"Ritornare sulla via del Signore "

Geremia 8,4-7

Il mio popolo non conosce quel che il SIGNORE ha ordinato” (v.7).
Questo versetto riassume il messaggio del nostro breve brano biblico di stamattina. Iniziando, questa predicazione, vorrei soffermarmi subito sull’aspetto filologico di questa frase. Vi troveremo spunti particolarmente interessanti.

Dopo una lunga serie di accuse gravi che gli vengono rivolte, il popolo di Giuda continua ad essere chiamato da Dio “il mio popolo” (am’i). Questa espressione ha nella Bibbia Ebraica un significato ben preciso e legato alla teologia del Patto: il popolo è completamente sviato, il SIGNORE tuttavia rimane fedele al popolo e il percorso comune continua perché la sua continuità non dipende dal popolo ribelle bensì dal suo SIGNORE.

Il verbo jd’ esprime in ebraico sostanzialmente un concetto di carattere etico: prendere atto, prendere sul serio una cosa, riconoscerla come valida. Non si tratta di una conoscenza nozionistica bensì di una vita vissuta all’insegna di una cosa riconosciuta come vera, reale. Nei primi capitoli della Genesi questo verbo viene usato sia nel senso della conoscenza del bene e del male (Gen. 3,22) sia nel senso di un rapporto intimo volto alla procreazione (Gen. 4,1).

Il vero problema del popolo di Giuda non è dunque l’ignoranza bensì l’ostinazione di vivere secondo i propri criteri. Alla fine di questa breve rassegna spieghiamo il sostantivo mišphat (quello che è ordinato) che potrebbe essere tradotto come comandamento, precetto. Non si tratta della Legge (Torah) nel senso stretto del termine, bensì della sua applicazione concreta ai vari ambiti della vita individuale e sociale. Vediamo dunque che questo versetto riassume quasi tutto il nostro brano. In ebraico c’è ancora un gioco di parole tra tornare indietro (v. 4) e convertirsi (v. 5); si tratta dello stesso verbo šub. Da un punto di vista storico l’oracolo del profeta si rivolge contro due atteggiamenti, uno religioso e l’altro di carattere sociale. L’atteggiamento religioso denunciato da Geremia potrebbe essere definito come “innocua superstizione”. Nei versetti precedenti troviamo alcune preziose indicazioni a questo proposito: I figli raccolgono legna, i padri accendono il fuoco, le donne impastano la farina per fare delle focacce alla regina del cielo e per fare libazioni ad altri dèi, per offendermi (Geremia 7,18).

Questo breve brano denuncia una prassi abbastanza diffusa nelle regioni periferiche della Giudea. Un piccolo culto domestico, abbastanza conviviale trovava la sua collocazione accanto ai pellegrinaggi rituali a Gerusalemme e alla prassi di preghiera quotidiana. Apparentemente nulla di grave, soltanto una piccola concessione alla ritualità Cananea, così innocua e così piacevole!

Pochi versetti dopo troviamo un’altra denuncia: I figli di Giuda hanno fatto ciò che è male ai miei occhi, dice il SIGNORE; hanno collocato le loro abominazioni nella casa sulla quale è invocato il mio nome, per contaminarla (Geremia 7:30). In questo caso il problema è più serio. Anche il culto ufficiale del tempio ha assunto alcuni tratti delle superstizioni popolari, probabilmente per incentivare la partecipazione del popolo alle funzioni del tempio. A Gerusalemme nessuno è particolarmente preoccupato per questo fatto, tanto c’è l’appoggio e la certificazione dei sacerdoti su tutte le pratiche religiose che si compiono nel tempio.

Sull’altro versante ci sono problemi di natura sociale: Voi rubate, uccidete, commettete adulteri, giurate il falso, offrite profumi a Baal, andate dietro ad altri dèi che prima non conoscevate (Geremia 7:9) All’idolatria si aggiunge dunque l’ingiustizia sociale. La prima è impercettibile, la seconda è palese. Il popolo tuttavia non vuole riconoscere né l’una né l’altra.

Questo è il dramma di Geremia. Questo è il dramma di ogni predicazione profetica quando il suo messaggio si trova di fronte alla convinzione che tutto va bene. Oggettivamente niente va bene perché ognuno pensa soltanto a soddisfare i propri bisogni spirituali e materiali, trasgredendo i comandamenti dell’Eterno e schiacciando il prossimo. E poiché di solito queste imprese segnate da trasgressioni e disprezzo riescono magnificamente, i loro autori diventano soddisfatti, opulenti, convinti che bisogna proseguire su questa strada. L’Eterno sembra così lontano, così indifferente a tutto ciò che succede.

Nella prospettiva ebraica di Geremia, Dio reagisce punendo severamente il suo popolo (l’esilio in Babilonia) affinché questo popolo possa veramente convertirsi e tornare alla propria patria completamente rinnovato. Nella prospettiva cristiana, Dio in Gesù Cristo si schiera dalla parte degli oppressi e schiacciati. Al tempo stesso la concretezza storica della vita di Gesù è il migliore rimedio a tutte le forme di idolatria spiritualistica.

Noi, tuttavia corriamo lo stesso rischio degli abitanti di Giuda ai tempi di Geremia. Corriamo il rischio di non riconoscere il nostro stato di peccato, corriamo il rischio di autogiustificazione, corriamo il rischio di identificare la celebrazione del proprio io con il culto reso a Dio. Eliminare questo rischio significa talvolta fare un’esperienza dolorosa di fallimento, significa vedere strappate le complicate trame che abbiamo tessuto per tutelare i nostri interessi e far emergere il nostro potere. Affidiamoci dunque al Signore affinché Egli elimini ogni rischio di egocentrismo e di autoreferenzialità, apriamoci all’azione del Suo Spirito affinché la nostra conversione sia un ritorno sulla via che ci è stata indicata nella persona e nell’opera di Gesù.

Predicazione del pastore Pawel Gajewski, Domenica 18 Novembre, Chiesa Evangelica Valdese di Firenze