Il Passato

di Manuela Sadun Paggi

lascialo andare, se vuoi servire

Dio con tutto il tuo cuore.

Lascialo andare,

non permettere che

pena, ansie e timori

abbiano il sopravvento

e ti siano compagni

nel vortice della vita.

Scova la felicità

e lasciati portare,

non lo dimenticare.

Nuovi mondi sconosciuti

appariranno sulla tua via.

Umiltà, speranza e amore,

nuovi compagni fedeli,

nella danza della vita,

saranno luce ai tuoi passi,

acqua viva e ristoro,

per la tua anima assetata.

 

(da: Guarire le ferite, EMI p. 37)

TRAPIANTO DI CUORE

di Mario Marziale

 

Ecco, i giorni vengono”, dice il Signore, “in cui farò un nuovo patto con la casa d’Israele e con la casa di Giuda; non come il patto che feci con i loro padri il giorno che li presi per mano per condurli fuori dal paese d’Egitto: patto che essi violarono, sebbene io fossi il loro Signore”, dice il Signore; ma questo è il patto che farò con la casa d’Israele, dopo quei giorni”, dice il Signore: io metterò la mia legge nell’intimo loro, la scriverò sul loro cuore”, e io sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo. Nessuno istruirà più il suo compagno o il proprio fratello dicendo: “Conoscete il Signore!” poiché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande”, dice il Signore. Poiché io perdonerò la loro iniquità, non mi ricorderò del loro peccato. (Geremia 31, 31-34)

 

Che bel messaggio! Dio vuole porre la sua legge nell’intimo dell’essere umano e scriverla sul suo cuore. Dopo tanti richiami, invettive e punizioni, il Signore calma la sua ira e mette fine alla sua giustizia forense. Fa prevalere la sua vera natura, l’amore profondo che nutre per il suo popolo, che ha scelto e al quale si è legato in un patto eterno. Vediamo come sono andate le cose.

 

Il nostro testo parlando di un patto nuovo sottende uno vecchio. Il concetto di “patto”, fondamentale nella economia della Bibbia, esprime il modo in cui Dio si relaziona alle sue creature ed in particolare all’essere umano.

Nell’accezione comune, il termine ‘patto’ (gr. synthèke) significa accordo tra due o più soggetti, stabilito con più o meno solennità, spesso con giuramento e a volte in presenza di testimoni umani e divini. A formare il contenuto di questo patto concorrono le parti contraenti su un piano di parità.

Il concetto biblico di ‘patto’ (gr. diathèke, ebr. berit) è invece di natura diversa. Esso è concepito unilateralmente da Dio e proposto alla semplice accettazione del singolo o del popolo, i quali una volta che l’hanno accettato s’impegnano solennemente ad osservarlo.

 

Nella Bibbia esistono diversi patti, differenti tra loro, ma tutti aventi come base il medesimo patto per eccellenza, a cui fa riferimento il nostro testo, stabilito da Dio con le tribù d’Israele durante la peregrinazione nel deserto. Mosè, suo servo, fu chiamato da Dio sul monte Sinai per ricevere la Torà, i dieci comandamenti scritti su due tavole di pietra.

Tramite la Torà Dio e le tribù d’Israele si legano in un patto di fedeltà. Con esso Dio costituisce il popolo eletto, che d’ora innanzi sarà il suo popolo particolare tra tutti gli altri popoli della terra. Mediante questo patto, da una parte il Signore s’impegna a mantenere le promesse già fatte e a garantire al popolo la sua protezione, dall’altra, questi s’impegna ad amare la Torà, ad osservarne fedelmente i comandamenti in tutti gli aspetti della vita sociale e religiosa.

Tranne qualche piccola lamentela da parte del popolo, i rapporti tra Dio e il suo popolo andarono abbastanza bene per un certo tempo, per tutto il periodo mosaico, della vita nomade nel deserto in vista della terra promessa. Ma dopo lo stanziamento in Canaan, un profondo cambiamento avvenne nella vita del popolo di Dio. La vita diventa sedentaria, si inizia a pensare oltre all’oggi anche al domani. Si inizia a coltivare la terra, a costruire case, a creare riserve. In somma, si cerca di munirsi di tutti quei conforti che danno alla vita garanzia e sicurezza, che i popoli vicini già posseggono da molto tempo. Inoltre, nell’area in cui il popolo si stanzia esisteva già da tempo una civiltà avanzata, con la sua cultura, la sua scienza, i suoi costumi e la sua religione. Questo nuovo mondo affascinò e sedusse talmente i nuovi arrivati, i più intraprendenti in modo particolare, che cedettero ai suoi bagliori e alle sue lusinghe. Cosicché, in breve tempo il popolo cambiò stile di vita, i costumi e perfino inquinò la religione. In una parola, trascurò, e a tratti dimenticò, il patto con il

suo Dio, che prima aveva accolto con entusiasmo e poi confermato solennemente. Mentre Dio rimaneva fedele al patto, il popolo si dimostrava infedele.

A nulla valsero i ripetuti ed accorati richiami a rispettare il patto, spesso seguiti da ammonimenti e minacce, che il Signore rivolse al suo popolo per mezzo dei profeti. Richiami ad osservare le legge, a praticare la giustizia, ad amare la misericordia e a camminare con umiltà davanti a Lui. Tutti richiami inutili, che non ebbero seguito. Il popolo continuò imperterrito nella sua ostinazione: era proprio di collo duro. Dopo averle provate tutte, al Signore non rimase che dare corso al suo giudizio. Il popolo doveva sperimentare sulla pelle cosa significa venire meno al patto e vivere lontano dal suo Signore.

I tempi si fecero pertanto molto duri! Nell’area palestinese, al dominio degli Assiri subentrò quello dei Babilonesi. I regni di Giuda e d’Israele vennero sopraffatti prima dagli uni e poi dagli altri. Quando il re di Giuda, sollecitato dal popolo che auspicava un’alleanza con l’Egitto, tentò di sottrarsi al pagamento del tributo dovuto ai babilonesi, il loro re Nabucodonosor marciò contro Giuda, conquistò Gerusalemme e deportò gran parte della popolazione in Babilonia.

In tal modo, la nazione santa venne a mancare e il popolo fu smembrato. Lontano dalla propria terra e privo del tempio con la sua funzione unificatrice, era costretto ad arrangiarsi come meglio poteva. Non meraviglia quindi che buona parte si confece all’ambiente che la ospitava. Ne accettò gli usi e i costumi e perfino le pratiche religiose. Tutto questo dispiacque al loro Signore, che fu mosso a gelosia.

 

Ma Dio non è soltanto un Dio geloso, è soprattutto il Dio della misericordia e dell’amore, il Dio fedele alle sue promesse. Per cui, nonostante l’infedeltà del suo popolo, per amore del suo nome, decise di raccoglierlo e ricondurlo nella sua terra, di ristabilirne regno secondo la promessa fatta a Davide suo servo, secondo la quale il suo regno sarebbe stato un regno eterno.

Così, decise di reimpostare i rapporti con il suo popolo e di fare con esso un nuovo patto. In esso la legge rimarrà la stessa, ma anziché essere scritta su tavole di pietra sarà posta nell’intimo dell’uomo e scritta sul suo cuore.

Dopo questa profezia di Geremia, tranne qualche cenno fatto dai profeti suoi contemporanei Isaia ed Ezechiele, del nuovo patto non si parlerà più per diversi secoli, fino quando non comparirà sulla scena della storia salvifica l’erede del regno davidico, il messia Gesù Cristo. E’ Lui che riprende l’argomento del nuovo patto, che lo interpreta e lo spiega in modo plastico nell’ultima cena con i suoi discepoli, quando dopo aver spezzato e dato il pane come segno del dono del suo ‘corpo’, dette loro anche il calice dicendo: Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, il quale è sparso per voi. Con questo, Egli intese dire in modo esplicito che il nuovo patto che Dio stabilisce ha come base l’offerta della sua vita e come contenuto il suo ministero sacerdotale, culminante nella sua morte e risurrezione. Quindi, non più la Torà ma il sacrificio di Gesù Cristo.

Nel N.T., il raffronto tra il nuovo e il vecchio patto viene fatto dall’autore dell’epistola agli Ebrei. Nel capitolo 8 egli afferma che il nuovo patto è superiore al vecchio, e che quest’ultimo, invecchiato, è destinato scomparire. L’apostolo Paolo aggiunge che la legge ha fatto ormai il suo corso e che il suo termine è Cristo; che essa è stata un pedagogo con il compito di condurre l’uomo a Cristo, e che ora la sua funzione è solo quella di rendere l’uomo cosciente della sua incapacità naturale a compiere la volontà di Dio e di essere schiavo del peccato.

Ma in che senso la legge è superata? Che cosa ne è del suo contenuto proprio, dei comandamenti, tanto cari agli ebrei e più ancora al Signore che li ha dati? A tale proposito ci viene in aiuto Gesù quando dice: Non pensate ch’io sia venuto per abolire la legge od i profeti; io sono venuto non per abolire ma per compire: poiché io vi dico in verità finché non siano passati i cieli e la terra, neppure uno iota della legge passerà, che tutto non sia adempiuto. Chi dunque avrà violato uno di questi minimi comandamenti ed avrà così insegnato agli uomini, sarà chiamato minimo nel regno dei cieli; ma chi li avrà messi in pratica ed insegnati, esso sarà chiamato

grande nel regno dei cieli.

Dalle parole di Gesù risulta chiaro che il contenuto della legge riamane valido per tutto il corso della storia, in quanto è l’espressione dell’immutabile volontà di Dio riguardo al comportamento dell’uomo, nei suoi confronti e in quelli del suo prossimo.

Ma, allora, che cosa è realmente passato della legge, che cosa è stato superato dal nuovo? E’ stato superato il suo potere, la sua forza di legge, cioè la capacità che aveva di rendere gli uomini giusti o ingiusti davanti di Dio. D’ora innanzi, nessuno sarà più giustificato per mezzo della sua osservanza, ma sarà giustificato dalla grazia di Dio in Gesù Cristo gratuitamente. Non saranno più le opere umane, giuste e pie che siano, a rendere gli uomini accetti davanti a Dio, ma sarà solo la loro fede. Si avvera così la profezia di Habacuc che dice che il giusto vivrà per la sua fede. Nel nuovo patto, la legge ha perso il suo potere ‘condizionale’ ma conserva il suo valore strumentale.

L’amore di Dio tocca qui il suo apice. In Gesù Cristo Dio perdona la malvagità umana e non si ricorda più dei peccati. Soltanto mediante l’opera di Cristo, accolta nella fede, è possibile che Dio sia veramente l’Iddio del suo popolo e i credenti in Cristo vi facciano realmente parte. Quello che nel nuovo patto si richiede, quindi, è che si riconosca Cristo e si creda in Lui, e questo è quanto basta per ottenere la vita eterna e risuscitare nell’ultimo giorno.

 

Ma, ancora, come è possibile per l’uomo debole per natura giungere alla fede? Che sia capace di dire no a se stesso per dire si a Cristo? E’ possibile perché Dio opera ulteriormente. Il nostro testo afferma che Dio mette la sua legge nell’intimo dell’uomo e la scrive sul cuore. A capire come Dio operi in questo modo ci aiuta il profeta Ezechiele, contemporaneo di Geremia e probabile conoscitore del suo testo. Anch’egli, interessato ad illuminare e a confortare il popolo in distretta, dice da parte di Dio: Vi darò un cuore nuovo, e metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò dalla vostra carne il cuore di pietra, e vi darò un cuore di carne. Metterò dentro di voi il mio spirito, e farò si che camminerete secondo le mie prescrizioni.

Ovviamente, non si tratta di un trapianto materiale di cuore, ma della presenza dello Spirito di Dio nel cuore umano. Tenendo presente che nella Bibbia il cuore rappresenta la parte cosciente dell’uomo, il suo centro vitale, la sede dei suoi pensieri e sentimenti, è lecito affermare che Dio vuole dire che crea nell’intimo dell’uomo nuove motivazioni e che gli dà la capacità di vincere tutte le resistenze per credere in Cristo. Questo avviene per opera dello Spirito Santo posto nell’uomo, che fa sì che la Parola di Dio, più affilata di una spada a due tagli, possa penetrare negli intimi recessi del suo cuore, e che con la sua illuminazione, il suo consiglio e la sua intercessione lo mette in condizione di dire ‘si’ all’offerta incalzante di Dio, fino a farlo esclamare con Geremia: Tu m’hai persuaso, o Eterno, e io mi son lasciato persuadere, tu m’hai fatto forza, e m’hai vinto.

E’ la vittoria dell’amore di Dio, il trionfo della sua grazia per tutti gli uomini senza alcuna distinzione. Confortanti sono le parole del mediatore del nuovo patto, Gesù Cristo, che dice: Tutto quel che il Padre mi dà, verrà a me; e colui che viene a me, io non caccerò fuori.

 

Non vi è, quindi, più nessuna scusa per l’uomo, per ognuno di noi. Dio ha fatto tutto, ha spianata la strada e ci spinge verso suo Figlio, affinché lo accettiamo e lo seguiamo nel cammino della vita. Camminiamo quindi con Lui, sereni e gioiosi, essendo entrati stabilmente nel nuovo patto, ma senza dimenticare le indicazioni dei comandamenti che rimangano sempre valide, e che per noi si riassumono nell’esercizio dell’amore: amare Dio con tutto il cuore, l’anima e la forza, ed il prossimo come noi stessi. Cosa che in concreto significa compiere quelle buone opere che Dio ha già preparate per noi e che aspettano che le compiamo, opere che però non precedono la nostra fede ma la seguono. Perciò viviamo la nostra vita attivamente nella chiesa e responsabilmente nella società. Così facendo, daremo un piccolo, ma importante contributo alla storia del nostro mondo che, retto dal nuovo patto, attende la sua redenzione.

Etica planetaria

di Mario Affuso

(Conferenza tenuta al Centro “Vermigli” il 13 maggio 2006)

 

Uno dei più illuminanti testi del filosofo Salvatore Natoli – Stare al mondo - si apre con queste parole: «La condizione umana s’identifica con lo stare al mondo. E una vita (è) riuscita con il saperci stare (…) soggiornando in spazi diversi, per tempi diversi e tuttavia nella condizione di essere sempre e inevitabilmente “situati”». Ecco le prime tracce di un uomo ‘planetario’, espressione che è propria del pensiero e del linguaggio balducciano. Senza alcuna forzatura storico-teologica possiamo capire, oggi meglio di ieri, il motto di Giovanni Wesley (Epwarth 1703- Londra 1791): «La mia parrocchia è il mondo!». Si sentiva parte della sua società ma sostanzialmente aveva una ancor più profonda coscienza: quella di vivere una «comunità di destino» che lo legava, insieme ad «ogni destino umano, a quello del pianeta, anche nella sua vita quotidiana» (e.m.). Era in questo suo sentire mosso in modo singolare dallo Spirito santo che A. Holl definisce “Il più grande rivoluzionario di tutti i tempi”. Wesley sentiva il peso di una responsabilità non limitata al suo gruppo, alla sua società, alla sua nazione ma estesa all’intero mondo, all’intero creato del cui destino siamo tutti responsabili. Ce lo ricorda Paolo apostolo invitando i credenti di ogni epoca, pur nel rispetto delle proprie realtà locali, a lasciarsi afferrare come da una Pentecoste secolare capace di liberare da regressivi localismi e conseguire una mentalità ed una condotta planetarie capaci di leggere le sofferenze del mondo e dell’intero creato.

Ormai siamo tutti, ad ogni latitudine, chiamati a vivere la nostra appartenenza al mondo riconoscendolo come di tutti: è qui che nasce il senso dell’uguaglianza ispirata non ad un velleitario egualitarismo ma alla fraternità, la grande assente del nostro tempo. E' essa il fondamento di una comunità planetaria.

 

 

Anche in cielo c’è un’ora malinconica

Ora difficile, in cui il dubbio penetra le anime.

Perché feci il mondo? Si chiede Dio

E si risponde: Non so.

 

Gli angeli lo guardano con rimprovero,

e piume cadono.

Tutte le ipotesi: la grazia, l’eternità, l’amore,

cadono, sono piume.

 

Un’altra piuma, il cielo si disfa.

Che calma, nessun fragore annuncia

il momento fra il tutto e il nulla,

ossia, la tristezza di Dio.

Carlos Drummond de Andrade (1)

 

Un noto slogan teologico amato dal protestantesimo è quello che connota il pensiero di Giovanni Wesley (1703-1791) e ancor oggi costituisce un dato distintivo del metodismo. Esso recita «La mia parrocchia è il mondo». Un motto che si presta a letture diverse e che questa sera vorrei capirlo in termini metadenominazionali chiedendolo in prestito per la pregnanza degli elementi in gioco e, forse, per vederlo al di fuori dai consueti usi riduttivi.

Si coglie immediatamente un rapporto che ci coinvolge tutti e che, perciò, conserva un suo spessore profetico: è il rapporto «io–mondo», ove ‘mondo’ non è quello racchiuso nei confini del proprio entourage, parentale, religioso, lavorativo, etc., ma l’intera ecumene umana. Faccio osservare che ‘parrocchia’ ed ‘ecumene’ dipendono entrambe dal verbo οικέω, abitare (2). La genialità di Wesley sta nell’aver dilatato i termini localistici per assumere gli impensati tratti estensivi dell’umanità tutta intera che l’uomo, in quanto spirito, può raggiungere nonostante i limiti della sua connaturata dimensione spazio-temporale.

Non intendo minimamente imprimere tono predicatorio a quanto vengo a dire, ma è necessario aggiungere che il pensiero di Giovanni Wesley si muoveva sulle ali di una pneumatologia nascente che gli offriva una eccezionale visione del mondo (weltanshauung) meritevole di recupero in tempi di villaggio globale, di globalizzazione e di tensioni ecumeniche mai così evidenti come in questi ultimissimi decenni anche se con qualche appannamento dell’ultima ora.

Parrocchia, come termine squisitamente ecclesiastico e canonico trattiene il pensiero verso quanti sono tra loro vicini; nella sua wesleyana estensione al mondo propone, oggi più di ieri, una recuperabile dimensione antropologica che consente di intravedere un modo nuovo di essere uomini.

Se varchiamo la soglia di una antropologia filosofica possiamo essere aiutati dal pensiero di Max Scheler (m. 1927) che la manualistica filosofica menziona in modo gregario rispetto ai vari Husserl, Heidegger, … ma il cui pensiero ha una sua sicura rilevanza (3). Di lui abbiamo un saggio, La posizione dell’uomo nel cosmo (1927), nel quale traccia un identikit dell’uomo nella sua dimensione spirituale. Mentre «l’animale fa esperienza della realtà solo in funzione dei suoi impulsi e il mondo (welt) per lui esiste solo come ambiente (Umwelt) una sfera rigorosamente predeterminata dalla sua struttura biologica, … l’uomo invece è capace di liberarsi da questi limiti vitali, e di cogliere la realtà nella sua oggettività; per questo l’uomo soltanto ha propriamente un “mondo” e non semplicemente un ‘ambiente’. L’animale è relegato all’ambiente, mentre l’uomo soltanto è l’essere illimitato “aperto al mondo”» (4). Questo pensiero è molto moderno e suggestivo; attualizza ed allarga, a mio parere, ad infinitum il motto wesleyano, per cui il rapporto io-mondo non si limita ai soli ‘vicini’ (parrocchia), ma si estende anche ai lontani (ecumene), quindi a tutti, inverando nella nostra esperienza personale e storica – e non solo come promettente istanza escatologica – la parola per la quale «voi che eravate lontani (gli uni dagli altri) siete stati avvicinati» (Ef 2:13).

*

Essere aperti al mondo esige la costruzione di una identità capace di entrare in rapporto con le diverse eredità spirituali e culturali che a noi vengono da ogni parte del pianeta ed alle quali in un contesto di globalizzazione, rivista alla luce delle categorie evangeliche, siamo chiamati a rivolgerci. Imparare ad uscir fuori dai particolarismi delle nostre effervescenze culturali che pretendiamo vengano riconosciute universali: è questa la prima lezione.

V’è poi una strada da imboccare ed è quella che possiamo chiamare della planetarizzazione: non per allontanarci da Gerusalemme (Lc 24), da un luogo di consuetudinaria comunione e di delusione se si vuole, ma per lasciarci incontrare da Gesù, il vero uomo planetario nel quale si configurano le ragioni di una autentica universalità. E' vero che i due tornarono indietro, a Gerusalemme, ma vi ritornarono con la delusione trasformata in conversione, quindi per riprendere il cammino e non per fuggire, bensì per intraprendere un viaggio che li avrebbe portati con sistematica progressione, dalla Giudea, nella Samarìa, fino alle estremità della terra (At 1:8) per capire che «Dio offre l’occasione perchè tutti gli uomini possano partecipare alla vita» (At 11:18c).

Aderire al Cristo non per rinchiuderLo nelle nostre inospitali sale, ma per essere da Lui, uomo planetario, testimoni planetari noi stessi. Testimoni non dei nostri particolarismi tendenti alla sopraffazione religiosa e culturale, ma considerati semmai come «spinte di speranza» a cominciare dall’interno delle nostre stesse aree cristiane. In un cristianesimo in crisi «il messaggio evangelico può diventare addirittura motivo di ispirazione rivoluzionaria» (E. Balducci).

*

Un discorso sull’etica deve prevedere una emancipazione che segnali un grado di maturità che renda capaci di guardare al mondo con chiave critica ispirata all’agàpe; è questa che ci annoda alla sollecitazione che Dio ha per il mondo tutto intero facendo insorgere in noi stessi un pari senso di responsabilità verso il creato e verso le creature.

Agàpe è apertura al mondo, conoscenza e comprensione dei principali problemi dell’umanità come vanno evidenziandosi nei diversi contesti socio-culturali di ogni popolo. La mattina verso le 08.40 si ascolta una breve trasmissione che aiuta in questa direzione: Pianeta

dimenticato.

Agàpe è invito al pluralismo come locus ideale per la nostra formazione personale, per coinvolgere altri “attraverso il pluralismo” : perché nella valorizzazione del pluralismo delle esperienze e delle elaborazioni culturali presenti nello scenario contemporaneo del mondo, il soggetto può pervenire alla scoperta, conoscenza e comprensione dell’altro, colto nella sua identità differenza e, al contempo, ad una progressiva consapevolezza, coscientizzazione dei principali problemi del mondo. E' una prima premessa se si vuole puntare al kantiano «miglior possibile stato futuro» e puntare con serietà al paolinico «bene comune».

Agàpe è liberarsi da pregiudizi e da vecchi ma perduranti stereotipi culturali nei riguardi degli altri cercando di capire non solo là dove ci sono, ma anche là dove dovrebbero esserci, i processi di sviluppo presenti in ogni popolo.

Agàpe è oggi apertura alla mondialità nel superamento di ogni barriera razziale, culturale e religiosa. Sì, anche religiosa. Federico II di Prussia ebbe a dire: “Qui ciascuno deve andare in paradiso a modo suo”. Enzo Bianchi si pone la domanda «se sia ipotizzabile un’”etica comunitaria” condivisibile da uomini e donne nel pluralismo di fedi e di culture. Da alcuni anni in tutta Europa … si è avviato questo dibattito sulla possibilità di un’etica comune con i non cristiani e ci si è chiesti se sia possibile un’etica laica o, meglio, diverse etiche laiche. Però – aggiunge -, non appena ci si addentra a discuterne i contenuti, riaffiorano subito rigidi schieramenti “confessionali” che la dicono lunga sulla diffusa impreparazione a condurre un dialogo franco ed autentico» (5).

Ho proposto qualche accenno illustrativo dell’agàpe e menziono una bella pagina di Paul Ricoeur (6) su questo teologumeno. In dialogo con Hanna Arendt e Kiergegaard affida al lettore un senso dell’agàpe (nel senso biblico e postbiblico), intesa come “modello di stato di pace”: l’agàpe ha uno sguardo “per l’uomo che vediamo”, il carattere ‘incommensurabile’ degli esseri rende la reciprocità infinita…”. Ancora Bianchi ci rende attenti a che ‘reciprocità’ non debba forse cedere il passo alla ‘gratuità’ che rappresenta un’altra grande «differenza cristiana»! (7)

*

Uno dei tratti significativi del discorso ecumenico è quello che spinge ad un impegno universal-planetario all’interno del quale già ci trascina lo sviluppo della scienza dinanzi al quale indietreggiano varie ‘fatalità’ ed aumentano le ‘responsabilità’, soprattutto se sapremo attualizzare il sapere e condividerlo. Parlare di scienza vuol dire parlare di ricerca e la ricerca scientifica qualunque sia il campo ove si esplicita non è limitata intenzionalmente al piccolo laboratorio né è mirata alla gloria di un istituto o al profitto di un’unica società, ma si muove nella prospettiva di una responsabilità e fruizione mondiali. Non vi è popolo che non creda ai benefici ed alla progressione indefinita della scienza, anche se sono molti (popoli) che risultano ancora esclusi dai conseguenti frutti a livello tecnologico e sanitario, tanto per fare solo due esempi. Tutto si muove nella speranza di trovare soluzioni per sollevare l’uomo tout court, l’umanità dalla sua fragilità.

Non si deve aver paura del progresso scientifico che arricchisce esponenzialmente il nostro sapere anche se non risolve tutti i nostri problemi, a parte che ve ne sono di quelli non concettualizzabili.

«La conoscenza scientifica non produce significato. Eppure la razza umana (l’umanità, ndr) … ha sempre voluto sapere non solo quali vantaggi pratici la loro conoscenza avrebbe dato loro, ma anche che cosa è vero; hanno creato il concetto di verità accanto a quello di vantaggio tecnico. Hanno prodotto l’idea dell’amore accanto a quella dell’attrazione sessuale; l’idea di un ordine inerente al cosmo accanto alle leggi empiriche; (…) Sono tutte qualità-valori che non emergono dall’applicazione di procedimenti scientifici … costituiscono atteggiamento e percezione specificamente umana del mondo» (Etica di Leszek Kolakowski in Enciclopedia Einaudi, Vol. 5, p. 939).

*

Parallelamente allo sviluppo scientifico e del sapere in genere corre quello tecnologico. Dappertutto si diffondono apparecchiature e

strumentazioni che aiutano l’uomo nel lavoro, nella quotidianità, nella comunicazione. Là dove la tecnica non è presente è solo perché non lo è ancora, ma ad essa si guarda. Qui va detto che è vero che la tecnica/tecnologia libera l’uomo da molte schiavitù, ma questo sarà eticamente vero quando riuscirà a superare i molto confini etnici e culturali, quando potrà muoversi all’interno di una universalità di fatto, quando tutti ne potranno godere. Ma forse questo non accade perché con ogni probabilità deve prima nascere o maturare una disposizione etica che sia aperta ad una sensibilità ampiamente ecumenica, diciamo pure planetaria.

*

A determinare una coscienza etica a 360° necessita una in-formazione affidabile e non ad effetto placebo. Che non soddisfi curiosità ma faccia erompere una coscienza inquieta e tuttavia capace di far propria e farsi altresì carico della sofferenza e del bisogno altrui. Il nostro modo di ricevere le in-formazioni, di selezionarle, di elaborarle, di trasmetterle, dipende dalle nostre diverse sensibilità, dai nostri diversi bisogni, dagli interessi che curiamo alle nostre ben varie diverse latitudini e nella nostra diversa concezione antropologica, di ciò che è l’uomo (8).

La tappa che occorrerà percorrere per un ethos allargato al mondo ed al creato è quella che consente di poter rispondere ad una domanda che, guarda caso, ci viene dalla cultura e dalla poesia ebraica e biblica: «Chi è mai l’uomo perché ti ricordi di lui? Chi è mai, che tu ne abbia cura?» (Salmo 8:5). Queste parole risuonarono dal suolo lunare, selenico quando qualcuno vi mise i piedi scendendo dal famoso Lem. Un quesito cosmico, interplanetario! Un quesito, quello de homine – quesito che anche Kant si poneva - che si riaffaccia per spingerci ad una riflessione etica per farci chiedere, forse, cosa possiamo o dobbiamo fare di noi stessi, segnatamente quando scopriamo di essere «stranieri a noi stessi» (9). Non penso all’uomo nella sua struttura anotomo-fisologica ma come essere visto nella sua onticità colto nel suo contesto geografico, sociale, politico. Rispondere ad un tale quesito è tema a sé stante e non sarà impresa facile; ma in ogni caso una possibile ottica etica ci potrà far uscire dal nostro egoismo, cioè dai nostri provincialismi, integralismi, fondamentalismi (molto spesso mascherati o vestiti a festa), quindi uscire dalla illusione di abbracciare nel proprio io tutto il mondo per considerarci con gli altri e alla pari degli altri cittadini del mondo con tutt’una serie di doveri che vanno ben al di là di quelli che una etica civile propone per una loro dilatazione quantitativa e qualitativa e non per il loro superamento.

*

Quali doveri? Non sarebbe fuori luogo ripensare quanto ci hanno lasciato le note assemblee ecumeniche di Basilea (1989), ma soprattutto, per il nostro argomentare, quella successiva di Seul. Molto fu detto, molto fu discusso e documentato, ma poco si è trasformato in azione politica, in decisioni operative. Credo che si debba parlare di doveri là ove sorgono e persistono bisogni. Ricordo una buona lettura del 1986: Michael Ignatieff, I bisogni degli altri : Saggio sull’arte di essere uomini tra individualismo e solidarietà, Il Mulino, Bologna. Certo è impossibile imprigionare “tutti” i bisogni, ma non si può non pensare al bisogno di energia, per es., per uno sviluppo civile di circa 4/5 della popolazione mondiale; non si può non pensare al grande e grave problema delle migrazioni, fenomeno assolutamente non nuovo e che non può essere esorcizzato ma pensato in un’ottica di cambiamenti pacifici che aprono a nuove forme di convivenza civile sulla Terra; si pensi al commercio clandestino delle armi ed alle speculazioni ad esse collegate a spese delle varie tragedie umane tra le quali è ben presente il mercato degli schiavi nelle forme più brutali e in quelle più raffinate, si fa per dire, del nostro occidente: si pensi alla necessità di una nuova economia mondiale per una migliore vivenza e convivenza.

Sul fondale di questa crisi generalizzata si scorgono due esigenze primarie, fondamentali e ben datate. Ne accenno solo due.

a

Si ha bisogno di una nuova concezione della giustizia fondata non tanto su varie forme di tolleranza – dimensione di per sé altamente preclara se non è vista soltanto come dimensione libertaria – quanto sul riconoscimento dei ‘diritti dell’uomo’. «Dov’è l’etica? La realtà è che non c’è etica, non vi sono diritti. Ci sono solo interessi, c’è violenza fin dal 1492» (10). Quelli che chiamiamo bisogni, in realtà sono diritti offesi. “Diritti, non elemosine!” invoca Salvatore Natoli.

Tutti abbiamo sentito parlare della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (10.12.1948), un po’ figlia dello Statuto delle Nazioni Unite (25.05.1945). Già quest’ultimo documento affermava: «la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti degli uomini, delle donne e delle nazioni grandi e piccole». Su tale base si arriva alla più nota Dichiarazione universale redatta per lo più dal professore René Cassin, del quale mi piace ricordare la ebraicità e la sua ferma fiducia «nella virtù del diritto». Il Cassin elaborò il bellissimo documento insieme ad Eleanor Roosevelt e nella giornata della proclamazione lo definì “Decalogo laico” accettabile da parte di tutti i popoli al cui centro v’era e c’è la persona umana.

Purtroppo i trenta articoli – ove 59 volte ricorre il termine ‘diritto’ - attendono ancora di passare dallo stato di intenzione a vere e chiare forme di ‘diritto internazionale’ o ‘mondiale’, una sorta di rivisto, ripensato e corretto jus gentium come «affermazione esplicita dell’eguaglianza nella libertà come carattere ‘naturale’ del genere umano», come anche degli animali (Ulpiano) (11).

b

La seconda esigenza primaria, idealmente fondativa anche della prima, è quella che va sotto il nome di fraternità.

Chi non ricorda la grande triade figlia della rivoluzione atlantica, segnatamente quella francese: libertà-uguaglianza-fraternità? Compare nel 1789 ma solo nel 1848 viene scritta nella Costituzione francese. Non sempre viene ricordata nella sua completezza. Un poster che giganteggia nel mio studio riporta solo le prime due voci, libertà e uguaglianza; rimane sospesa la terza che, a parer di molti studiosi ed osservatori risulta molto trascurata: parlo della fraternità che è la parte incompiuta di tutte le rivoluzioni. Si distingue da ‘fratellanza’ che è limitata ai figli di uno stesso padre, ai membri di un’unica comunità o di un’unica associazione di beneficenza. Fraternità si estende a tutti gli uomini, un sentimento che non è mai regalato, scontato, che devi coltivare. Si parla di un concetto-sentimento che richiede una coerente fondazione ontologica: riconoscere una comune paternità. Per noi credenti sappiamo che è Dio. «Nel dibattito condotto dalla politologia contemporanea si sta facendo strada l’interesse per il tema della fraternità. (…) Una teoria della giustizia – afferma il Prof. Francesco Viola ordinario di filosofia del diritto all’Università di Palermo – richiama la fraternità a proposito del suo ‘secondo principio di giustizia’ per cui le ineguaglianze sociali ed economiche sono giustificate solo se implicano dei vantaggi per tutti e sono collegate a cariche e posizioni aperte a tutti» (12).

*

A conclusione di questa conversazione propongo il pensiero del sociologo Edgar Morin che si riassume nei suoi nove comandamenti.

I nove comandamenti.

 

I tempi odierni ci chiedono la loro congiunzione in una antropo-politica che integri in sé gli imperativi dell’etica planetaria.(13).

L’etica planetaria può affermarsi solo a partire da prese di coscienza capitali:

1. La presa di coscienza dell’identità umana comune attraverso le diversità di individualità, di cultura, di lingua.

2. La presa di coscienza della comunità di destino che ormai lega ogni destino umano a quello del pianeta, anche nella sua vita quotidiana.

3. La presa di coscienza che le relazioni tra umani sono devastate dall’incomprensione, e che noi dobbiamo educarci alla comprensione non solo di coloro che ci sono vicini, ma anche degli estranei e di coloro che sono lontani dal nostro pianeta.

4. La presa di coscienza della finitezza umana nel cosmo che ci porta a concepire che, per la prima volta nella sua storia, l’umanità deve definire i limiti della sua espansione materiale e correlativamente intraprendere il suo sviluppo psichico, morale e spirituale.

5. La presa di coscienza ecologica della nostra condizione terrestre che comprende la nostra relazione vitale con la biosfera. La Terra

non è la somma di un pianeta fisico, di una biosfera e di una umanità. La Terra è una totalità complessa fisica-biologica-antropologica nella quale la Vita è una emergenza della storia della Terra e l’uomo una emergenza della storia della vita. L’umanità E' un’entità planetaria e biosferica. (… …).

6. La presa di coscienza della necessità vitale del duplice pilotaggio del pianeta: la combinazione del pilotaggio cosciente e riflessivo dell’umanità con il pilotaggio eco-organizzatore inconscio della natura.

7. La presa di coscienza civica planetaria, cioè della responsabilità e della solidarietà nei confronti dei figli della Terra.

8. Il prolungamento nel futuro dell’etica della responsabilità e della solidarietà con i nostri discendenti (H. Jonas) (14)., da cui la necessità di una coscienza con il teleobiettivo, cioè che veda in alto e lontano nello spazio e nel tempo. (Balducci parla di ‘panottico’)

9. La presa di coscienza della Terra-Patria come comunità di destino/di origine/di perdizione. L’idea di Terra-Patria non nega le solidarietà nazionali o etniche e non tende per nulla a sradicare ciascuno fuori dalla sua cultura. Essa aggiunge ai nostri radicamenti un radicamento più profondo nella comunità terrestre.

 

Il Morin chiude il suo capitolo sull’etica planetaria con un pensiero che egli stesso mutua dal Lessing: «Se l’etica universalistica laica ha perso la fede quasi provvidenziale in un Progresso concepito come legge della storia umana, essa può, deve, far sua l’idea di Lessing che l’umanità è migliorabile, senza tuttavia credere che necessariamente migliorerà».

 

 

 

Note:

 

  1. Nato a Itabira, nello stato del Minas Gerais, nel 1902 da una famiglia di ‘fazendeiros’, De Andrade studiò da farmacista ma divenne impiegato ministeriale a Rio de Janeiro, fino alla morte (1987). A 23 anni, ancora all’epoca dell’università, aveva fondato a Belo Horizonte ‘A Revista’, organo del movimento modernista, con l’intenzione di reinventare i modelli del sistema letterario nazionale, abbandonando finalmente il secolare complesso d’inferiorità nei confronti dell’Europa. (Cfr Cem/Mondialità, n. 7 febbraio 93, p 6).

  2. Παροικία
  3. , vicinato; παροικέω, abitare vicino; οικουμένη [γη], terra abitata.
  4. G. Ferretti, Max Scheler, Milano 1972, due voll.
  5. ATI, Verso una nuova età dello Spirito, Padova, 1997, pp. 50-51. In un’etologia comparata Nicola Abbagnano vede l’uomo destinato a tenersi, e a coltivare, gli impulsi aggressivi … ma ha anche una saggezza di cui nel mondo animale non c’è traccia. (Fra il tutto e il nulla, Milano 1973, p. 52).
  6. Enzo Bianchi, La differenza cristiana (… La laicità come spazio etico …), Einaudi, Aprile 2006, p. 40.
  7. Paul Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, Milano 2005, p. 247-253.
  8. Enzo Bianchi, Op. cit.,
  9. Cfr. MicroMega 1/2006, p 165.
  10. Enzo Bianchi, Op. cit., p. 43.
  11. E. Balducci, Le tribù …”, p. 138.
  12. Aldo Schiavone, Jus, Torino 2006.
  13. A. M. Baggio, La fraternità nel bene. In Cittànuova, n. 20 del 2003, pp.50-52.
  14. Edgar Morin, Il Metodo – Vol. 6, Etica, Milano 2004, pp.161-167.
  15. Hans Jonas, Il principio responsabilità, Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino 1990, p. 49.

 

Quando venne la notte (Gv.20,19)

di Elizabeth Hernandez Carrillo

Quando venne la notte…

Abbiamo serrato le porte del nostro cuore,

per non amare;

abbiamo serrato le porte della vita,

negandola e negandoci di vivere nella libertà.

Abbia serrato le porte dell’amore e della misericordia

Ignorando chi soffre.

 

Quando venne la notte…

La paura si impadronì della nostra vita,

lasciandoci paralizzati nel pensiero,

nel corpo e nella fede.

 

Però tuttavia,

quando venne la notte…

abbiamo sentito la tua pace,

che si apriva il passo in mezzo a noi.

 

Quando venne la notte,

abbiamo sentito la tua voce

che ci invitava a toccare, sentire,

rallegrarci, condividere

la vita che ci hai offerto in abbondanza.

 

Quando venne la notte

Abbiamo sentito il soffio del tuo Spirito

Che entrava per prender dimora in ciascuno e in ciascuna.

 

Quando venne la notte

È arrivato il tuo Spirito

Rendendoci poliglotti, polifonici, armonici!

(da: Red de Liturgia del CLAI)

Il ruolo dell’ IMAM

di Silvia Al Hallak

Vice Presidente della Comunità Islamica di Firenze

 

La preghiera è il terzo pilastro dell’Islam, dopo la testimonianza che Dio (in lingua araba “Allah”) è unico e non vi è divinità al di fuori di Lui, e che Muhammad (Pace e Misericordia di Dio su di lui) è il Suo Messaggero.

La preghiera è un obbligo per ogni musulmano, uomo o donna, che sia cosciente delle sue azioni. Sono cinque le devozioni quotidiane che vengono fatte in tempi ben precisi della giornata: all’alba, a mezzogiorno, a metà pomeriggio, al tramonto e alla sera. Esse possono essere compiute individualmente o in gruppo, da un minimo di due persone ad un numero illimitato. La preghiera individuale si può eseguire in casa oppure in qualsiasi luogo il credente si trova: nel luogo di lavoro, a scuola, in viaggio, ecc.

Quando dal minareto si diffonde la voce del mu’azzin (colui che richiama alla preghiera), il fedele si prepara alla preghiera eseguendo l’abluzione, un rito che prevede la pulizia fisica del corpo mediante il lavaggio di alcune parti dello stesso. Terminato questo rito, il fedele è pronto per la preparazione spirituale: si posiziona in direzione della Kaaba e pronuncia a bassa voce le seguenti parole:

 

“Dirigo il mio sguardo verso Colui che creò i Cieli e la Terra,

puro e musulmano,

ed io non sono certo uno di coloro che associano a Dio altra divinità.

La mia orazione, il mio rito, la mia vita e la mia morte appartengono a Dio,

Signore dei Mondi, Colui che non condivide la Sua divinità con nessun altro.”

Successivamente, procede ad eseguire la sua devozione per Dio.

La preghiera è un momento di Pace interiore, è un nutrimento per lo spirito, un momento di riflessione sul dovere verso noi stessi e verso gli altri e, soprattutto, verso Dio.

La preghiera permette di staccarsi dagli impegni quotidiani, per 5/10 minuti. E’ un momento di relax, di Pace interiore, oltre che il fatto che, tramite l’abluzione, si permette al corpo di rinfrescarsi.

La preghiera collettiva ha un valore più elevato perché unisce diverse anime nell’Amore di Dio. La si può fare a casa con i familiari stessi, con i parenti o gli amici, ma anche nei posti di lavoro, quando questo è possibile.

Andare in Moschea per eseguire la preghiera collettiva ha un valore molto importante per la Società: la Moschea è un luogo di Pace, dove ci si reca per pregare Dio e per scambiare auguri di Pace e di fratellanza con gli altri fedeli.

In ogni modo, per eseguire la preghiera collettiva, a casa o in Moschea, è necessaria la presenza dell’Imam.

La parola Imam in arabo significa “persona che sta avanti, o in testa, ad un gruppo di persone per mettere ordine e guidare la preghiera collettiva”.

L’Imam va scelto dal gruppo o dalla Comunità per la sua conoscenza, superiore agli altri, nel leggere e recitare il Sacro Corano, oltre a conoscere tutte le regole del rito della preghiera stessa. Quando si trova più di una persona con le stesse caratteristiche, generalmente si preferisce scegliere il più anziano.

L’Imam deve essere una persona conosciuta fra la gente per la sua lealtà, onestà, saggezza e correttezza: di solito una persona legata ad insegnamenti religiosi.

Nei Paesi musulmani esistono Facoltà finalizzate alla preparazione degli Imam. Di solito, in ciascuna Moschea deve esserci un Imam “fisso”, sempre presente e disponibile per qualsiasi consultazione, oltre ad altri Imam che potrebbero sostituire quello fisso nei momenti del bisogno.

L’Imam può sposarsi e avere una vita sociale come tutti: può avere un lavoro e può praticare gli studi, in maniera tale da poter essere presente quando necessario. L’Imam non viene pagato, ma viene ricompensato da Dio.

Il giorno del Venerdì è il giorno di Festa per i musulmani. La preghiera congregazionale di mezzogiorno è obbligatoria per tutti i fedeli, che si recano alla Moschea preparati con l’anima e con il corpo (in stato di purezza). Tutti i fedeli si posizionano fianco a fianco: non c’è differenza tra il ricco e il povero, né tra il bianco e il nero, né tra le varie nazionalità. Tutti sono allo stesso livello, pregano Dio con le stesse parole, eseguono le stesse azioni, ma il migliore, presso Dio, è colui che ha più fede (Al Hujurat - v.13).

La preghiera viene eseguita con il timore di Dio, cioè nel senso che il credente ama talmente tanto il suo Signore che ha paura di aver commesso qualche errore, causando dispiacere a Dio. Per cui la preghiera viene fatta per lodare Dio, ringraziarLo per tutto ciò che ci ha donato e per chiedere il Perdono del Misericordioso per i peccati che il fedele può aver commesso. Il credente sa che Dio è il Pietoso, il Misericordioso. Si prega anche per chiedere dei favori a Dio, Egli è l’Onnipotente. Si richiedono salute, benessere, prosperità, felicità, progressi…ecc. Dio è vicino, e risponde all’appello di colui che chiede il Suo aiuto.

L’Imam ha un ruolo importantissimo. Il giorno di venerdì, il suo ruolo è quello di fare la predica. Dopo che il mu’azzin fa l’azaan (richiamo alla preghiera) i fedeli si preparano a sentire la predica seduti sul tappeto, con silenzio e rispetto. L’Imam sale sul Minbar, cioè il pulpito, in modo che possa essere visto e seguito da tutti i fedeli presenti, anche quelli più lontani. Il discorso viene prima fatto in lingua araba, e poi tradotto in lingua italiana. Esso può riguardare un argomento sociale, politico, economico, religioso e di attualità, generalmente è un argomento che riguarda i problemi della Comunità. L’Imam lo analizza nel suo sermone e trova la soluzione facendo riferimento alle regole della Sciari’aa (Legge Islamica), cioè gli insegnamenti presenti nel Sacro Corano e quelli forniti dalla Sunna (Pratica di Vita del Profeta Muhammad, pbsl), invitando il fedele a riflettere su tali precetti e ad applicare i valori in modo da avere una coscienza pulita, diffondere amore e fratellanza e seguire la Retta

Via per raggiungere la Misericordia di Dio.

Dopo la predica in arabo, e la sua traduzione in italiano, il mu’azzin invita i fedeli a prepararsi alla preghiera, quindi l’Imam si posiziona in testa al gruppo, in un luogo chiamato Mihraab in direzione della Kaaba, il luogo sacro dei Musulmani, e invita i fedeli a ravvicinarsi tra loro, in modo che ci sia un contatto fisico (che simboleggia l’unione spirituale nel pregare il Signore). In seguito comincia a recitare alcune Sure del Corano ed i fedeli ad ascoltare e seguire i movimenti rituali.

L’Imam, come già detto, costituisce una fonte di riferimento religioso per tutta la Società, e di questo si rende responsabile davanti a Dio.

Egli, infatti, è in grado di stipulare atti religiosi del matrimonio e del divorzio. Esegue la preghiera per il defunto, oltre ad essere una fonte importante di consolazione per i familiari.

L’Imam, inoltre, può risolvere dispute familiari attenendosi a consigli religiosi di comportamento per i vari componenti della famiglia. In questo modo, risolve i problemi sociali, dovuti a rancore, litigi, malintesi, vendetta, ecc. Seguendo la Sciari’aa islamica, può dar consigli anche per quel che riguarda gli atti commerciali, giuridici e politici. In particolare, è in grado, ad esempio, di risolvere i casi di eredità, assegnando a ciascun erede la sua parte, prima di recarsi in Tribunale.

Infine, tra i ruoli più importanti, essendo egli un esempio per la Società, insieme ad altri membri del Consiglio della Moschea, compie del volontariato promuovendo attività in favore dei poveri, dei bisognosi, dei malati e dei deboli. Sempre insieme al Consiglio, istituisce corsi presso la Moschea finalizzati allo studio, alla comprensione e alla recitazione del Sacro Corano, oltre alle nozioni relative agli insegnamenti del Profeta Muhammad, e che costituiscono il Codice di Vita per ogni musulmano.

 

...in occasione del Gay Pride

Il distretto Nord-Ovest dell'Alleanza Evangelica Italiana
in occasione del Gay Pride che si è svolto a Torino il 17/6/2006 e considerate le notizie circa una partecipazione evangelica all'evento da parte di alcuni protestanti "storici" ricorda che l'AEI, contrariamente ai protestanti "storici" che approvano la parata pubblica, non riesce a vedere proprio nessun orgoglio nella pratica dell'omosessualità. L'omosessuale praticante è sempre il benvenuto nella comunità evangelica, quando si propone l'abbandono di quella pratica che la Parola di Dio condanna. Gesù sottolineò la sua compassione e comprensione per il peccato (adulterio) sino al condono della grave condanna, ma aggiunse "va, e non peccare più" (Giovanni 8,3-11). La condotta di Gesù è un esempio per noi evangelici, al quale siamo orgogliosi di ubbidire.
L'AEI non è contro la parata, è contro l'ostentato orgoglio riferito ad una situazione di peccato, dipinto come tale dalla stessa Parola di Dio. Nel modo in cui si affronta il tema dell'omosessualità si misurano le convinzioni di ciascuno sull'autorità della Scrittura, il senso del peccato, la trasformazione della grazia. Su questi temi, la differenza nei confronti dei protestanti "storici" è notevole. L'AEI ha da tempo promosso una riflessione sul tema dell'omosessualità, pubblicando un ampio documento ("Omosessualità: un approccio cristiano", Studi di teologia - Suppl. N. 2 [2004]) e, più recentemente, è intervenuta sul dibattito riguardante il riconoscimento delle unioni civili .

(cfr. www.alleanzaevangelica.org

<http://www.alleanzaevangelica.org/>).

… un tentativo di comprendere

Non credo che i “protestanti storici” approvino il Gay Pride o le parate in generale. Come al solito su tutti questi problemi ...

siamo ben divisi! Penso però che dovremmo fare il tentativo di comprendere i termini della questione. Per molti di noi l’identità “gay” non è “una situazione di peccato che la Bibbia condanna”. E’ vero che la Bibbia la condanna, ma non più né di meno di come condanna chi non crede che il sole giri intorno alla terra (come diceva la chiesa fino ai tempi di Galileo) oppure più tardi chi crede nella uguaglianza fra schiavi e padroni e fra uomini e donne. E’ innegabile che la conoscenza umana è più ampia di quella di un tempo, che si accetti o meno la teoria della evoluzione. Ci sono ancora molte cose che non riusciamo a spiegare, ma ne spieghiamo alcune di quelle che due-tremila anni orsono apparivano inspiegabili. L’identità umana di genere non è così netta come vorremmo e in molti casi appare confusa, ce ne viene attribuita una che non è vera e non corrisponde alla consistenza più profonda dell’io. Dovrà far parte dei più inviolabili diritti umani poter definire per scelta la propria identità, quando ci fossero dei dubbi. A questo punto nessuno dovrà dire a un altro che “vive nel peccato” solo perché ha abitudini diverse dalle sue, mentre non fa male a nessuno! Non molesta i bambini, non è violento, non discrimina etc.

“L’amore non fa nessun male al prossimo” (Rom.13,10) è il riassunto più lapidario della legge di Cristo secondo Paolo. Penso che vivere secondo questo unico grande comandamento dello amore significhi una libertà nella responsabilità che però non ha confini; non deve essere per forza irregimentata nel matrimonio contrattuale, non deve essere continuamente misurata dalla religione, né continuamente ricondotta alle consuetudini tradizionali delle culture esistenti, ma deve esser aperta all’invenzione di nuove forme di vita, dove sia possibile dare e ricevere amore, creare o partecipare alla vita, creare attorno a sé forme di cura reciproca che siano la sostanza del compito che Dio ci affida sulla terra. Non è stato Gesù uno di questi “ribelli” che poteva trascurare la sua famiglia terrena, per una nuova famiglia fatta “da chiunque avrà fatto la volontà di Dio” (Mc.3,35)?

Gianna Sciclone

La faccia occulta della palla

di Ruben Yennerich

(del 14 giugno 1998 ai Mondiali di Francia)

 

Che bello vederla rotolare sul distesa verde, accarezzata da gambe abili e forti, quando la fanno volare ai quattro venti e si perde fuori del campo; o quando la prendono di testa dall’angolo e la vediamo cadere come al rallentatore e girare infilando la rete!

Che bello quando nei primi piani la mostrano brillante e colorata; assomiglia ai giocattoli più pregiati del mondo, per i grandi come per i piccoli. Tutti la cercano, tutti la toccano, tutti la guardano, più di 20 telecamere la seguono.

Nel campo di gioco la inseguono, le danno la caccia con premura o la parano di petto. Nella mente degli strateghi si converte in strumento di ossessione e rivelazione. Quando cade nella tribuna litigano per toccarla anche un istante e restituirla al gioco.

“Magari potessi portarmela a casa! “ Ci pensa l’arbitro a mettersela sotto il braccio quando dichiara finita la partita. I giornalisti scrivono rivoli d’inchiostro e milioni di caratteri e si sforzano di esser creativi nelle analisi delle sue traversie. Quando entra nella rete produce un delirio in alcuni e una rabbia frustrata in altri.

Da dove vieni? Feticcio incomparabile di un mondo distratto, che ha bisogno di fughe. Chi ti creò? Chi ti fa e chi ti vende? Palla, pallone, sfera, footbol, rotonda, globo, calcio o comunque ti chiamano.

Qualche volta, se potessi sapere la tua origine, mi renderei conto del mistero del tuo volto occulto che nessuno può vedere. O che nessuno chiede di vedere. Quanto sei vecchia?…

Immagino, che se tu potessi parlare, se Dio ti desse la parola e la vita (con il debito rispetto per chi è la Parola e la Vita, s’intende!), da una qualunque vetrina o da un qualunque centro shopping nel mondo, legata ad un filo di nylon, annoiata, circondata di camicie e di scarpe, dipinta e coperta delicatamente con una pellicola di plastica, perché non si bagni; come un bambino ricco, con alcune marche multinazionali in fronte: Adidas, Nike, Reebock, Topper, Fila, Panter, Rainha, Penalty, Mitre, Puma, Cubilla e chi sa quante altre porcherie! Allora ci direbbe…

“Qui mi tenete, guarda che mi hanno fatto. A me, che amo il sorriso e la passione dei ragazzi e dei bambini di quartiere; che sono nata nel cortile e mi piace stare anche nel fango e nella polvere a insudiciare gli scolaretti; che sono stata vescica, cuoio duro o gomma salterina. Sono qua, questo hanno fatto di me…

Un oggetto in più del mercato, delle multinazionali o come diavolo si chiamano e a volte mi insultano. Mi hanno truccato, messo un marchio, come un animale, mi mettono in vetrina a un prezzo tanto alto che solo pochi ricchi e tronfi mi possono comprare, per lasciarmi abbandonata insieme al bastone del baseball e i resti di patatine fritte del McDonald, Mentre i ragazzi mi guardano in vetrina, insudiciando il vetro di lacrime e moccio. La cosa più triste è che mettono la gente in affanno. Costo 70, fino a 100 dollari: perché valer tanto se non servo a nulla?

E anche il vecchio più triste si domanda da dove vengo e si siede intronato a guardare la partita con la TV satellitare nel mondiale; guarda come i grandi stilisti si riempiono i borsellini vendendo gente e vendendo diritti che sono di tutti. La cosa più triste è che quelli che si approprieranno di me mi manderanno ad esser fabbricata in casette miserabili del terzo mondo, perché così costo di meno. Sono nata in Africa o nel Sud Est asiatico o in America Latina. Sono nata da mani sfruttate di bambini, che si consumano cucendomi pezzo per pezzo; sono nata da mani di madri povere, che nei loro laboratori cuciono in modo magico, ma penoso, la roba e i giocattoli del mondo “globalizzato”, come lo chiamano. Basta guardare in qualche angolino di me, troverai qualche etichetta che sarebbe un segno del progresso moderno e globalizzato. In alcuni si dice: Made in Vietnam, o Made in Thailandia o Made in Indonesia, o Made in Poor of the World…

Però ti dico che non ho voglia di tutta questa fama, al contrario vorrei piuttosto defilarmi e tornare indietro, o nel mezzo della Coppa del Mondo vorrei che si vedesse questa altra mia faccia, perché i milioni di telespettatori che mi idolatrano e si emozionano di me, vedano che da quest’altro lato… sto piangendo.

 

 

Da Riforma del 16 giugno 2006:

 

… Costruire un pallone di marca, per mani esperte pachistane, significa cucire 32 pezzi separati di cuoio (o altro materiale anche sintetito) per ogni esemplare, con 750 passaggi di ago in poco più di tre ore. I più bravi fanno quattro palloni la giorno a 40 rupie l’uno, 60 centesimi di dollaro. In Europa quel tipo di pallone può costare 99 euro. L’impegno delle Chiese Evangeliche, in particolare quelle della Westfalia (dove ha sede a Herne, la centrale di “Fair play-fair life” è di acquistare palloni direttamente dai produttori con garanzie di esenzione del lavoro minorile nell’osservanza di norme di sicurezza e garanzie sociali...

(art. di Giuseppe Platone)

 

Libri per le vacanze

Dalla Libreria Claudiana di Firenze

Abbiamo ricevuto ancora altri volumi dell'Editrice Claudiana in vendita al 75% di sconto. Come già annunciato è in corso la campagna sconto del 75% su una lunga serie di titoli della Claudiana. Consultando il sito dell'editrice www.claudiana.it è possibile visionare l'elenco totale dei titoli in offerta. Una volta chiusa la campagna i libri in offerta risulteranno introvabili in quanto andranno Fuori Catalogo. La campagna è valida fino al 31 agosto ma affrettatevi perché i titoli sono in via di rapido esaurimento.

La libreria di Firenze è aperta dal Lunedì al Sabato dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 19:20. Eccezionalmente sarà chiusa dal 21 giugno al 25 giugno poiché gestirà uno stand libri ad Assisi

Un caro saluto
Pasquale Iacobino

Libreria Claudiana
Borgo Ognissanti 14/R
50123 Firenze
Tel e fax 055.28.28.96

 

Novità Claudiana

LA CHIESA CRISTIANA E L'UNIVERSALITÀ DELLA SALVEZZA



Sergio ROSTAGNO, I predestinati
Religioni e religione nel protestantesimo
"Piccola Biblioteca Teologica" - pp. 188 - euro 17,50
In un contesto d'incontro tra varie culture e religioni, l'idea della
superiorità di una religione sull'altra, o quella che un gruppo
etnico-religioso costituisca la realizzazione della trascendenza, va
combattuta, per Rostagno, con decisione e consapevolezza: "Occorre tenere insieme l'idea di un Dio comune a tutti con l'idea che nessuno se ne possa appropriare; occorre che questa comunanza sia tolta all'ovvietà, alla pretesa naturale di una falsa universalità per diventare libera adesione, puro e disinteressato riconoscimento".
È in quest'ottica, in particolare dal punto di vista protestante, che
Rostagno affronta il tema del rapporto, discordante, tra l'universalità
della chiesa cristiana e la suddivisione degli esseri umani al suo interno.


LE TRE RELIGIONI MONOTEISTE SPIEGATE AI BAMBINI

In libreria un volume in coedizione Claudiana-Elledici

Katia MROWIEC, Michel KLUBER e Antoine SFEIR

Dio Iahvè Allah
I grandi interrogativi sulle tre religioni: ebraismo, cristianesimo, islam Claudiana-Elledici - pp. 190 - euro 16,50

Illustrato a colori, il volume intende rispondere alle molte domande sulle tre grandi religioni monoteiste che i bambini pongono a genitori, catechisti ed educatori. Dagli aspetti più concreti della vita quotidiana ai grandi avvenimenti dell'esistenza fino al messaggio più profondo della religione e al mistero della fede.

Notizie dalle chiese fiorentine

 

dalla Chiesa Valdese

Stiamo per andare in vacanza: la chiesa della Trinità resterà chiusa nel mese di luglio, almeno per il nostro orario (10.30): i superstiti rimasti in città per tutto il mese di luglio sono pregati di andare al culto in chiesa metodista (Via dei Benci 9) o in chiesa battista (Borgo Ognissanti 6) o presso la chiesa apostolica (Via Morosi 36) sempre alla stessa solita ora 10.30. La pastora tornerà verso la fine di luglio e in agosto si terranno a metà settimana quegli incontri che avevamo chiamato “per non perderci di vista”.

Nel prossimo numero daremo più notizie di noi e faremo il punto della situazione; intanto siamo stati lieti di accogliere a Pentecoste quali nuovi membri della nostra chiesa: Framcesco Liedl, Francesca Sapienza, Anna Maria Barducci, Edoardo Canino, Pier Luigi Marranini, Maria Grazia Megazzini, Maria Cibecchini, Maria Salvagnini. Auguriamo a tutti di trovare nella nostra comunità accoglienza, fantasia, crescita spirituale, oltre ai soliti motivi di impegno che non mancheranno mai!