Grazie al lezionario Un giorno una parola il passaggio tra l’anno 2009 e il 2010 è incastonato in uno splendido quadro biblico della Prima Lettera di Giovanni.
Domenica 27 dicembre abbiamo meditato insieme l’inizio dell’Epistola (cap. 1):
Quel che era dal principio, quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi,
quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato della parola della vita
(poiché la vita è stata manifestata e noi l'abbiamo vista e ne rendiamo testimonianza […]) […]noi lo annunziamo anche a voi.
Oggi, la prima domenica dell’anno 2010, ci ritroviamo nella parte finale dello scritto giovanneo (cap. 5):
Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è maggiore;
e la testimonianza di Dio è quella che egli ha reso al Figlio suo.
Chi crede nel Figlio di Dio ha questa testimonianza in sé;
chi non crede a Dio, lo fa bugiardo,
perché non crede alla testimonianza che Dio ha resa al proprio Figlio.
Dicevo domenica scorsa che tutta la teologia della Prima Epistola di Giovanni potrebbe essere riassunta in tre parole: luce, vita e agape. Ovviamente queste tre parole sono come dei pilastri posti su un unico fondamento che è Cristo Gesù. Oggi a questo impianto aggiungiamo la parola testimonianza, martyrìa. Può sembrare strano ma questo termine, per noi cristiani assai carico di significati spirituali, appartiene al puro linguaggio giuridico. Nelle civiltà antiche l’amministrazione della giustizia era strettamente legata alla dimensione religiosa. Così si spiega più chiaramente l’uso del termine “testimonianza di Dio” nel nostro testo. Si tratta di una testimonianza e quindi di una prova inoppugnabile che non ha bisogno di altri riscontri. L’autore vuole mettere in evidenza che il suo annuncio non è fondato soltanto su testimonianze oculari degli uomini (importantissime!) ma soprattutto sulla testimonianza di Dio, cioè sulla parola che Dio rivolge all’umanità.
Vorrei dunque concentrarmi sul termine martyrìa. Prima di tutto la martyria tou theou. La cultura moderna ci ha abituati a esercitare la nostra capacità critica su tutto. Giustamente abbiamo applicato questa facoltà anche alla Bibbia, passando al vaglio della ragione letteralmente tutto il suo contenuto. A dire il vero ne è rimasto ben poco e la stessa “testimonianza di Dio” è stata messa fortemente in discussione. Correva un’altra epoca…
La società postmoderna dell’anno 2010 invece ha bisogno di riferimenti e di messaggi certi, pienamente affidabili. La degenerazione di questo bisogno è rappresentata dal neofondamentalismo religioso e dall’autoritarismo politico con i loro messaggi “certi e affidabili”, firmati dai pensatori fedelissimi al credo propagato dal leader di turno. Poi ci sono ovviamente milizie fanatiche di ogni sorta, pronte a far fuori qualunque oppositore. La mia battuta ad effetto non risolve però il problema. Il sociologo tedesco Ulrich Beck ci ricorda nel suo ultimo saggio Il Dio personale che gli assiomi su cui costruire la propria visione del mondo non possono essere imposti come succedeva nei tempi passati ma posso soltanto essere scelti tra migliaia di proposte di cui la nostra società abbonda. L’adesione ai fenomeni religiosi e politici appena menzionati è una pericolosa scorciatoia praticata da persone che non hanno mai sviluppato una capacità critica, né alcun tipo di amore, se non quello di sé stessi.
Esaminiamo dunque la testimonianza degli uomini. Il messaggio cristiano, ahinoi, fa parte dell’enorme offerta di assiomi. Anche se in Italia ci sembra che la presenza della Chiesa cattolica pervada l’intera vita sociale, non ci illudiamo: l’Italia è una società secolare alla stessa stregua di quella francese. L’enorme potere politico ed economico delle istituzioni cattoliche non migliora la situazione, anzi rende la secolarizzazione ancora più efficace e più profonda. In una società come la nostra, l’aspetto religioso non può esser visto né vissuto dall’alto. Ciò che conta veramente è la profonda convinzione interiore. Solo su questa base l’individuo può scegliere i suoi assiomi in materia di fede. Dall’altra parte invece ci può stare soltanto convincimento e mai una qualunque forma di imposizione.
Nel nostro linguaggio cristiano il convincimento si chiama appunto testimonianza. I pensatori del calibro di Ulrich Beck, Peter Berger o Gianni Vattimo sono tutti unanimi nell’affermare che il tempo delle istituzioni religiose (grandi o piccoli che siano) sta per finire. Ciò che conterà nel futuro (e conta già ora) sono comunità di fede, minoranze creative in grado di trasmettere alla società la propria esperienza interiore e un sistema di valori (parola abusata e tuttavia fondamentale) che rende possibile una convivenza solidale. Credo che questo pensiero sia particolarmente importante in questa prima domenica dell’anno in cui rinnoviamo (attingendo dalla ricca tradizione metodista) il nostro impegno davanti al Signore.
Vorrei concludere questa meditazione con le parole di Vittorio Subilia, parole che nella nostra comunità hanno accompagnato gli ultimi giorni del 2009: Certo, quando la chiesa sa quello che crede e quello che predica, il risultato non è necessariamente la conversione del mondo, anzi ci sono tutte le probabilità che sia l'indurimento del mondo, che ritorna perennemente sulla sua decisione di togliere di mezzo, di crocifiggere Colui che è venuto per essere la sua salvezza e la sua vita. Ma la nostra consegna non è interessarci dei risultati, i risultati non sono di nostra competenza.
Predicazione del pastore Pawel Gajewski, Domenica 3 Gennaio 2010, Chiesa Evangelica Valdese di Firenze