II Corinzi 5,6-10

Punizione e speranza

La cosa che va chiarita subito è l’uso del pronome personale “noi”. Bisogna fare molta attenzione per applicarlo immediatamente al “noi” della comunità che ascolta l’esposizione di Paolo oppure al “io” di chi legge in privato il testo dell’epistola. Il “noi” di Paolo equivale nel nostro testo all’io narrante, in altre parole è Paolo che parla di se stesso. Quando Paolo vuole dire “noi tutti” lo fa in maniera molto chiara, pantas hêmas, come vediamo al v. 10. Si tratta di uno dei versetti che creano più problemi per la teologia evangelica e quindi la nostra breve meditazione si concentrerà proprio su questo versetto. Tuttavia proviamo prima a vedere insieme alcune cose interessanti che il nostro testo ci offre.

La prima di queste si trova già nel versetto 6. Si tratta di un gioco di due verbi greci, unico nel suo genere e unico in tutto il nuovo testamento: endêmein ed ekdêmein. Per l’esattezza bisogna dire che entrano in gioco i prefissi dei due verbi. Ma ora basta con queste sottigliezze filologiche! Questi due verbi significano propriamente «stare in seno al suo popolo» e «stare fuori del suo popolo» in paese forestiero; in senso lato: «essere a casa» ed «essere fuor di casa». Paolo asserisce qui una cosa fondamentale (e sconcertante!) per la fede cristiana: la vera dimensione in cui si manifesta il popolo di Dio è quella che sta oltre il confine della morte. Finché siamo nell’aldiquà siamo sempre forestieri. Il versetto successivo aggiunge una nota di commento: viviamo per fede e non per visione. Probabile che siano stati i redattori succeduti a Paolo ad aggiungere questa precisazione. La fede ci proietta già in una dimensione che ancora non possiamo vedere.

Ritorniamo ora al v. 10 che ha tutte le sembianze di una pesante minaccia: saremo retribuiti in base alle nostre azioni compiute in questa vita. Certo che tale annuncio abbinato al pensiero sulla morte non può che trasformare quest’ultima in una terribile minaccia. Perché? Perché ognuno e ognuna ci rendiamo conto che le nostre malvagità sono superiori a tutte le opere buone che riusciamo a compiere qualche volta.

Allora dopo la morte ci aspetta una severa punizione e non un premio? Il testo greco non ci autorizza affatto a diffondere tale ingiustificata preoccupazione. Il testo greco parla delle cose praticate “attraverso il corpo” ma non vi è alcun verbo al passato. In altre parola il giudizio e la sentenza sono sperimentabili già ora. Jean-Paul Sartre ebbe a dire che l’inferno sono gli altri intorno a noi. Sembra paradossale ma il pensiero particolarmente laico, anche se non insensibile alle problematiche religiose, come quello di Sartre, esprime bene il concetto del nostro testo. La retribuzione per il male commesso avviene in questa dimensione dell’esistenza. Attenzione però, non parliamo della giustizia retributiva secondo le nostre “visioni” umane. Qui entra in gioco la fede. Tuttavia basta visitare le zone della Campania (e non solo) descritte da Roberto Saviano per capire che l’inferno esiste ed è anche molto vicino alle nostre tranquille abitazioni; in questo inferno ci sono però tanti angeli in carne e ossa, gente di fede e di speranza che opera per il bene di tutti. Stamattina, grazie a Valerio Cheli possiamo ricordare una di queste persone.

Lunedì sera su di un suo campo di battaglia moriva Miriam Makeba, “mama Afrika”. Il suo vero nome era Zensile Makeba Qgwashu Nguvama Yiketheli Nxgowa Bantana Balomzi Xa Ufnu Ubajabulisa Ubaphekeli Mbiza Yotshwala Sithi Xa Saku Qgiba Ukutja Sithathe Izitsha Sizi Khabe Singama Lawu Singama Qgwashu Singama Nqamla Nqgithi. Che questa trascrizione sia il nostro personale omaggio all'Africa.

Ci ha lasciato con i suoi meravigliosi ritmi, una “grande” dei nostri tempi, sempre alla testa - fino all'ultimo - delle battaglie per l'affermazione dei grandi valori di uguaglianza, giustizia e solidarietà. Quella parte di umanità che spera in un mondo migliore non può che esserle profondamente grata e riconoscente per tutto quello che Miriam Makeba ci ha regalato con la sua vita e la sua opera.

Era a Castel Volturno a rendere omaggio a quei sei africani uccisi dalla camorra. Era a Castel Volturno per ricordare Domenico Noviello, imprenditore ucciso dalla camorra per non avere pagato il pizzo. I più vecchi la ricordano come l'eroe della lotta all'apartheid in Sudafrica. Perseguitata in patria, una patria senza nome (il vero nome africano è Anania), per sopravvivere deve venire in Europa e poi in America. Vi portava la voce dei derelitti, e si univa simbolicamente, e poi ne raccoglieva l’eredità, ad un altro eroe di quel tempo morto sul campo, Martin Luther King, ucciso per difendere i soliti diritti. Miriam non aveva avuto paura ad affrontare un mondo difficile, aveva usato la sua voce per portare nel mondo le sue battaglie.

Ha voluto cantare scalza come tanta della sua gente, anche se febbricitante. Era a Castel Volturno per sostenere la lotta e l’impegno di Roberto Saviano. Ed è a lui che si rivolge con queste parole: “È un giovane scrittore coraggioso ma, come succede in ogni grande causa in ogni parte del mondo, chi parla rischia di essere zittito con la forza”. Ecco perché bisogna reagire: “La musica ha un grande ruolo in tutto ciò, un enorme valore, così come la scuola; è giusto parlare ai bambini, raccontargli di valori universali, affrontando le questioni del Paese in cui vivono”. Così la vogliamo ricordare.

Predicazione tenuta dal pastore Pawel Gajewskie da Valerio Cheli domenica 16 Novembre 2008, Chiesa Evangelica Valdese di Firenze