
— Il Centro sociale si chiama evangelico perché fu fondato da persone provenienti dalle chiese evangeliche e tutt’ora ad esso fanno riferimento evangelici. Ma il nostro non è un discorso confessionale: più che dire che siamo evangelici, protestanti, nel mio caso valdesi, ciò che conta è che alla base ci sono i principi di liberazione e responsabilizzazione dell’individuo. Questo deve avvenire attraverso un progetto culturale che faccia sentire la persona un soggetto e non un oggetto, non uno che ha bisogno di pietà. Perché la pietà non dà dignità. Noi vogliamo che le persone facciano un percorso che li aiuti a capire che la dignità è in tutti noi, anche in chi, magari, è meno capace di altri. Partendo da un punto fondamentale: siamo tutti capaci di fare qualcosa».
— Ma Lei si manifesta come evangelica con loro? . Glielo dice?
«Io cerco di non mettere avanti il mio essere evangelica nel presentarmi a loro. Cerco di farlo capire attraverso quello che faccio».
— Visto che siamo in tema “evangelico”, qual è il rapporto con le varie chiese fiorentine?
«Siamo molto grati alla Chiesa valdese che ci ospita nei suoi locali (dietro un rimborso, certo) e ci consente di svolgere le nostre attività qui. E devo dire che gran parte della comunità valdese ci segue da sempre e ci è vicina».
— E le altre chiese?
«Non so... forse pensano che sia un lavoro un po’ troppo specializzato, tecnico...»
— Traduco: la Chiesa valdese ci segue, le altre no... È così?
«Diciamo che c’è qualche metodista, qualche battista... ci seguono più a livello di singoli che come chiese».
— Qual è la cosa più brutta di questi anni che le è capitata in questo lavoro?
«Vedere come spesso la burocrazia ci tarpi le ali, come non capisca il nostro lavoro, creando ostacoli».
— E quella più bella?
«Quando una delle persone che seguiamo mi dice: “Voglio provare a tornare a casa, a fare una vita normale”».

 

 

Dalle associazioni e dalle Chiese evangeliche fiorentine

a cura della redazione

 

Il “Sassolino Bianco”

Il classico “rinnovamento nella continuità”. Dopo l’appassionata presidenza di Marco Ricca, infatti, il “Sassolino Bianco” ha scelto una donna per la carica di presidente. Si tratta di Laura Micheletti, già vicepresidente e impegnata nell’associazione da anni, che è stata eletta dall’assemblea nazionale del “Sassolino Bianco” che si è tenuta a Firenze il 25 maggio. Al ruolo di vicepresidente è stato nominato Daniele Varese.
L’assemblea è stata l’occasione anche per fare il punto dei primi dieci anni di vita dell’associazione di volontariato, senza fine di lucro, che promuove e gestisce iniziative di aiuto e solidarietà verso bambini e adolescenti in difficoltà.
E a dieci anni dalla sua nascita è anche il momento di cambiare le strategie. Un po’ per le continue difficoltà per intervenire in Bielorussia (principale campo di azione del “Sassolino”) un po’ perché la formula dei “campi” realizzati in Italia per ospitare i bambini bielorussi comincia a mostrare i suoi limiti, con costi eccessivi rispetto ai benefici.
Così, accanto alla tradizionale attività di “campi” ci sono tanti altri progetti all’estero e in Italia. Tra questi ricordiamo il sostegno scolastico a distanza per studenti bielorussi e il progetto a favore delle vittime di violenze e soprusi in Congo, mentre in Italia c’è un interessante progetto di laboratorio linguistico per bambini cinesi in Val Pellice.
"Incontriamo bambini e adolescenti in difficoltà in ogni parte del mondo, anche qui in Italia - spiega Micheletti - e la nostra piccola associazione riceve richieste d'aiuto da molte realtà diverse e fa di tutto per rispondere ad esse. Quel che vorremmo sempre fare è aiutare ragazzi e ragazze a crescere e ad affrontare la vita nel migliore dei modi nel loro paese d'origine, o in quello di emigrazione». Per realizzare i suoi progetti umanitari l’associazione ha grande bisogno di fondi e del sostegno di soci e simpatizzanti. È possibile utilizzare il conto corrente bancario intestato al “Sassolino Bianco”: Banca Popolare di Milano -Agenzia 241 Firenze - via Accolti 23 - IBAN IT 66 H 05584 02801 000000000387 BIC BPMIITM1241. Oppure il conto Banco Posta c/c 21657507 intestato a: Associazione Il Sassolino Bianco – via Manzoni, 21 - 50121 o anche destinare al Sassolino Bianco il 5 x mille tasse. Il codice fiscale dell'associazione è: 02228810483.

 

Chiesa evangelica battista

http://chbattistaborgognissanti.interfree.it

La nostra carissima sorella Pia Campostrini Bassi all’età di 97 anni è tornata al Signore. E’ stata per lunghissimi anni innamorata della chiesa. Negli ultimi anni, in cui non poteva venire in chiesa per ragioni di salute, si leggeva la tristezza sul suo volto. Noi siamo lieti di ricordarla, di ricordare la sua fedeltà, il suo sorriso, la sua semplicità. Siamo lieti di ricordarla come testimone, fino alla fine, della sua fede in Gesù Cristo. Siamo lieta di ricordarla come esempio per ciascuno di noi a cui è affidato, per un altro tratto, la vita della nostra chiesa.

Con gli ultimi appuntamenti di Giugno si sono conclusi sia i seminari sull'Etica protestante che il Cineforum sul tema “Redenzione e relazioni”.

Dal 12 giugno al 15 giugno si è svolta a Rimini la XXXX Assemblea dell'Unione Cristiana Evangelica Battista d'Italia (UCEBI). Vi hanno partecipato come delegati della nostra comunità Serena Innocenti e Giorgio Brandoli. Tra le decisioni più significative: Sì all'8 x mille (anche quote non espresse, per finalità sociali, umanitarie e culturali) e i criteri per la definizione delle sedi pastorali. Rallegramenti per gli ottimi risultati della quinquennale partnership con i Battisti della Virginia e dell'anno dedicato a Martin Luther King.

Si segnala l’elezione del pastore Raffaele Volpe nel Comitato Esecutivo dell’Ucebi e di Dunia Magherini Baconi come membro del Collegio dei Revisori.

La predicazione per il culto del 15 giugno è stata tenuta da Renzo Ottaviani. Domenica 22 giugno culto congiunto con le chiese battiste: rumena, ivoriana e filippina.

Venerdì 20 giugno, “Sonata Barocca”, una selezione di musiche barocche di Händel, Bach, Telemann e Benedetto Marcello suonate dal pianista Riccardo Foti e dal suonatore-liutaio Sand Dalton.

Proseguono i gruppi di preghiera in casa D'Angrò-Biagini, Tonarelli-Brandoli, Gloriana Innocenti, Enriques-Ottaviani (Scandicci).

 

Chiesa evangelica valdese

www.firenzevaldese.chiesavaldese.org

Dalla relazione morale del Concistoro

La relazione morale, scritta a più mani dal concistoro e dai vari responsabili dei settori di attività della nostra comunità, non può che iniziare con una valutazione su un anno ecclesiastico dominato dal cambiamento pastorale. Difatti, quando ciclicamente avviene questo evento, sia la comunità che il pastore devono prima di tutto conoscersi per poter insieme testimoniare nel miglior modo possibile l’Evangelo.

Questa prima fase, delicata e importante per il prosieguo del settennato, si è svolta in un buon clima e da subito si sono instaurati buoni rapporti personali e collettivi.

Come Concistoro e, pensiamo, come comunità, abbiamo potuto apprezzare la capacità di ascolto e di riflessione del nuovo pastore, mentre eravamo certi delle sue indubbie doti intellettuali.

Tutte le attività che si sono svolte nella nostra comunità da molti anni sono continuate regolarmente. In particolare, c’è stata da parte del concistoro (che si è rinnovato nella sua composizione) una rafforzata attenzione per la comunicazione delle attività interne ed esterne alla comunità.

Questo lavoro sulla comunicazione, iniziato già alcuni anni fa con la creazione del sito web della comunità, si è intensificato con la pubblicazione regolare delle principali decisioni e discussioni che si svolgono nel concistoro.

Questa nuova iniziativa è nata per consolidare, con una puntuale informazione, il senso di appartenenza e di condivisione in tutti i nostri membri di chiesa e per aumentare sempre di più il senso profondo che la testimonianza evangelica non è cosa da addetti ai lavori, ma è compito di ogni membro di chiesa.

Potremmo citare qui “il sacerdozio universale” come caratteristica distintiva di una comunità cristiana riformata, ma ci piace la definizione di “pastorato universale” data dal nostro pastore in un recente sermone.

Un altro aspetto del nostro essere chiesa che andrebbe ancor di più potenziato e che sarà una costante del nostro lavoro è la valorizzazione e l’innalzamento dello spirito comunitario e quindi anche dei rapporti reciproci a livello personale.

L’idea e la proposta approvata in assemblea di sviluppare le attività di socializzazione fra i membri di chiesa (e non) con gite e altro non è stata abbandonata, ma non si è potuta realizzare per i molti impegni che si sono accavallati nella fase del cambiamento pastorale.

Nel panorama delle chiese fiorentine riformate o che hanno forti vincoli di testimonianza comune con noi, dobbiamo accennare a due fatti che sono avvenuti in due comunità “sorelle”:

In Chiesa battista, dopo l’assemblea-sinodo nazionale congiunta che si è svolta l’anno scorso, si è sentita la necessità di rafforzare e rinsaldare i rapporti con la nostra comunità: questo fatto ci rende felici perché vediamo così la possibilità di realizzare un potenziamento della testimonianza evangelica nella città. I due consigli di chiesa si sono riuniti alcune volte e, al di là della progettazione di alcuni appuntamenti in comune, hanno rafforzato il clima di collaborazione e di fraternità.

In Chiesa metodista, invece, purtroppo la situazione è particolarmente difficile a causa della partenza del pastore titolare che, in modo inaspettato, ha lasciato il suo incarico. Speriamo che gli organismi preposti trovino una soluzione soddisfacente e veloce; nel frattempo la chiesa è stata affidata al Circuito e in particolare al suo sovrintendente, la pastora Dorothea Müller.

Nello stesso periodo, avevamo chiesto e ottenuto di poter svolgere congiuntamente il nostro culto per il periodo necessario all’installazione del nuovo impianto di riscaldamento nella nostra chiesa; mentre ringraziamo ancora una volta i fratelli metodisti per l’ospitalità, possiamo affermare che questa situazione ha rafforzato i vincoli storici fra le due comunità.

In attesa della soluzione definitiva i due consigli, al momento del rientro della comunità valdese nel proprio locale di culto, insieme alla pastora Müller, hanno organizzato i culti nella chiesa metodista il sabato pomeriggio alle 18. Al momento questa esperienza non sta ottenendo risultati soddisfacenti, ma speriamo che nel futuro ci siano segnali più confortanti.

 

Dal messaggio indirizzato all’assemblea dal pastore Gajewski

Seguendo il pensiero della Riforma, riassunto magistralmente da André Gounelle nel suo libro I grandi principi del protestantesimo (Claudiana, Torino, 2000), credo che il mio compito principale (o forse unico?) debba essere la predicazione. Gounelle intende la predicazione in questi termini:

 

Per predicazione bisogna intendere ogni annuncio e ogni spiegazione dell’evangelo per mezzo della parola. Non si tratta soltanto del sermone nel corso del culto della domenica mattina, ma anche degli studi biblici, dei catechismi ecc. Certe visite pastorali costituiscono vere e proprie predicazioni, pronunciate in privato, e non in pubblico. Non si deve neppure pensare unicamente a un discorso fatto davanti a un ascoltatore muto. La predicazione può avvenire sotto forma di dialogo e di discussione in cui ciascuno interviene. […] La predicazione interpella, ci chiede impegno e che rispondiamo di sì alla domanda che Dio pone a ciascuno di noi (p. 50).

 

Nella Chiesa valdese di Firenze ho potuto sperimentare spesso questa ricchezza di predicazione, inclusa quella dialogica. Per questo dono ringrazio prima di tutto il Signore, ma subito dopo il gruppo di studio biblico, il gruppo di catechismo, il gruppo visite, la scuola domenicale e tutte le persone che in questi mesi mi hanno dimostrato in varie forme di partecipare attivamente alla predicazione. Ho usato il termine “partecipare” perché il verbo “ascoltare” non mi sembra sufficiente per esprimere la complessità della predicazione in cui sono coinvolti tutti i suoi attori: Dio, la persona che annuncia la Sua Parola incarnatasi in Gesù Cristo e le persone cui è destinato l’annuncio.

Credo dunque che il principale criterio per la valutazione di un pastore debba essere proprio la sua predicazione.

 

Assemblea di chiesa sulla cultura e testimonianza

Relazione a cura di Andrea Panerini

Domenica 8 giugno alle ore 14,30 - dopo il consueto pranzo comunitario - ha avuto luogo l’assemblea della chiesa valdese di Firenze con il tema “La cultura e il lavoro culturale”, che sarà affrontato anche al Sinodo valdese e metodista del prossimo agosto.

L’assemblea è stata preceduta da una breve relazione letta da Debora Spini, a nome del gruppo di lavoro che ha preparato l’assemblea stessa e composto oltre da Andrea Panerini, Walter Balzano e, ovviamente, Debora Spini.

Le due aree tematiche proposte che hanno appassionato i partecipanti all’assemblea sono state quella della “identità” e la “testimonianza”.

Per quanto riguarda l’identità la discussione si è concentrata sul rilancio dei centri culturali protestanti (con particolare riferimento al “P.M. Vermigli”), sulla riscoperta e diffusione della storia del valdismo e dell’evangelismo italiano - senza apologie e senza fuggire ad una continua problematizzazione della storiografia - con particolare riferimento alle celebrazioni per l’unità italiana del 2011 e per una riscoperta della figura di Giovanni Calvino nell’occasione del quinto centenario della sua nascita (2009).

Sul rapporto invece tra cultura e testimonianza (anche intesa come Diaconia) si sono concentrati la maggior parte degli interventi, dando modo all’assemblea di discutere in mondo ampio e con una grande ricchezza e diversità di opinioni, raggruppabili tra due tendenze di massima: alcuni fratelli e sorelle concepivano la cultura e la comunicazione come un “braccio” della testimonianza e altri/e sottolineavano la grande importanza della formazione continua e incessante nel settore educativo e in quello biblico-teologico.

Su quali temi però si sente la nostra mancanza nel dibattito pubblico? Questa è stata la domanda fondante di tutto il dibattito. Mentre su alcuni temi etici, quali la fine della vita e l’omosessualità, la voce della chiesa si riesce a udire (nonostante le visibili carenze nella comunicazione) invece, su una dimensione cristiana di laicità, sull’etica pubblica e della cittadinanza, sull’ambiente e su una riscoperta culturale prima ancora che religiosa della Scrittura, la voce della chiesa è ancora troppo flebile.

Un altro tema che è stato molto dibattuto è stato quello che atteneva ad un problema di ecumenismo: con quali “compagni di viaggio” ci imbarchiamo per questo viaggio nel mondo? Secondo molti fratelli e sorelle fare cultura e aprirsi al dialogo non è cedere al buonismo ma prendere atto che molte tematiche etiche e teologiche sono difficili da affrontarsi con molti cattolici ma anche con molti fratelli “evangelicali” e che la chiesa valdese deve portare avanti una sua precisa specificità culturale senza farsi assorbire da processi culturali che sono troppo lontani dalla sua storia, dalla sua teologia e dal suo modo di predicare l’evangelo.

La mediazione culturale tra persone di diversi paesi, specialmente nella scuola, l’accoglienza per gli immigrati, è uno dei campi di azione più sentiti dai fratelli e dalle sorelle della comunità fiorentina e hanno permeato numerosi interventi.

L’innovazione dei mezzi di comunicazione è stato un altro tema molto sentito. “Riforma”, “Diaspora evangelica”, “Protestantesimo” e le varie radio evangeliche (molte delle quali gestite da altre chiese) sono importanti strumenti di comunicazione, soprattutto all’interno delle chiese, il problema evidenziato nel dibattito sono le carenze nell’apertura all’esterno, nel raggiungere nuovi fratelli e sorelle, soprattutto giovani o adolescenti. Sono state formulate numerose proposte interessanti: realizzare trasmissioni evangeliche da far trasmettere alle televisioni locali e di mettere in piedi (visti i costi contenuti) una web-tv e/o web-radio. 

L’Assemblea ha, come atto conclusivo, nominato delle commissioni tematiche che avranno quale compito primario quello di portare su un terreno più concreto i suggerimenti, le critiche, le osservazioni e la discussione avvenuta in assemblea.

Per la testimonianza agli immigrati sono stati individuate le sorelle: Patrizia Barbanotti, Lucilla Ricca, Paola Reggiani, Anna Ricca e Olivia Bertelli.

Per la comunicazione sono stati individuati i fratelli: Roberto Davide Papini, Valerio Cheli, Andrea Panerini e Valdo Pasqui.

Infine per la scuola sono state invidiate le sorelle Mirella Ricca, Judith Siegel e Nella Buttitta.

Queste commissioni sono, ovviamente, aperte al contributo - gradito e sollecitato - di tutti i fratelli e le sorelle di chiesa e anche di esperti esterni.

 

Avvisi di servizio

·       I membri di chiesa valdesi che desiderano ricevere via e-mail o per posta ordinaria l’intera relazione morale (e finanziaria) del Concistoro si rivolgano, per favore al pastore Gajewski: pgajewski@chiesavaldese.org, tel. 0552477800, cellulare: 3473039262, oppure al fratello Roberto Rossi. Alcune copie della relazione sono disponibili nei locali della nostra chiesa in via Manzoni e nel tempio di via Micheli.

·       I culti domenicali congiunti nei mesi estivi (luglio e agosto) saranno celebrati alle 10.30; a luglio nel tempio metodista in via De’ Benci, ad agosto nel tempio valdese di via Micheli. Dalla prima domenica di settembre (7 settembre) si ritorna ai culti domenicali separati in via De’ Benci e in via Micheli.

·       Il Concistoro ricorda di aver fissato per domenica, 14 settembre, alle 10.30 il culto d’inizio delle attività e l’assemblea di chiesa, dedicata alle deliberazioni della Conferenza distrettuale e del Sinodo. È previsto il pranzo comunitario; le prenotazioni devono essere effettuate entro il 12 settembre (e preferibilmente non prima del 30 agosto).

 

Viaggio in Polonia organizzato dal X Circuito valdese e metodista

a cura della redazione

 

L’anno 2009 sarà segnato dal 500° anniversario della nascita di Giovanni Calvino. La figura del Riformatore di Ginevra ci ricorda la dimensione internazionale della Riforma e ci chiama a rinforzare la comunione con le chiese protestanti che vivono e testimoniano l’Evangelo nei paesi di chiara impronta cattolica romana. Uno di questi paesi è senz’altro la Polonia, la patria di Jan Laski (Johannes a Lasco) uno dei più importanti teologi riformati del Cinquecento ma anche la patria di Karol Wojtyla, uno dei più importanti papi del Novecento.

Il consiglio del X circuito propone dunque il seguente progetto di viaggio dal 25 aprile al 3 maggio 2009.

 

1.    25.04: Firenze (partenza alle 7.00) - Venezia - breve sosta a, dalle 13.00 fino alle 15.00: tempo libero, pranzo o spuntino a proprio carico – Villach (A) – cena comunitaria nell’albergo e pernottamento.

 

2.    26.04: Villach (partenza alle 7.30) – Vienna - breve sosta, dalle 11.30 fino alle 13.00: pranzo o spuntino a proprio carico – Bielsko-Biala (PL) – cena comunitaria nell’albergo e pernottamento.

 

3.    27.04: La mattina: visita guidata ad Auschwitz; pomeriggio: Bielsko-Biala: pranzo comunitario nel Centro Evangelico “Betania”, visita guidata delle “Valli Luterane”, cena comunitaria nell’albergo, pernottamento.

 

4.    28.04: Cracovia – visita della città e dei suoi monumenti, spuntino o pranzo a proprio carico, cena comunitaria in uno dei ristoranti tipici di Cracovia, pernottamento.

 

5.    29.04: Wieliczka: visita guidata alla più antica miniera di sale in Europa, pranzo comunitario all’interno della miniera; trasferimento a Varsavia, tempo cena comunitaria nell’albergo, pernottamento.

 

6.    30.04: Varsavia: la mattina – visita guidata della città; pranzo comunitario in uno dei ristoranti di Varsavia; il pomeriggio: incontro con la Chiesa Evangelica Riformata di Varsavia, trasferimento all’albergo, tempo libero, cena o spuntino serale a proprio carico.

 

7.    01.05: Varsavia – Breslavia - breve sosta, dalle 11.30 fino alle 13.30: pranzo o spuntino a proprio carico - Karpacz, visita guidata del tempio luterano – tempo libero, cena comunitaria nell’albergo e pernottamento.

 

8.    02.05: Karpacz (PL) – Praga (CZ) - breve sosta, dalle 11.30 fino alle 14.00: pranzo o spuntino a proprio carico – Augsburg (Augusta) (D) – cena comunitaria nell’albergo e pernottamento.

 

9.    03.05: Augsburg, visita guidata della città, pranzo comunitario – Firenze (arrivo previsto intorno alle 23.00). Durante il trasferimento da Augsburg a Firenze, una breve sosta sull’autostrada per lo spuntino serale (a proprio carico).

Il prezzo di tutto il viaggio è stimato intorno a 900 euro a persona, tasse e assicurazioni incluse. Le prenotazioni inizieranno il 1 settembre. Il viaggio si svolgerà se saranno raggiunte almeno 30 prenotazioni. I recapiti di riferimento sono quelli del pastore Gajewski: pagajewski@chiesavaldese.org, tel.: 0552477800.

 

 

Archivio di “Diaspora” (Anno XXXI - n.9 settembre 1993)

 

Pagine di fuoco

di Brunero Gherardini

Sulla rivista teologica cattolica “Divinitas” (11.2/93) abbiamo trovato con comprensibile gioia questa calda presentazione della raccolta di predicazioni di V.Subilia, La Parola che brucia, pubblicato dalla Claudiana.(G.C.)

Che commozione per me, prete cattolico ch‘ebbe in Vittorio Subilia, protestante, uno degli amici più cari, leggere queste pagine di fuoco. Ritrovo in esse "il cuor ch'egli ebbe": la sua fede forte e limpida, il suo rigore senza compromessi, il suo amore all'Evangelo: un amore simile al roveto che, ardendo, non si consumava. E' stato, il leggerlo, come risentirlo quel giorno che, accompagnandolo alla Facoltà valdese dopo la sua stupenda lezione sullo Spirito Santo ai miei alunni del Laterano, mi raccontò episodi e momenti del suo pastorato a Palermo e ad Aosta. Se tutto è grazia, lo é pure l‘averlo incontrato sul mio cammino, l'averne goduto la stima e l'amicizia, l'averne ascoltato "la parola che brucia". Deo gratias!

Ora l'ardore di quella parola si comunica ai lettori di queste pagine... queste meditazioni riecheggiano il timbro della voce di lui e ne ripropongono la testimonianza forte e fedele. Non ho trovato alcuna differenza, se non di modulo espositivo, tra la sua predicazione e la sua teologia. E' chiaro che pulpito e cattedra si davano in lui la mano al servizio dell'unico Signore, alla luce di un unico principio, il solus: "solus Christus, sola Scriptura, sola gratia, sola fide"... E’ il messaggio dell'Evangelo in un atto d'adorazione verso Iddio della rivelazione, nel riconoscimento della sua assoluta alterità, della sua santità, del suo diritto, del suo amore. Tematica, questa, tipicamente "evangelica" e pertanto centrale, che attraversa i singoli temi (la preghiera, la predicazione, l'amore tra uomo e donna, la fede e le vie di Dio che la veicolano) ed esplode dall'insieme.

Non penso che il ricordo di lui, deceduto nel 1988, sia andato affievolendosi; saluto però cordialmente questa pubblicazione che concorre tanto efficacemente a ricordarcelo con la sua “parola che brucia”.

 

Ecumenicamnte (s-)corretto: un matrimonio negato

di Roberto Davide Papini

 

L’improvvida e deprimente decisione di un vescovo di negare il matrimonio religioso a una coppia perché l’aspirante marito è paraplegico poteva sfuggire a questa rubrichetta? Mi riferisco alla decisione del vescovo cattolico di Viterbo, Lorenzo Chiarinelli, di negare il matrimonio religioso perché l’uomo della coppia è paraplegico e dunque considerato “incapace” di procreare per “impotenza copulativa”. «Tutto è stato fatto nella condivisione sincera della situazione e con ogni attenzione umana e cristiana» dice la nota della curia che non smentisce il diniego ma lo definisce “condiviso” e, soprattutto, imposto dal diritto canonico.
Leggendo queste cose ho pensato ai tanti fratelli cattolici, quelli del dialogo ecumenico, quelli dell’ecumenismo delle coccole, quelli che con spericolate acrobazie dicono di non credere nei dogmi della chiesa cattolica, però restano cattolici, quelli che “la chiesa si cambia dall’interno”.. Ho immaginato la loro veemente reazione...Silenzio... Dove siete fratelli cattolici? Tristezza. Poi mi sono intristito ancor di più pensando che anche noi evangelici siamo stati piuttosto silenziosi su questa vicenda.
A rincuorarmi è stata la lettura di un intervento di una cattolica, una grande donna che non ha mai avuto paura di dire la sua, Mina Welby. Sul suo sito internet (
http://calibano.ilcannocchiale.it/)Mina Welby scrive che «non è accertato che per una paralisi un uomo non possa procreare, oltre a questo il matrimonio non è solo ed esclusivamente istituito per procreare». Così decide di fare una piccola ricerca ed ecco che trova nella Gaudium et spes questa frase: «Il matrimonio tuttavia non è stato istituito soltanto per la procreazione; il carattere stesso di alleanza indissolubile tra persone e il bene dei figli esigono che anche il mutuo amore dei coniugi abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità. E perciò anche se la prole, molto spesso tanto vivamente desiderata, non c'è, il matrimonio perdura come comunità e comunione di tutta la vita e conserva il suo valore e la sua indissolubilità».
Poi una citazione del codice di diritto canonico (Can. 1084 - §2). «Se l'impedimento di impotenza è dubbio, sia per dubbio di diritto sia per dubbio di fatto, il matrimonio non deve essere impedito né, stante il dubbio, dichiarato nullo. §3. La sterilità né proibisce né dirime il matrimonio…». E poi la Welby aggiunge «che un matrimonio può essere solo invalido se uno dei due tace l'incapacità di procreare. Ma qui ambedue erano ben coscienti. E adesso invito un esperto di diritto canonico che mi dica il contrario»
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vignetta diaspora

 

Badate a voi stessi e a tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti vescovi, per pascere la chiesa di Dio, che egli ha acquistata con il proprio sangue. (Atti degli apostoli 20,28)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1] Il testo integrale della lectio sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista ufficiale della Facoltà teologica avventista Adventus