Giovanni 15,1-8
“…Senza di me non potete far nulla”
«La professione di fede della chiesa cristiana è: in
nessun altro nome c’è la salvezza che nel nome di Gesù Cristo, né è dato agli
uomini nessun altro nome, in virtù del quale possiamo diventare beati». Con
queste parole Adolf von Harnack (1851-1930), uno dei più grandi storici del
cristianesimo iniziava la sua conferenza Il cristianesimo e la
storia, tenuta a Berlino nel 1896. Le parole
dello studioso tedesco sono un chiaro riferimento al discorso di Pietro,
pronunciato davanti al sinedrio, secondo quanto è riportato negli Atti degli
apostoli 4,12. Entrambi i testi si muovono nella prospettiva del «dopo la
risurrezione». Nel libro degli Atti questa prospettiva è abbastanza evidente;
nel Vangelo secondo Giovanni viene intesa nel senso della sua generale impostazione
postpasquale. Dal punto di vista strettamente cronologico la parabola della
vite e dei tralci precede ovviamente la narrazione della risurrezione.
Non vi è dubbio che la preoccupazione principale degli autori neotestamentari è
l’unità dei credenti in Gesù Cristo. Tale preoccupazione risponde a un
determinato dato storico: le comunità cristiane non sono mai state visibilmente
unite. Come vedremo in seguito, la cosa in sé non è per nulla scandalosa nè
grave. La ragione dell’esortazione all’unità si trova invece nei più svariati
protagonismi volti a relativizzare la centralità di Cristo. Il problema
centrale di ogni forma di protagonismo ecclesiale è il tentativo di aggiungere
al cuore della dottrina cristiana le proprie teorie, ponendole sullo stesso
piano della verità rivelata. Questo espediente non è stato inventato nei tempi
moderni bensì accompagna la cristianità sin dai suoi albori.
Per questo motivo il nostro testo mette in risalto la nozione della parola: «Voi siete già puri a causa della parola che vi ho annunziata» (v. 3); «Se dimorate in me e le mie parole dimorano in voi, domandate quello che volete e vi sarà fatto» (v. 7). Il primo di questi versetti allude chiaramente al concetto della purità rituale proprio del giudaismo e della corrente giudaizzante del cristianesimo. Il secondo allude chiaramente all’efficacia della preghiera e quindi della predicazione che da essa scaturisce.
L’altro concetto è quello del frutto. Si tratta di un
concetto metaforico e come tale immediatamente comprensibile. La parabola della
vite è lungi dal teorizzare la sterilità. In altre parole la mancanza degli
effetti concreti non è un pregio dell’annuncio e dell’impegno perpetuati dalla
comunità dei discepoli. Il testo non definisce tuttavia la natura ditali frutti.
L’esortazione insiste piuttosto sul modo di ottenere tali frutti: «Senza di me
non potete far nulla» (v. 5b).
Il nostro testo getta dunque una luce particolare sul concetto dell’unità dei
cristiani. Il centro e la sorgente di tale unità è Gesù stesso. In questa
prospettiva non vi è spazio per azioni umane tese a creare o a rinforzare
l’unità. Essa è già in atto e in Gesù Cristo assume tratti di perfezione
assoluta. L’unità in Cristo non è tuttavia umanamente scontata e come tale ha
bisogno di criteri che siano di aiuto alla comunità e agli individui. Nel
nostro testo, coerentemente con tutto il messaggio del Nuovo Testamento, tale
criterio è stabilito nella fedeltà alla Parola di Dio, di cui Gesù è
l’incarnazione. La Parola tuttavia non è identificata con la dottrina.
L’ultimo film di Ermanno Olmi Cento chiodi è una bellissima meditazione laica su questa affermazione biblica. Il protagonista del film, uomo coltissimo, immerso nel mondo del sapere, scopre dolorosamente la sterilità di una conoscenza teorica, codificata sulle pagine dei libri e nella memoria del suo computer portatile. La conoscenza comincia a portare frutti soltanto nella relazione con gli atri esseri umani al punto di cambiare radicalmente la vita del giovane scienziato. La vera religione è la scelta personale di ciascuno, ha spiegato il regista in un’intervista, aggiungendo che secondo lui, è sbagliata ogni chiesa che considera il dogma più importante dell’essere umano.
La Chiesa cristiana corre tuttavia anche un altro pericolo che produce in ogni caso lo stesso effetto di diventare un tralcio secco, staccato dalla vite. Sempre Adolf von Harnack, in un’altra delle sue numerose conferenze affermava: «Anzitutto, bisogna richiamare l’attenzione sul fatto che il compito primario della chiesa rimane la predicazione dell’evangelo, cioè l’annuncio della salvezza e della vita eterna. Sarebbe la fine del cristianesimo in quanto religione, se ciò restasse in ombra e se - non importa se per demagogia o per eccesso di zelo riformatore - si trasformasse l’evangelo in un manifesto sociale».
Rimanere in Cristo, la vera vite, significa dunque non perdere di vista la trascendenza. La chiesa cristiana può e deve fare tanto per migliorare la realtà del mondo, ma il suo compito non si esaurisce nella dimensione mondana. La parola «mondo» ha nella teologia giovannea un duplice significato. Si tratta, da un lato, dell’ambiente naturale in cui vivono i credenti in Gesù Cristo, svolgendo diligentemente i loro compiti sociali. In questo stesso ambiente essi annunciano l’evangelo con le parole e con le opere della testimonianza cristiana. Dall’altro lato il mondo con le sue forze, con le lotte di potere è un luogo ostile alla persona credente. L’ostilità nasce dal fatto che il mondo, secondo Giovanni, non vuole riconoscere la signoria di Cristo. Da questo punto di vista la situazione di oggi non sembra tanto cambiata: Forse la differenza principale sta nel trionfo della banale mondanità, e non nella percezione della complessa. lotta tra Cristo e le potenze del mondo.
Alla fine di queste riflessioni ancora un particolare fatto di cronaca. Qualche
mese fa in una stazione della metropolitana di Washington ha suonato per quasi
un’ora, più o meno ignorato da tutti i frettolosi viaggiatori, Joshua Bell, uno
dei più grandi violinisti del mondo. Beil ha 39 anni e da due decenni suona le
più famose orchestre sinfoniche del mondo. Durante questo singolare concerto il
violinista era vestito in modo assolutamente comune: jeans, T-shirt e un
cappello di una squadra di baseball. Questa eccezionale performance è stata
seguita e scrupolosamente registrata da un gruppo di cronisti del quotidiano Washington
Post. Una sola persona ha riconosciuto il giovane maestro di musica, si può
facilmente immaginare con quale stupore. All’onor del vero bisogna aggiungere
che i passanti sono stati abbastanza generosi: in un’ora Bell ha guadagnato ben
32 dollari
Si possono vedere in questa storiella diversi significati. Nell’impazzita
civiltà dell’immagine e dell’evento prima di tutto contano le luci della
ribalta e le telecamere; la qualità sembra del tutto irrilevante. Solo un
bambino e qualche commerciante senza alcuna cultura musicale si sono lasciati
incantare dai meravigliosi suoni di uno Stradivari del 1710, in mano a un violinista fùoriclasse. Oggi diverse chiese cristiane amano sfruttare i meccanismi
dello spettacolo per attirare su di sé l’attenzione dei più. In Italia anche le
nostre minoranze evangeliche non sono indifferenti del tutto a simili
tentazioni. Sarebbe invece il caso di pregare che la predicazione della Chiesa
di Gesù Cristo resti sempre come la musica di Bell nella metropolitana di
Washington: eseguita in maniera perfetta senza alcuna attesa di riconoscimenti
dalle masse. Lo Spirito del Signore indirizzerà i suoi eletti verso il suono
dell’evangelo che trasforma anche gli antri più lugubri in paesaggi pieni di
luce e di colori.
Predicazione
tenuta dal Pastore Pawel Gajewski Chiesa Evangelica valdese Firenze 22 Aprile 2007