Il tema del sacerdozio occupa nell’Epistola agli Ebrei il posto centrale. L’argomento viene introdotto nel capitolo 4 e termina nel capitolo 10 sicché la maggior parte dell’Epistola ruota intorno a questo argomento. Dal punto di vista storico la ragione di questo discorso è piuttosto semplice. L’Epistola agli Ebrei viene redatta e divulgata dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme avvenuta nel 70 d.C. Questo scritto può essere considerato l’ultimo grande tentativo di convertire alla fede cristiana il Popolo della Promessa. Si tratta, infatti, dello scritto più “ebraico” dell’intero Nuovo Testamento. L’Epistola agli Ebrei non solo è assai carica di citazioni delle Scritture ebraiche ma si muove in sostanza dentro un paradigma religioso ebraico: tempio – sacerdote – sacrificio. L’autore o gli autori inseriscono all’interno di questo paradigma contenuti puramente cristiani, la centralità di Cristo, il valore salvifico, unico e irrepetibile del suo sacrificio, la centralità della fede.
In tutto ciò avviene però un passaggio linguistico assai determinante per l’intero impianto teologico del cristianesimo: viene introdotta nel linguaggio cristiano la terminologia sacrificale, propria dell’ebraismo e presente anche nell’intero universo religioso dell’epoca. Da quel momento tale terminologia e la prassi ad essa legata cominciano a farsi sempre più spazio nelle comunità cristiane fino al punto in cui la celebrazione della Cena del Signore comincia ad essere percepita come atto sacrificale e l’officiante assume tutti i tratti del sacerdote veterotestamentario. È impossibile stabilire con precisione la data esatta di questo passaggio. Il fatto è che quando il cristianesimo comincia ad avvicinarsi progressivamente all’impero (dal 313 in poi) questo modello sacrificale (e sacerdotale v’è già presente).
Mi permetto qui una digressione di tipo storico. Ci ricordiamo di sicuro dell’imperatore romano Flavio Claudio Giuliano che regnò negli anni 360-363. L’apologetica cristiana lo bollò come “Apostata”. Leggendo i suoi scritti, studiano la storia romana del periodo si scopre invece che nel suo regno vi fu tolleranza nei confronti di tutte le religioni, comprese le diverse dottrine cristiane. Nel suo scritto Contro i galilei, vi è la tesi secondo la quale la dottrina cristiana costituisce il prodotto di una macchinazione, un'eresia del giudaismo diffusa da una minoranza di ebrei che si erano distaccati dalla loro tradizione, legata ormai alla centralità delle Scritture per praticare riti sacrificali di dubbia qualità. Fine della digressione.
Ritorniamo al nostro testo. Al versetto 4 leggiamo: Avendo dunque un grande sommo sacerdote, in greco ‘echontes oun archierea megan’. C’è in questa frase una curiosità linguistica: archiereos significa già di per sé “sommo sacerdote”, oppure letteralmente “arci-sacerdote”. La lingua ebraica non conosce questo tipo di costruzione e quindi per esprimere lo stesso concetto aggiunge al sostantivo ‘kohen’ (sacerdote) l’aggettivo ‘gadol’ (grande). L’espressione greca usata nel nostro testo è dunque ridondante. Credo però che non si tratti di un errore o di un ebraismo mal usato. Sono convinto che questa espressione voglia mettere in evidenza il ruolo speciale, unico di Cristo, la cui funzione è imparagonabile a qualunque sacerdozio umano e il cui ministero è spirituale completamente slegato da qualunque autorità secolare (all’imperatore Giuliano piacerebbe questa visione del sacerdozio cristiano).
L’idea del sacerdozio ministeriale, legato al potere temporale si è però diffusa ampiamente nel cristianesimo al punto che anche i Riformatori del Cinquecento non hanno osato metterla in discussione ma l’hanno semplicemente allargato parlando del sacerdozio universale. Quest’ultima categoria genera tuttora tanti equivoci che non voglio affrontare in questa sede. Vorrei soltanto sdoganare un termine latino che alle nostre orecchie protestanti suona assai male: pontifex maximus. Alla luce della parola di Dio l’unico pontifex maximus è Cristo Gesù che ha edificato un ponte incrollabile tra noi e Dio.
Qualche volta penso però che una delle possibili interpretazioni del sacerdozio universale potrebbe essere proprio questa: diventare, noi tutti, edificatori di ponti. Ponti tra terra e cielo, ponti tra un essere umano e l’altro, costruttori di relazioni e di comunità in cui “trovare un senso a questa vita”.
Predicazione del pastore Pawel Gajewski Domenica 21 Febbraio 2010, Chiesa Evangelica Valdese di Firenze