Essere sopra la legge, anzi trasformare in legge i propri desideri, sottomettere fisicamente e psicologicamente le persone dell’ambiente circostante. Sono i rischi che corre ogni persona che riveste un importante ruolo sociale e/o dispone di ingenti risorse materiali.
Davide corrisponde perfettamente a questo profilo. Non solo. È il momento più alto della sua carriera. Gerusalemme è stata conquistata, l’Arca dell’alleanza vi è stata solennemente insediata, Davide è stato riconosciuto re da tutte le tribù d’Israele, gli sono nati persino sei figli maschi da sei donne diverse (II Sam. 3,1-3). Proprio in un momento così egli viene travolto da una passione fortissima verso la Bat-Sceba, moglie di Uria, l’Ittita.
Questa storia è alquanto squallida: adulterio e omicidio premeditato di un uomo puro e innocente. Nella versione poetica di questa storia raccontata dal profeta Natan lo squallore è mitigato dalla bellezza delle immagini usate. La sostanziale differenza tra la fiaba e la realtà è che Davide ha giocato con la vita di tre presone: Uria – questo è evidente, Bat-Sceba e il bambino, frutto di questa relazione adultera. Ben più di un’agnellina!
L’oracolo del profeta, infatti, è particolarmente duro: Tu hai fatto uccidere Uria, l'Ittita, hai preso per te sua moglie e hai ucciso lui con la spada dei figli di Ammon. Davanti a Dio nessuno è sopra la legge, l’adulterio e l’omicidio devono essere puniti. Ci sconvolge non poco la punizione inflitta: la morte di un bambino, inconsapevole e innocente. Nell’impianto narrativo questa morte, umanamente così assurda, mette in evidenza la tragica verità che il seminatore di morte è proprio Davide. Non c’è qui un Dio vendicativo. C’è invece l’uomo che ha seminato violenza e morte, quindi si ritrova inevitabilmente colpito dal frutto della sua semina.
In tutta questa storia scorgiamo tuttavia un altro aspetto. Il secondo figlio che nascerà dall’unione tra Davide e Bat-Sceba sarà Salomone (v. 24), il più potente re d’Israele, costruttore del tempio di Gerusalemme. A viste umane tutto questo non ha senso. In una prospettiva teologica creata dal cosiddetto autore Deuteronomista questa storia è molto carica di significati. Il Deuteronomista è un convinto sostenitore della dinastia di Davide. Questo sostegno scaturisce tuttavia da un presupposto teologico in cui viene riconfermata la sovranità di Dio sul suo popolo; Davide, infatti, viene scelto direttamente da Dio, differenza di Saul, il primo re, eletto durante un’assemblea del popolo. Il Deuteronomista tende tuttavia a mettere in evidenza la fallibilità umana dei re, Davide e Salomone in testa.
L’enfasi posta sulle debolezze umane dei sovrani serve per mettere in evidenza l’assunto fondamentale: l’unico vero (e infallibile!) sovrano d’Israele è il Signore. Si potrebbe fare qui un paragone con la teologia della grazia esposta magistralmente da Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi. Possiamo citarne il celebre versetto 4,7: Ma noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra, affinché questa grande potenza sia attribuita a Dio e non a noi.
All’apice di tale teologia si trova ovviamente il Cristo crocifisso, la cui regalità è fondata nell’ubbidienza radicale Dio, fino alla morte. Ritornando all’inizio di questa meditazione vorrei concluderla con alcuni spunti di riflessione sull’argomento “potere”. È un argomento che si discute spesso e volentieri, in particolare in Italia di questi tempi. Quasi istintivamente associamo al potere connotati piuttosto negativi: oppressione, sottomissione, dominio. Davide è un perfetto esempio di tutto questo. Nel suo esercizio del potere egli dimostra però una capacità assai rara: quella di riconoscere la trasgressione compiuta, di pentirsene e di accettare la punizione: Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore».
Perché lo fa? La risposta è contenuta nella brevissima confessione appena citata: perché egli crede realmente, perché in fin dei conti riconosce la sua sottomissione al Signore. Questa sottomissione di un sovrano o di un governante al Signore è stata messa in risalto dal movimento puritano che nel corso del Seicento ha cambiato radicalmente anche il panorama politico dell’Europa. L’esigenza di ritornare ad una società in cui ci sia posto per un potere che appartenga a un ordine sovrannaturale, di una garanzia suprema di tutte le leggi umane è oggi invocata da diversi intellettuali, basterebbe citare qui Jürgen Habermas e la sua recente disputa con Eugenio Scalfari sul ruolo della religione nella società di oggi.
Va da sé che i nostri governati non possono essere eletti in chiave religiosa, anzi i più grandi abusi nell’esercizio del potere sono stati compiuti nel nostro paese da politici che si proclamavano cristiani. Però non è questo il punto. Il punto è la missione profetica, quella di Natan appunto. La missione di coloro che senza paura, senza condizionamenti politici si mettono di fronte al potente di turno che abusa del suo potere per dirgli: Tu hai commesso una grave ingiustizia. Su questa missione dobbiamo meditare perché siamo chiamati a svolgerla. La coerenza e efficacia con cui la svolgeremo dipende tuttavia esclusivamente dall’intensità della nostra preghiera e della profondità con cui mediteremo la Parola di Dio.
Predicazione tenuta dal pastore Pawel Gajewski, Domenica 3 agosto 2008, Chiesa Evangelica Valdese di Firenze