Contagiosi della gioia

di Madeleine Delbrel

 

Poiché le tue parole, mio Dio, non son fatte
per rimanere inerti nei nostri libri,
ma per possederci
e per correre il mondo in noi,
permetti che, da quel fuoco di gioia
da te acceso, un tempo, su una montagna,
e da quella lezione di felicità,
qualche scintilla ci raggiunga e ci possegga,
ci investa e ci pervada.
Fa’ che, come “fiammelle nelle stoppie”,
corriamo per le vie della città,
e fiancheggiamo le onde della folla,
contagiosi di beatitudine,
contagiosi della gioia...

(da: La joie de croire, Paris 1968)

OGGI

di Gianluca Barbanotti

 

Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica.

Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva … (Deuteronomio 30 11-15)

 

Questa parola, la parola di oggi, che ci giunge dalla lettura della Scrittura, dall’ascolto del sermone, dalla meditazione, è per oggi, comprensibile e alla mia portata. La voce di Dio è qui per noi, oggi. Anzi, sembra quasi che se non ascoltata oggi, andrà persa, che alcune opportunità di comprensione domani non saranno più alla nostra portata. Non è la temibile urgenza del giorno del Signore, ma l’ascolto e la parola sono per il nostro oggi, il nostro contesto quotidiano ove trovano il loro significato. Domani l’ascolto e la parola risuoneranno alle nostre orecchie in modo senz’altro diverso.

La Parola del Signore ha assunto per me personalmente dei significati diversi che sono variati con il cambiamento delle mie stagioni, spirituali e personali.

Siamo chiamati a vedere la salvezza che Dio opera oggi in noi (Es. 14.13), la vediamo questa salvezza? Riusciamo ancora a scorgere i segni del regno? In quale direzione l’ascolto della parola di Dio ci porta a volgere lo sguardo?

Il Dio del Pentateuco è il Dio dell’oggi, che si manifesta in tutti gli “oggi” della nostra vita, sempre in modo nuovo e richiede un ascolto sempre rinnovato. Noi cambiamo, il nostro oggi è più maturo, più sereno o più confuso del nostro ieri, e il nostro domani non ci appartiene. Sappiamo però che Dio sarà il nostro “Dio dell’oggi” anche domani, come anche lo è stato del nostro ieri è come è stato l’unico all’altezza della nostra presunta coerenza.

Il testo mi dice che è facile obbedire! Obbedire, realizzarsi, ascoltare, comprendere “oggi” è dannatamente facile! E io che pensavo che fosse necessario essere maturo, colto, posato, saggio, teologicamente istruito, assiduo frequentatore biblico… E’ facile “questa parola è vicino a te è nel tuo cuore è nella tua bocca”. So cosa devo fare oggi! E’ semplice! L’agenda in mano, gli appuntamenti, gli impegni e le cose che mi aspettano. L’ascolto mi darà la possibilità di avere uno sguardo diverso, di metterci un po’ di sale? Affronterò la giornata, le persone, le piccole e grandi scelte con la comprensione che oggi Lui mi da? Saprò essere testimone a me stesso, il primo che ne ha bisogno, di germi di vita rinnovata?

E’ facile ed è possibile, accidenti! Nessuno deve salire nell’empireo della conoscenza al posto mio, perché quello che mi serve oggi già lo so. Nessuno deve frequentare luoghi esotici e misteriosi perché l’ascolto avviene nel mio ordinario quotidiano.

Da ragazzo credevo che fosse necessaria un’occasione eroica per dimostrare la fede e per affermare l’identità evangelica, pensavo che vivere in tempi difficili irrobustisse la nostra fede. Oggi credo che la battaglia più difficile e dura sia quella di vivere l’Evangelo nel quotidiano, nei rapporti di lavoro, in famiglia, nella nostra responsabilità sociale. La marmellata di valori, di stimoli e di bisogni nei quali siamo allevati e alimentati ci invischia profondamente e rende molto difficile ritrovare il senso della parola “questo comando non è troppo alto per te né troppo lontano”.

Cosa ascolterò questa settimana che mi farà agire in risposta al comando di Dio? Come impiegherò le risorse che Dio mi ha concesso, denaro, tempo, competenze? Cosa farò oggi per essere quel che sono? Come potrò davvero “vivere” oggi senza “amare il Signore, camminare nelle sue vie, osservare i suoi comandamenti”?

 

La mela di Eva

di Letizia Tomassone

Male e peccato nell’esperienza delle donne

 

La denuncia

Su un numero recente della rivista internazionale di Concilium (3/2004) tre teologhe indicano nel tradimento della fiducia il peccato della chiesa. Lo affermano nell’ambito di una analisi approfondita delle situazioni della violenza sessuale su minori che si sono verificate anche all’interno delle chiese. Come per la famiglia, anche per la chiesa le relazioni non possono basarsi che sulla fiducia. Esse dicono: “la fiducia è una componente necessaria di ogni chiesa viva”.

Forse per la prima volta con questa intensità, delle donne si interrogano sulla loro complicità nella violenza patriarcale contro bambini e bambine. Queste teologhe si sentono coinvolte: “questa è la nostra crisi, perché noi siamo la chiesa”. Dunque il male non è fuori di noi, non possiamo dissociarci e denunciarlo come se ne fossimo solo vittime, perché anche noi contribuiamo a costruire questo genere di violenza. Soprattutto attraverso il silenzio e la copertura della violenza: il silenzio appare infatti essere un elemento costante nel “peccato”. Perciò, per uscire da questa complicità, è necessario chiamare per nome le cose e non accettare censure e tabù, soprattutto non accettarle per salvare se stesse come innocenti. Chiamare per nome il peccato significa uscire dall’abitudine, dall’apatia e dalla rassegnazione.

Le teologie femministe hanno messo a tema da un po’ di anni la capacità di indignazione per il male. Anche il decennio di solidarietà con le donne cercava di suscitare nelle chiese questa capacità opposta alla pratica della rassegnazione. Per esempio Elizabeth Johnson, nel suo libro fondamentale – Colei che è, Queriniana, 1999 – mostra come Dio si indigna per il male e l’ingiustizia che le sue creature vivono e si infliggono le une le altre. Da questa indignazione nasce amore e misericordia, ma anche giustizia e collera. “La collera è un modo di relazionarsi agli altri ed è sempre una vigorosa forma di sollecitudine. La collera è sempre il segno di una resistenza in noi stessi alla qualità morale delle relazioni sociali in cui siamo immersi” (Beverly Harrison cit. in E. Johnson p.497). Si tratta di una “furia creatrice di vita” che viene attribuita, negli scritti sapienziali, proprio alla figura divina di Sophia. “Le donne accese di giusta ira offrono un’eccellente immagine del potere d’indignazione di Dio provocato dall’ingiustizia” (Johnson, p.498).

 

Un mondo senza peccato e senza bisogno di salvezza

Nel corso dei secoli, il sentimento e la condanna del peccato sono stati usati strumentalmente nei confronti delle donne per schiacciarle nella sottomissione all’ordine patriarcale.

Alcune teologhe hanno proposto così una visione unilaterale del peccato, come se, una volta eliminato l’ordine patriarcale, si potesse pensare un mondo senza peccato. Mi riferisco a una teologa contemporanea come Mary Daly, che descrive la possibilità di un mondo liberato dal patriarcato e di colpo anche dal peccato. Ma in modo straordinario anche l’autrice – protestante – della Women’s Bible del 1895, Elizabeth Cady Stanton afferma: “se togli l’albero, la mela e il serpente, nessun bisogno di un salvatore”. Scoprendo con quale peso era stato messo sulle spalle delle donne addirittura il peccato di tutta l’umanità (“Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione” I Timoteo 2:14), le donne stesse se lo sono scrollato di dosso, scoprendo la libertà dell’innocenza, la leggerezza di un mondo non bisognoso di salvezza né di perdono.

Infatti il perdono mette ancora una volta in posizione di dipendenza: tutta la vita e la libertà si riceve dall’altro e non si diventa mai autori della propria vita, autorevoli, ancorati in sé. La vocazione alla fede in Gesù Cristo è invece proprio la riappropriazione della propria responsabilità di soggetti. Scrive per esempio la teologa svizzera Lytta Bassett: “Gesù rinvia i suoi interlocutori a se stessi, alla loro autorità: sta a loro essere autori di ciò che affermano… Gesù stesso poteva pronunciare le più toccanti affermazioni, ma il suo io non diventava luce del mondo fintanto che i suoi interlocutori non lo avevano in loro stessi, fintanto che non si mobilitavano abbastanza per appropriarsi della luce…”tu l’hai detto!” Se tu sei pienamente autore di ciò che affermi, sta a te sapere se mi hai sufficientemente in te per vedermi così!” (Lytta Bassett, Io non giudico nessuno, Claudiana 2004, p.112s.). Gesù pone ogni persona “davanti alla responsabilità del proprio desiderio: nessuno può desiderare e realizzare il proprio desiderio al posto di un altro. Gesù non cessa fino all’ultimo di risvegliare il desiderio profondo dei suoi simili” (Bassett, p.177).

 

Quale peccato tocca la vita delle donne?

Ci sono dunque queste riflessioni che portano ad immaginare una situazione felice e utopica di assenza del male fuori dall’ordine simbolico patriarcale. Tuttavia la maggioranza delle elaborazioni femministe lavorano invece sulle capacità positive delle donne di costruire relazioni e mondo, affrontando anche il tema del male nel genere femminile e dei suoi lati oscuri e violenti. Non a caso uno dei primi testi della teologia femminista parlava della distorsione del tema del peccato in termini solo maschili nell’ambito della predicazione cristiana. Questa ha infatti enfatizzato il peccato d’orgoglio, la pretesa di mettersi al posto di Dio, esortando ad una pratica di umiltà che, se rivolta contro l’arroganza patriarcale trova terreno fertile per la conversione, ma se rivolta a donne e oppressi alimenta la loro umiliazione e il loro silenzio di fronte ai soprusi. Proprio quel silenzio che oggi viene indicato come uno degli elementi attraverso cui passa il peccato. Le teologie femministe hanno appunto identificato il peccato sperimentato al femminile come piuttosto il sottrarsi alle proprie responsabilità di soggetto. Di conseguenza c’è necessità di conversione anche per le donne, anche se una predicazione tutta sbilanciata verso una visione androcentrica del rapporto con Dio non ha saputo parlare loro in modo adeguato.

Affrontare i temi della gelosia, dell’invidia, dell’onnipotenza femminile, è compito a cui non si sono sottratte le elaborazioni delle donne. Il peccato non è un evento assoluto, va percepito nella relazione, così come l’amore.

 

La felicità

Quando si parla del peso del senso di peccato sulla vita delle donne si parla anche di una coercizione verso il sacrificio di parti di sé: il sacrificio della sessualità, della felicità dei corpi, il sacrificio della pienezza della propria realizzazione. Uscire da un uso strumentale del peccato significa dunque porsi come orizzonte quello dell’integrità di corpo e spirito, quello della felicità.

Una teologa come Ivone Gebara pone proprio il problema del valore del sacrificio e del martirio, pone il problema di una gioia solo sperata e attesa e mai vissuta. “Attraverso il discorso sul martirio idealizzato – i teologi della speranza – recuperano il sacrificio violento come forma utopica di riscatto della libertà. Noi donne dell’America latina siamo disposte a denunciare l’assoluta mancanza di senso delle morti violente, delle morti per denutrizione, per mancanza di cure, delle morti provocate da tutti i tipi di guerra. Non c’è bisogno di trasformare la violenza e renderla utile o migliore. Non c’è bisogno di fare della sofferenza una fonte di speranza… Non ci servono a niente i martiri se continuiamo a riprodurre strutture e comportamenti di violenza… Il nostro desiderio più profondo è quello di essere felici, di vivere la nostra dignità piacevolmente” (Concilium 3/1998, p.31).

Lavorando con altre donne sui primi secoli della chiesa cristiana ci siamo chieste perché anche noi continuiamo a perpetuare come un valore la memoria di sacrificio delle martiri, invece di andare a cercare le storie di quelle donne che hanno scelto la vita, per sé e per i loro figli/e, anche abiurando la nuova fede. In fondo gli ebrei esaltano la scelta dei marrani in Spagna nel XV sec., e anche i valdesi del ‘400 pare fossero “nicodemiti”…

Cos’è questa esaltazione della purezza e del rigore della fede a costo della vita? È la conseguenza del modo in cui si trasmette il senso della croce, come rinuncia alla vita, e non come ricerca della vita in pienezza. Infatti accanto alle martiri ci sono le ascete e le vergini, esaltate per la loro rinuncia alla vita sessuale e alla maternità.

Oggi, mettere l’accento sul peccato non libera, anzi schiaccia le persone. Altro è la denuncia del male globale sul quale si può e si deve sviluppare una analisi capace di trasformazione. A livello individuale la nostra società ha bisogno di sentir agire una grazia che trasforma: non la conferma di ciò che già siamo, ma l’acuirsi della consapevolezza, che porta con sé la capacità di indignarsi; l’uscita da una sorta di indifferenza “televisiva”, che ci toglie la capacità di agire in presenza e in prima persona; la ricerca, insieme ad altri/e delle vie per cambiare.

Scrive la filosofa Luisa Muraro, riferendosi all’opera delle mistiche occidentali, che “nella teologia in lingua materna non c’è niente che assomigli a una teodicea”, cioè a una giustificazione o accusa di Dio di fronte al male del mondo. “Nessuna delle donne la cui lettura mi ha ispirato questo libro, si scandalizza o s’inquieta per l’accostamento fra un Dio infinitamente buono e potente, da una parte, e un male così atroce come la sofferenza inflitta a creature innocenti e inermi, dall’altra” (Luisa Muraro, Il Dio delle donne, Arnoldo Mondadori 2003, p.151). Muraro definisce come “teologia in lingua materna” quella che non parte da Bibbia o tradizione teologica, ma dall’esperienza femminile dell’amore, della libertà, della gratuità. Così si ha rivelazione femminile di Dio, esperienza che si ripete ogni volta e restituisce vita a Dio.

Come si fanno i conti con il male, allora? Da un lato lei mostra come nella mistica si sperimenti la contemplazione, in cui si accolgono il bene e il male, al modo in cui sulla riva del mare vengono accolte le onde: “sembra quasi essere sulla riva di un mare che è l’essere e di assistere al mutare dei rapporti fra la terra affiorante e la massa liquida: non c’è fissazione sull’essere uno e non c’è lacerazione nell’essere due, c’è mancanza ma non c’è perdita, c’è ritorno ma non è una ripetizione” (Muraro p.102). C’è qui un richiamo preciso anche all’antica teologia sapienziale che si dispiega nell’ebraismo ellenistico e nella Bibbia dei LXX.

Dall’altro Muraro indica la dimensione di bisognosità della vita, di dipendenza dall’amore, di mancanza e attesa: “bisogno non di qualcosa o di tanto, ma di tutto”. Un’esperienza che nasce da un soggetto, quello femminile, che non è pieno di sé, di conseguenza non occupa il mondo.

 

L’etica

Si apre così la dimensione dell’etica. In altri linguaggi di donne questo viene anche detto con il concetto del limite e dell’interdipendenza necessaria alla vita. L’etica non si presenta qui come “dover-essere” ma come un esserci in prima persona che apre spazio alla presenza di altro, che avviene nella libertà e nella gioia.

Dio non è più soltanto un nome per la libertà femminile, per la mancanza che lascia spazio all’attesa e alla creatività, per la dipendenza: Dio è “possibilità di un nuovo inizio” nel contesto in cui si è. “La fecondità di fare posto a qualcosa che ancora non si sa, con parole rispondenti a un’esperienza fino allora non detta, parole trovate in quello spazio relazionale di attesa e fiducia che è lo spazio di ogni essere che comincia” (Muraro p.148).

Luisa Muraro esplora così l’esperienza della libertà di Dio in un andare e venire con l’esperienza di donne: la madre che può avvenire, che può accadere. Certo la madre è un bisogno della creatura piccola, ma non un destino necessario della donna: “le madri non esistono”, “le cure materne non rispondono al dovere ma all’amore libero, o valgono meno di niente”, “qui la cosa più necessaria di tutte può avvenire solo gratuitamente” (Muraro, p.142 e 146). La madre diventa madre solo se ascolta, se entra in relazione: così è per Dio. Questa è la nudità di cui si fa esperienza nel rapporto con Dio. “Dio smette di essere un oggetto di fede, un garante del vero e del giusto, un ricorso contro il male di questo mondo”, uno strumento in mano all’essere umano. E’ un Dio che non si fa usare, ma “godere” senza consumare. Che eccede il linguaggio e anche l’esperienza, che avviene ma può anche non avvenire. Che non risponde, neanche lui, alla logica del dover essere. (Muraro, p. 37 e 46).

Solo la gratuità e la libertà dell’amore ci possono far uscire dalla logica perversa del male e del peccato.

 

PIETRE

(liturgia di confessione dei peccati usata durante l’ultima Assemblea del Circuito delle chiese metodiste e valdesi toscane)

 

Prendete posto. Tenete la vostra pietra in mano, toccatela, esploratela con le vostre mani.

 

Un momento di silenzio.

 

Voce: Gesù dice: Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra. (Giov. 8: 7)

 

Un momento di silenzio.

 

Come potrei scagliare la mia pietra!

Questa pietra sono io, è la mia situazione, i miei problemi, il mio peccato.

 

Ci sono pietre aguzze, che tagliano, che fanno sanguinare,

pietre che provocano una sofferenza acuta.

Vorremmo buttarle via e guarire,

ma non possiamo,

perché questa pietra siamo noi.

 

Ci sono pietre lisce, lisciate dal tempo, dall’abitudine,

non fa più male toccarle,

ma non troviamo più un appiglio per prenderle, per spezzarle.

Non sentiamo più il desiderio di buttarle via,

ci siamo abituati a portarle.

 

Ci sono pietre pesanti,

portarle ci costa molta forza, ci impedisce nella libertà di movimento.

Vorremmo buttarle via per riacquistare la leggerezza del movimento,

ma non possiamo,

perché questa pietra siamo noi.

Ci sono pietre ruvide,

non fa piacere toccarle,

vorremmo buttarle via, vorremmo evitare questa sensazione sgradevole,

ma non possiamo,

perché questa pietra siamo noi.

 

Ci sono pietre morbide, che sporcano le mani.

Vorremmo buttarle via, vorremmo lavarci le mani,

ma non possiamo,

perché questa pietra siamo noi.

 

Ci sono pietre che formano un muro

che ci separa dagli altri, ci protegge contro gli altri,

ci rende prigionieri di noi stessi.

Vorremmo buttarlo giù,

ma non possiamo,

perché questo muro di pietre siamo noi.

 

Signore,

 

abbi pietà di noi!

Il tuo Figlio è venuto nella nostra realtà piena di pietre,

in mezzo a noi, esseri umani dal cuore di pietra,

ed è morto a causa della nostra durezza e a causa della durezza della nostra condizione.

Liberaci da tutto quello che ferisce, che è abitudine mortale,

che impedisce la libertà e l’incontro,

che è sgradevole, che sporca,

liberaci ad essere veri, persone piacevoli da frequentare,

libere e dirette, pronte per nuove esperienze,

aiuto e guarigione per chi vive con noi, per chi ci incontra.

Il tuo Figlio è morto,

affinché noi non fossimo prigionieri della nostra esistenza di pietra,

la depositiamo nelle tue mani,

per ricevere da te un’esistenza di carne, aperta per te

e aperta per chi ci vive accanto. Amen.

 

Durante la musica, vi invito ad alzarvi, a venire avanti e a depositare la vostra pietra davanti al Tavolo della Santa Cena.

 

Musica (mentre le persone depositano le loro pietre)

 

Voce: Gesù, alzatosi disse: “Donna, dove sono quei tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannato?”

Ella rispose: “Nessuno, Signore.”

E Gesù le disse: “Neppure io ti condanno; va’ e non peccare più.”

 

In Gesù Cristo non c’è condanna per noi,

ma la possibilità di liberarci da tutto quello che è peso,

pietra, muro e ostacolo in noi,

la possibilità di ritrovare la gioia e la libertà dei figli

e delle figlie di Dio.

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen

Il Padre nostro a puntate

di Elsa Woods

 

Scusatemi, penso di avervi preso in giro tutti! Non ho nessun impedimento fisico, anche se sono entrata zoppicando. Era una scenetta per illustrare la mia testimonianza. E la mia testimonianza è questa: zoppico! zoppico davvero, zoppico nella mia fede e specialmente nella mia preghiera.

Ho il problema che nella preghiera spesso lascio vagare i miei pensieri e non arrivo alle parole. E per questo mi associo ai discepoli che esclamavano: “Signore, insegnaci a pregare!” E cosa fa Gesù? Dice: “O.K. ti rendi conto che stai zoppicando nella preghiera? Bene, ti darò un bastone, il “Padre Nostro”.

Vorrei solo raccontarvi qualcosa del mio uso di questo bastone, un po’ come una vecchietta potrebbe dire ad un’altra che ha difficoltà nel camminare: “mi raccomando, usa un bastone, ti darà molta più stabilità. Puoi andare più lontano. Io mi trovo bene col mio bastone!”

Recentemente ho letto che la frase più usata nella Bibbia è “Dio disse”. Lui parla! e quando ci penso mi vengono i brividi di meraviglia. Ma non mi è sempre facile ascoltare e rispondere in preghiera. Allora prendo il mio bastone che mi aiuta a camminare un po’ meglio.

Così potete vedermi come quella vecchietta zoppicante e se per caso anche qualcuno di voi ha qualche problema a volte con la preghiera posso raccomandare un ottimo attrezzo: il bastone! Lasciatemi elencare alcuni pregi di questo mezzo semplice, vedo almeno 4 pregi:

1) Il mio bastone è della misura giusta. Per una persona bassa come me va proprio bene un bastone corto. Un bastone lungo è inutile e ingombrante. L’evangelista Luca riporta che Gesù proprio sottolinea l’importanza di preghiere brevi, non come fanno i pagani (quelli che non hanno un’idea giusta di Dio).

2) Il mio bastone è semplice, senza fronzoli e per questo è

forte. E’ così semplice che perfino io ho potuto mandarlo a memoria. Ho da rimproverare alcune cose al mio creatore: una è la mia statura, l’altra è la mia memoria. Ma anche con la mia memoria debole posso dire il padre Nostro senza leggere in ben tre lingue! Due domeniche fa Giuseppe B. ha predicato sul Salmo 25 e ha detto due cose che mi hanno colpito: una è che è un salmo acrostico come aiuto a mandarlo a memoria; l’altra è che questo salmo è un intreccio di meditazione e preghiera. Che bello! ho pensato di nuovo, Davide faceva proprio come faccio io col mio uso del padre Nostro. Lo uso meditando, pensando e pregando; lo uso come sostegno, come scheletro sul quale io posso aggiungere la carne per creare la mia preghiera.

3. Il mio bastone è un oggetto unificante. Tutta la cristianità lo conosce e lo usa. Il Padre nostro è padre di una famiglia enorme. E guai a me, Elsa, se mi viene in mente di voler decidere io di chi è Padre e di chi no. Il Padre nostro mi fa ricordare che Gesù l’ha dato a tutta la cristianità. Una bella cosa dlela nostra assemblea è che abbiamo fra noi persone che vengono da nazioni e culture molto diverse, anche da culture di chiese diverse dalla nostra. Sono molto grata che il Signore ha fatto approdare Piero e Marita reduci dall’ambiente pentecostale fra di noi. Questo ci arricchirà. E poi ci sono io proveniente da una chiesa riformata storica, che forse è abituata ad usare questo bastone un po’ più frequentemente.

4. Il mio bastone è fatto per aiutarmi a camminare e non per correre. In inglese si chiama “walking stick”, bastone che cammina. Se lo uso per correre diventa solo un impedimento. Sappiamo tutti che viene spessissimo abusato, senza meditazione alcuna. “Padre nostro che sei nei cieli...” e poi via: bastone nell’armadio. Invece Gesù me l’ha dato per mettervi sopra il mio peso per poi camminare in modo stabile, equilibrato. Camminare nella Bibbia vuol dire muoversi con Dio, camminare insieme, vicino al mio Padre. Ricordati Elsa, dico a me stessa, camminare non è solo parlare, ma è soprattutto fare. Devi usare quel bastone per camminare bene!

Ho parlato di un bastone corto, ma farò una testimonianza lunghissima. Lunga diversi mesi, ogni mese un pezzettino del bastone. Vedendo che abbiamo avuto due prediche sulla preghiera, mi sono sentita libera di presentare questa mia testimonianza a puntate. Spero che non vi sia dispiaciuta la scenetta del bastone... E dunque il seguito alla prossima puntata!

 

Padre Nostro

Che il tuo nome risuoni così forte sulla terra

che possiamo riconoscere la tua presenza fra noi.

Che il tuo regno di amore e di gioia

venga a riscaldare i tuoi figliuoli

per sloggiare l’angoscia, la sofferenza e il peccato.

Che la tua volontà, che si è manifestata nel Cristo,

si compia anche attraverso i nostri sforzi

di giustizia, di solidarietà e di pace.

Dacci oggi il nostro pane,

la nostra parte di affetto,

la nostra parte di forza per vivere

e trasmettere il Buon Annunzio.

Perdonaci le nostre offese

come cerchiamo di perdonare le offese

di coloro che ci feriscono,

ci ignorano o non sanno amarci.

Non esporci alla tentazione del rifiuto, della passività,

della faciloneria o dell’evasione.

Ma liberaci dal male che si incrosta nel mondo

ed in noi stessi.

Anonimo

 

(da: Quando è giorno, Quaderno Cevaa 1988 p.155)

 

Cristo unico fondamento

di Marco Bontempi*

Messaggio al Culto ecumenico del 18/1/2005

presso la Chiesa valdese di Firenze

 

Nella I lettera a Corinzi Paolo si rivolge ad una comunità divisa al proprio interno in gruppi tra di loro in contrasto, proprio su come vivere la fede in Cristo. Paolo indica la radice delle divisioni nella mancanza di maturità spirituale e scrive: «Io, fratelli, non ho potuto parlarvi come a cristiani maturi. Eravate ancora troppo legati ai valori di questo mondo, e nella fede in Cristo ancora troppo bambini. Ho dovuto nutrirvi di latte, non di cibo solido perché non avreste potuto sopportarlo. Nemmeno ora lo potete, perché siete come tutti gli altri. Le vostre discordie e le vostre divisioni dimostrano che voi ancora pensate e vi comportate come gli altri» (I Cor. 3, 1-3).

 

Nella parte della lettera immediatamente precedente a questa Paolo ci dà una descrizione di che cosa sia la maturità della fede: possedere i pensieri di Cristo (I Cor. 2,16). Attraverso lo Spirito di Dio non solo e non tanto si accoglie Cristo in noi, ma soprattutto si è posti in Cristo e si possiedono i suoi pensieri. Possedere i pensieri di Cristo significa uscire dall’egoismo della fede immatura, cioè dalla riduzione dell’amore di Dio a strumento della nostra volontà. Possedere i pensieri di Cristo significa radicare la fede nel fatto dell’amore di Dio non solo per me, ma ugualmente per ogni altro essere umano, significa, in altre parole vivere riconoscendo la nostra condizione di creature. E riconoscendo, in primo luogo, che come creatura ciascuna persona esiste perché è stata scelta da Dio, cioè la sua chiamata all’esistenza in questa vita e in questo mondo dipende da un atto di libera volontà da parte di Dio, da un atto d’amore che poteva non accadere e che

invece è accaduto. In secondo luogo essere creature significa vivere nella storia, cioè dispiegare la propria esistenza attraverso i condizionamenti e le possibilità che plasmano le forme di vita individuali e collettive dentro la storia.

 

È allora nella luce del nostro essere creature che le differenze, le peculiarità delle identità individuali e collettive, insomma l’esperienza del limite che facciamo continuamente nei rapporti con gli altri da sofferenza e fonte di conflitto è rovesciata in grazia.

 

Commentando il racconto biblico della caduta di Adamo ed Eva, Bonhoeffer ha osservato:

 

«Eva, l’altro essere umano, era il limite dato ad Adamo in forma corporea, ed egli lo riconosceva nell’amore, lo amava proprio nella sua limitatezza, cioè nel suo essere un essere umano, ma tuttavia un essere umano diverso. Ora che ha trasgredito il limite, cioè ora che per la prima volta sa di essere limitato, ora che non accetta più il limite come grazia di Dio creatore, ma lo odia come segno dell’invidia di Dio creatore, ora, in questo stesso atto egli trasgredisce anche il limite che l’altro essere umano rappresentava per lui; ora anche il limite rappresentato dall’altro essere umano non gli appare più come grazia, ma come ira di Dio, come odio e invidia di Dio, cioè non vede più l’altro nell’amore, ma lo vede nel suo stargli di fronte, cioè nella scissione (...) Ognuno rivendica il proprio diritto sull’altro e avanza la pretesa al possesso dell’altro, negando e distruggendo in tal modo la creaturalità dell’altro» (Creazione e caduta, Queriniana, 1992, p.lO3).

 

La nostra condizione di esseri che vivono nella storia, le nostre identità, i nostri condizionamenti, le nostre differenze, i nostri limiti insomma, non sono in quanto tali un ostacolo all’unica fede in Cristo. Il limite che marca la differenza è parte costitutiva dell’essere creature e proprio per questo può essere vissuto come scissione e come possibilità di sopraffazione, e in ultima istanza di affermazione di potere, quando non ci si riconosca come creature. Ma è nel riconoscerci -attraverso lo Spirito di Dio - come creature del Padre che possiamo - reciprocamente - riconoscere nell’altro l’immagine di Dio, e farci carico del peso che ci comporta il riconoscimento della sua libertà.

 

Per noi, cristiani di confessioni diverse in dialogo, ciò significa che è quando viviamo l’identità confessionale propria e degli altri come grazia di Dio e strumento del suo amore nel mondo che condividiamo l’unica fede in Cristo. Con questo non intendo certamente dire che le identità siano realtà interscambiabili, al contrario. Le nostre diverse identità di cristiani richiedono di essere vissute con maturità spirituale proprio perché non sono illusioni, ma realtà consistenti e non sempre tra loro compatibili. Vivere la nostra identità con maturità di fede può allora forse voler dire considerare la propria identità confessionale come quanto di meglio si è stati capaci finora di dire sul proprio radicarsi nel Vangelo e in Cristo, sapendo che su alcune differenze oggi può essere difficile il dialogo perché ci appaiono inseparabili dalla nostra identità. Ma la nostra esperienza di chiese in dialogo ci dimostra che lo Spirito Santo, attraverso la storia, ci potrà offrire in futuro nuove formulazioni delle nostre rispettive identità che pur restando diverse ci permetteranno di superare nel rispetto del Vangelo le difficoltà di oggi. Il metodo del consenso differenziato, che è emerso recentemente nel dialogo tra cattolici e luterani va proprio in questa direzione.

 

L’unità che nasce dalla maturità spirituale, dunque, non è astratta, ma è concreta, è storica e come tale non rifiuta le differenze, ma le riconosce come grazia.

 

 

* Marco Bontempi è professore di sociologia all’Università di Firenze e membro cattolico del Gruppo Ecumenico di Firenze

"Nessuno può porre altro fondamento"

(note al cap. 3 della 1° lettera ai Corinzi)

di Gianna Sciclone

 

Quest'anno la settimana di preghiera per l'unità dei cristiani ha scelto uno splendido testo da commentare fra le diverse confessioni e chiese cristiane, di grande significato anche nelle relazioni coi non-cristiani. Si tratta di un testo che deve esser risuonato come polemico a suo tempo: l'apostolo Paolo rimprovera la chiesa cristiana di Corinto di fomentare personalismi, esercitando il culto della personalità di questo o quel fondatore e trascurando il centro dell'evangelo che è il Cristo, con il suo messaggio di liberazione e nuova vita.

L'affermazione principale è: "Cristo è il fondamento della chiesa e nessun altro" (v.11). Anche quando si accenna agli apostoli come fondamento ("apostoli e profeti" in Efes. 2, 20) si sta parlando della loro testimonianza su Gesù, in quanto testimoni oculari o annunciatori di promesse messianiche. Anche quando si dice a Pietro: "su questa pietra io fonderò la mia chiesa" (Mat.16,18) forse si sta parlando dell'affermazione fatta da Pietro "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente".

Forse Paolo avrebbe molto da dire alle nostre chiese, che si chiamano con nomi diversi a seconda del loro fondatore (per esempio: i Valdesi da Valdo), o dell'orientamento che auspicano (per esempio "carismatici" dal desiderio di ricevere i "carismi", ovvero i doni dello Spirito. Non c'è niente di male nei nomi, ma occorre sottolineare che l'unico fondamento è il Cristo!

Fondamento significa stabilità e sicurezza: "Le porte dell'Ades non prevarranno...". Gesù ci ha ottenuto questa sicurezza con la sua propria morte. Chi è morto non può morire ancora, può solo risorgere a vita nuova con Cristo. Ecco che la storia umana viene capovolta, si parte dalla morte per annunciare la vita vera, quella della nostra vocazione cristiana.

Ma Cristo è davvero l'unico fondamento delle chiese cristiane?

Perché può accadere in tutte le chiese cristiane che, in buona fede, ci si pretenda costruiti sull'unico fondamento, che è il Cristo, ma che poi non siamo coerenti con il nostro fondamento... Il fondamento è posto in profondità, è ormai invisibile a chi vede la costruzione. Infatti l'apostolo Paolo dice che su quel fondamento ognuno costruisce con il materiale che ha a disposizione e per questo sta sotto il giudizio di Dio.

Se un alieno, proveniente da un altro pianeta, senza nessuna conoscenza di Cristo e del Cristianesimo vedesse il nostro stato attuale, le grandi e belle cattedrali cristiane in tante parti del mondo, come potrebbe collegarle al Cristo, che ha detto di sé: "Le volpi hanno delle tane, gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell'Uomo non ha dove posare il capo..." (Luca 9,58)?

Oppure, vedendo Stati grandi e potenti, che si dicono cristiani, fare guerra contro altri più piccoli e poveri, o disorganizzati, rispondere con violenza alla violenza pensando di cancellare il terrorismo e ... mettere pace, come si ricorderebbe di Gesù che raccomanda di porgere l'altra guancia (Mat.5,39), di amare e pregare per i nemici, di "fare del bene a quelli che vi odiano" (Mat. 5,44), o che rimprovera un discepolo che vorrebbe aiutarlo al momento dell'arresto "Riponi la tua spada nel fodero, perché tutti quelli che prendono la spada, periranno di spada" (Mat.26,52)?

Noi stessi ci siamo talmente abituati a vedere i nostri rappresentanti delle chiese cristiane braccio a braccio coi potenti della terra, seduti ai primi posti nelle inaugurazioni o nelle grandi manifestazioni, riveriti e ricercati per dare lustro e credibilità all'establishment del mondo, quando mai ci ricordiamo di Gesù che lavava i piedi ai suoi discepoli e insegnava loro che dovevano e potevano cancellare gli effetti nefasti del potere mediante il servizio reciproco?

E' con dolore che dobbiamo confessare di esserci forse di molto allontanati dal nostro fondamento comune e di aver costruito con materiali che volevano attirare gli sguardi e allettare gli spiriti, piuttosto del duro legno della croce...

Gesù ha avuto donne fra i suoi discepoli, le ha difese, ammaestrate, amate; ha fatto loro delle rivelazioni particolari e assegnato il compito di annunciare la sua risurrezione: la chiesa se n'è presto dimenticata e ha rimesso le donne al "loro posto", in cucina o coi bambini o gli invalidi. Se la società laica, la rivoluzione francese, l'organizzazione industriale del lavoro non avessero fatto spazio alle donne, permesso loro di accedere all'istruzione e all'esercizio delle più svariate professioni, ancora saremmo fermi agli interrogativi delle chiese cristiane, che riconoscono sì qualche valore all'esperienza e alla visione del mondo delle donne, ma in sostanza ritengono la religione cosa di uomini.

Il fondamento unico è stato oscurato, perché vi si è fabbricato sopra un sistema complesso, che però corrisponde fin troppo bene allo schema usuale del mondo, dove la religione, tutte le religioni, sono servite ad alleviare il dolore, a educare le nuove generazioni alla sottomissione, a puntellare il potere perché sia rispettato, a patto che il potere stesso faccia spazio e privilegi alla religione.

Una visione troppo pessimistica? Speriamo proprio di sì. Perché non dimentichiamo che in tutte le latitudini le chiese fondate sul fondamento di Cristo hanno invece partecipato e fatto partecipare alla sua morte e alla sua risurrezione, annunciando e realizzando che è possibile vivere nella povertà, condividendo il pane nostro.

Molti cristiani sono stati e sono talvolta coerenti fino alla morte con il fondamento-Cristo e si sono battuti e si battono perché ci sia pace nel mondo. L'impresa è disperata, a viste umane, perché bisogna che ci sia pace nella giustizia, ma si può almeno apparecchiare e sedersi al tavolo delle trattative... Allora ci si dovrà forse scontrare con i potenti del mondo, anziché sostenerli, si dovranno strappare i poveri dai loro denti per riscattarli alla vita (Ez.34,10 Sal.124,6). E questo è uno dei compiti più importanti e significativi per iniziare i tempi finali, come risuona nel Cantico di Maria, madre di Gesù e prima ancora nel Cantico di Anna. Ed ecco anche le donne ad un posto nuovo e importante, profetesse del futuro, della vita risorta, che il Signore fa vivere alle sue chiese anticipando per la società la vita nuova gloriosa dei figli e delle figlie di Dio.

Riconoscere in Cristo l'unico fondamento per la vita di ogni cristiano e di ogni chiesa cristiana diventa una vocazione per il futuro, e non un dato scontato. Si tratta per noi tutti di rimuovere i materiali sbagliati con cui abbiamo costruito sopra, perché ci sia vetro su quel fondamento e risulti visibile di chi siamo discepoli e discepole.

 

 


Il mondo a posto

 

Un ragazzino venne da suo padre per giocarci insieme. Ma il padre non aveva tempo per il ragazzino e neanche voglia di giocare. Allora pensò come poteva tenerlo occupato.

 

In una rivista trovò un disegno della terra, complicato e ricco di dettagli. Lo strappò e cominciò a tagliarlo in tanti pezzetti. Poi li diede al ragazzo pensando di averlo impegnato per un bel po’ di tempo a venire a capo di un puzzle tanto complicato.

 

Il ragazzino si ritirò in un angolo della stanza e cominciò con il puzzle. Dopo pochi minuti venne dal padre e gli mostro l’immagine rimessa insieme perfetta.

 

Il padre non credeva ai suoi occhi e gli domandò come aveva fatto a fare così presto. Il bambino disse: “Sul lato di dietro c’era la figura di un uomo. Ho rimesso a posto quella e quando l’uomo era a posto, era a posto anche il mondo...”

(dalla Circolare della Chiesa Luterana di Firenze)

 

Il naso tra i libri

di Sara Pasqui

 

 

Premessa

 

Quando recensii il bel romanzo di Antonia Arslan “La masseria delle allodole” nella nota biografica accennai ai suoi studi sulle scrittrici italiane fra 800 e 900 e ne citai alcune che hanno suscitato l’interesse e la curiosità di varie sorelle ed amiche le quali seguono questa rubrica, perciò ho pensato di fare cosa gradita, in questo inizio di anno, presentando il primo di due nomi che sono quasi sconosciuti, specialmente alle lettrici più giovani.

 

Marchesa Colombi

In risaia

Interlinea Edizioni, Novara, 2001

pp.142 €11.36

 

Nota biografica

 

Maria Antonietta Torriani nasce a Novara nel 1840, trascorre un lungo periodo monotono e grigio in provincia poi, giunta in possesso di una piccola eredità, si trasferisce a Milano, si ringiovanisce di sei anni, si inserisce nel vivace ambiente letterario della città, acquista modi disinvolti, si crea un’immagine di donna emancipata, assume lo pseudonimo di Marchesa Colombi e con grande determinazione inizia la sua carriera di giornalista, conferenziera, scrittrice. Incontra e sposa Eugenio Torelli Vollier fondatore de Il Corriere della Sera, ma il matrimonio avrà breve durata.

Scrittrice feconda e molto apprezzata fra la fine dell’800 ed i primi del 900 il suo stile letterario si distingue per l’ironia a volte tagliente, per la capacità di rappresentare la realtà un po’ grottesca e deformata e per il rifiuto netto dell’amore romantico e delle convenzioni, nei suoi romanzi analizza e denuncia la condizione della donna dallo sfruttamento nel mondo del lavoro alla mancanza di prospettive nell’ambito della vita familiare, quindi può definirsi autrice di una narrativa a carattere sociale.

Fra le sue opere migliori occorre citare “Serate d’inverno” (raccolta di novelle), “Troppo tardi”, “La gente per bene” (un vero trattato di galateo), “Un matrimonio in provincia”, la sua opera più bella e completa con la quale si può affermare che si inserisce giustamente tra i nomi più importanti della nostra letteratura, “In risaia” del 1878 che descrive il mondo e la vita delle mondine e dunque potrebbe essere considerato un romanzo verista, ma la scrittrice lo presentò come “racconto di Natale” perché ha un lieto fine.

Marchesa Colombi, dopo la morte avvenuta a Milano nel 1920, venne completamente dimenticata ed ignorata, per lungo tempo le sue opere conobbero l’oblio: a Natalia Ginzburg e ad Italo Calvino va il merito di averla riscoperta promuovendo nel 1973 la riedizione, presso Einaudi, di “Un matrimonio in provincia”.

 

 

In risaia

 

“In risaia” è un romanzo a lieto fine che inizia con una lucida, pacata, efficace descrizione della vita delle donne occupate nella monda delle risaie: i rischi a cui vanno incontro, i pericoli materiali e morali che le minacciano quotidianamente, gli orari estenuanti a cui sono sottoposte, la salute sovente compromessa a causa dello scarso vitto, dei luoghi malsani in cui lavorano, della mancanza di ogni tipo non solo di prevenzione, ma soprattutto di assistenza in caso di incidenti o di malattie come la malaria.

La protagonista, Nanna, è una giovane contadina che pratica il lavoro stagionale della mondina perché appartiene ad una famiglia povera che non può comprarle gli spilloni d’argento con cui adornarsi la testa e senza i quali è impensabile potersi sposare. La fanciulla ha lunghi capelli biondi che la rendono assai graziosa e che purtroppo a causa di una malattia contratta sul lavoro perderà. Con la caduta della folta capigliatura va anche in frantumi il sogno di sposare Gaudenzio giovane ed avvenente carrettiere.

Il libro è la storia di Nanna, ma vuol soprattutto essere la storia di una donna e del suo rapportarsi con la realtà. La giovane vive il suo dramma con asprezza, amaro rimpianto per le illusioni svanite, si chiude in se stessa piena di rancore per la sorte avversa, tende a commiserarsi, prova gelosia per le altre ragazze, la prospettiva di una vita di solitudine la terrorizza ed ogni suo gesto, ogni sua breve ed aspra parola sembrano annunciare il dramma conclusivo, ma nella notte di Natale tutta la sua amarezza si stempera, si scioglie il nodo che le attanaglia l’anima e così, dopo un periodo tormentato e difficile, Nanna prende coscienza di sé, capisce che si può vivere anche con una figura privata della bellezza e dunque accetta la menomazione, si convince a sposare un vedovo, abbandona i sogni di un tempo ed inizia una nuova vita riappropriandosi del suo ruolo di donna e non detestando più la propria immagine. Per questo lieto fine inaspettato, imprevisto, l’Autrice sottotitolò il romanzo “racconto di Natale”.

Con “In risaia” Marchesa Colombi descrive l’ambiente contadino della campagna novarese con fedeltà, realismo, ma anche con amore e partecipazione dedicando la sua attenzione in modo particolare alle figure femminili: Nanna la protagonista, Maddalena la madre, Rosetta la cognata, Lucia la sorella minore di questa. Tutte donne “sottomesse e remissive ma di occulto governo” come afferma Antonia Arslan, mentre gli uomini restano ai margini della vicenda, sfuocati, sbiaditi come vecchie fotografie. Il padre ed il fratello di Nanna sono buoni, ma privi di personalità, incapaci di decidere e di agire, insomma non si rivelano troppo “svegli”, Gaudenzio è un rozzo e fatuo carrettiere con poco cervello ed il cui unico interesse sono le giovani e prosperose contadine. Le donne invece si dimostrano l’elemento determinante della storia poichè in silenzio, ma con ostinazione, si muovono, decidono, scelgono, a volte intrigano, insomma agiscono rivelandosi creature vive e capaci di pensare e lottare.

“In risaia” è una storia libera da ogni convenzionalità piccolo borghese proprio per la spontaneità e la naturalezza dei personaggi e perciò è fresca, viva, ariosa, poetica.

Il romanzo, pubblicato nel 1878, in realtà è una denuncia dello sfruttamento della donna e delle sue condizioni di vita soffocanti e squallide, si può considerare a buon diritto la prima inchiesta sul lavoro nelle risaie, ma anche la prima indagine sul folklore della campagna novarese, eppure malgrado tutto questo, per oltre un secolo non fu più ripubblicato, avversato e rifiutato dalla città natale della scrittrice, ma anche ignorato dal mondo operaio. Fu riscoperto nel 1934 da Benedetto Croce che lo liquidò come racconto folkloristico, dunque il merito di averlo rivalutato per il suo contenuto sociale e culturale va alle donne, ad alcune studiose come Adriana Serano, Giuliana Morandini, Antonia Arslan che hanno dedicato alla Marchesa Colombi ed alla sua opera numerosi ed interessanti studi e svariate pubblicazioni.

 

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Parlano di noi

 

Da Il Corriere della Sera

 

Scrive Gianni Riotta in un elzeviro su Immigrati e integrazione intitolato “L’ordinaria tolleranza”:

 

La Val Pellice, antico luogo della tolleranza italiana, di matrice valdese, vede manovali islamici faticare tra cattolici e protestanti. E perfino nei cimiteri, la lunga pratica della tumulazione islamica è gestita accanto alle croci.

 

Costretti...

 

In una landa poverissima, dove non crescevano nemmeno alberi, ma spuntavano cespugli stenti e aridi fra roccia e sasso, abitava una piccola famiglia indigente. Una casupola scavata nella roccia e due caprette striminzite erano il suo patrimonio.

 

Avvenne però che nella notte prima di Pasqua un lupo si avventurò fin là e divorò le due caprette.

Ora non avevano più nulla per nutrirsi. La dura necessità li costrinse a fare fagotto delle poche cose e a trasferirsi più lontano.

 

Dopo sofferenze, umiliazioni, delusioni, trovarono molto lontano dal loro paese un lavoro e un rifugio. Due anni dopo l’uomo prese in affitto un pezzo di terra a prato e vi fece pascolare una pecora. Lavorò con diligenza e riuscì a sistemarsi in una bella casetta, una mucca, un bue e otto pecore.

 

Si avvicinava di nuovo la festa di Pasqua, l’uomo accese due candele. “Perché due candele?” chiese sua moglie. “Una, perché domani è Pasqua, questo lo capisco. Ma perché l’altra?”

 

“L’altra è per ringraziare il lupo che ci ha costretti a fuggire dal nostro paese”.

 

 

da: “Ein Laecheln fur die Seele” di N. Lechleitner

 

(ripreso e tradotto dalla Circolare della Chiesa Luterana di Firenze)

I novant'anni di Salvatore Caponetto

di Cola R. Mannucci

 

 

"Ascolta... ricevi i miei detti e anni di vita ti saranno moltiplicati" (Prov.4,10)

 

"C'è uno studnete universitario di Catania che lavora molto bene per l'Opera nostra. Egli è umile e non si vanta per niente dei suoi doni, né della sua istruzione. Ho sentito da lui una predica alla gioventù che mi ha rallegrato molto. Spero che Iddio vorrà chiamarlo a predicare l'Evangelo, ma pare per ora che egli sia deciso a dedicarsi all'insegnamento."

Quel ventiduenne studente era Salvatore Caponetto nel quale, in un suo rapporto, il presidente dell'Opera Battista Dr. G.B. Whittinghill, aveva individuato i tratti salienti della giovane promessa.

Oggi a quasi settanta anni di distanza cosa possiamo dire del prof. Salvatore Caponetto? Egli è "umile, non si vanta per niente dei suoi doni e della sua cultura, ha predicato, sì, l'Evangelo con il suo impegno di educatore, con il suo impegni civile di cittadino, col suo impegno costante e fruttuoso di studioso.

La Riforma Protestante nell'Italia del Cinquecento, come recita il titolo della sua maggiore e più diffusa opera, è il fulcro dei suoi studi, delle sue indagini, delle sue precise intuizioni che con meticolosa e non tediosa precisione, ha portato nelle sue opere con un linguaggio chiaro, comprensibile, asciutto, privo di svolazzi, invitandoci ad una attenta e piacevole lettura.

Tanti traguardi ha raggiunto Salvatore: il compimento degli studi, l'insegnamento, la dirigenza di scuole superiori, l'impegno come assessore a Pesaro, ove ha passato gran parte della sua vita attiva e infine, con l'approdo a Firenze, l'insegnamento universitario.

Ora che gli anni di vita gli sono stati moltiplicati fino a raggiungere i suoi primi novant' anni, lo salutiamo riconoscenti per tutto quello che ci ha dato e per tutto quello che ancora ci darà.

Insieme ai tuoi cari, insieme a tutti coloro che ti hanno ascoltato, insieme a quelli che hanno avuto il privilegio di conoscerti, insieme alla tua comunità, insieme a tutte le comunità evangeliche fiorentine ti diciamo: Grazie Salvatore, il Signore sia ancora con te e ti dia pace e serenità per tutti gli anni che il Signore ti moltiplicherà!

La redazione di Diaspora e gli amici delle chiese evangeliche fiorentine si uniscono a questi auguri e sperano di avere ancora l’aiuto e il consiglio del prof. S. Caponetto per lunghi anni! Buon Compleanno!

Notizie dalle chiese fiorentine

 

dalla Chiesa Valdese

Nel mese di dicembre la prima domenica è stata dedicata alla diaconia con una predicazione tenuta da Gabriele De Cecco “Il diacono e il fariseo” su Mt.23,1-15. Domenica 12 è stata battezzata la piccola Diana Maria Gastaldi di Ilaria Motta e Luigi Gastaldi. Domenica 19 c’è stato un culto coi bimbi della Scuola Domenicale e un’agape a via Manzoni. Gli incontri interreligiosi su “La Preghiera” sono cominciati in via Spaventa 4 con un intervento per la nostra chiesa di D. Buttitta. Gennaio è cominciato purtroppo con la urgenza della sottoscrizione per le vittime del maremoto nell’Oceano Indiano (si sono raccolti circa 2000 E. che versiamo alla FCEI, che a sua volta li trasferisce all’agenzia ecumenica Action by Churches Together). Continua anche se con andamento mensile lo studio biblico del sabato sul profeta Isaia, anche i temi della predicazione domenicale fino alla fine dell’anno ecclesiastico saranno tratti da questo profeta. Sabato 15 si è tenuto il “focus-group” su Riforma a v. Manzoni per due ore del pomeriggio, molto interessanti sotto tutti i punti di vista. Domenica 16 il past. G. Platone ha tenuto un apprezzato sermone su Abacuc 3,2 “Signore, rendi viva la tua opera nel corso degli anni”. La preparazione dei due convegni per giovani e per ragazzi il 29 e 30 gennaio assorbe interamente l’ultima settimana di gennaio. E’ in fase di ultimazione il grande arazzo che sarà collocato sul fondo della Chiesa della Trinità!

A Ivrea è venuta a mancare Marina Conte, nipote del past. Gino Conte, figlia di suo fratello Giovanni: non aveva ancora quaranta anni. Ci sentiamo vicini col nostro affetto alla famiglia e chiediamo a Dio di confortarli nel loro dolore. Sono stati in ospedale Daniele Pacanosky e Sara Sansone, mentre Ernesto Olivieri pian piano riprende a camminare: auguri di buona guarigione a tutti.

Il Concistoro si riunisce il 7 febbraio alle 18.15 a v. Manzoni.

Domenica 20 febbraio culto del 17 febbraio e agape della chiesa valdese e della Chiesa Apostolica con assemblea nel pomeriggio sul “Culto”. Domenica 27 febbraio culto con predicazione del past. Giorgio Bouchard.

dalla Chiesa Luterana

Si prepara l’elezione del nuovo pastore, che avverrà nelle prossime settimane. Il past. H. Goeden dopo 7 anni torna in Germania con la sua famiglia. Gli auguriamo ogni benedizione e felicità personale!

 

in generale

Continuano gli incontri dei predicatori locali il secondo martedì di ogni mese in vIa Manzoni alle 21, seguiti dal past. Bruno Rostagno.

Riprendono gli incontri del “Dopo Lavoro Teologico” il 4° martedì di ogni mese alle 19.30 presso la Claudiana con riflessioni sul significato della Cena del Signore, a partire dal libro di M. Welker.

 

 

Calendario di febbraio

Martedì 8 alle 21 in v. Manzoni incontro dei predicatori locali.

Mercoledì 9 dalle 9.30 incontro dei pastori e responsabili in Borgo Ognissanti.

Sabato 12 “La Bibbia nella chiesa e la Bibbia fuori dalla chiesa” conferenza a due voci con Mons. Gianfranco Ravasi, prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, e il prof. Paolo Ricca della Facoltà Valdese di Teologia, a v. Manzoni alle 17 per il Centro “P.M.Vermigli”.

Domenica 13 nel pomeriggio alle 17.30 a Casa Cares (Reggello) conferenza dell’on. Valdo Spini sulla Libertà Religiosa dal 1848 ad oggi. Al termine buffet e falò.

Giovedì 17 febbraio alle 21 in v. Spaventa 4 incontro interreligioso su “La preghiera fra silenzio e parola” con G. Sciclone e E. Deidda.

Martedì 22 presso la Claudiana “Dopo Lavoro Teologico” alle 19.30 a Borgo Ognissanti.

Sabato 26 febbraio alle 17 in v. Manzoni per il Centro Vermigli conferenza della giornalista Piera Egidi su “Una famiglia valdese nella resistenza”; è l’autrice del libro della Claudiana “Frida e i suoi fratelli”, che all’occasione verrà presentato.