Rom. 5, 1- 5 "...ci gloriamo anche nelle afflizioni"
Le vicende tristi di molte persone che ci sono vicine e familiari in
questi giorni ci fanno scoprire con sorpresa questo versetto
all'interno di uno dei "testi forti" dell'apostolo Paolo, uno dei testi
fondanti della giustificazione per fede. Siamo abituati alle
esortazioni a sopportare le afflizioni, ma di lì a gloriarcene
ce ne vuole... A meno che non si dia un valore salvifico alla
sofferenza e ce la si procuri perfino quando non c'è, ma si deve
pensare allora che la grazia di Dio non è sufficiente a salvarci
e che occorra la nostra sofferenza per completarla? Non è questo
il pensiero dell'apostolo Paolo, che qui descrive con forza quanto sia
efficace la grazia di Dio alla quale Cristo ci ha procurato l'accesso.
L'accesso alla grazia è come una porta che si apre in fondo a un
corridoio cieco; è qualcuno che ci accompagna ad esser
ricevuti da un Ministro o un alto funzionario che ci darà il
permesso di soggiorno, che ci permetterà di lavorare in un paese
straniero, o di esser curati da una terribile malattia in modo da
salvare la nostra vita. Nell'immaginario tutti abbiamo ancora Dio
come un gran re seduto sul trono con i suoi dignitari e Gesù
come primo ministro che ci accompagna e ci presenta a sua
Maestà. Forse spingendo un po' l'immagine si potrebbe aggiungere
che ci ha rivestito di abiti adatti a questa presentazione, mentre noi
eravamo dei cenciosi mendicanti in mezzo alla strada; forse ci ha dato
i suoi stessi vestiti!
Lo schema religioso classico, rispecchiato spesso nei Salmi, è :
sono afflitto e misero - ho gridato al Signore - egli mi ha soccorso e
liberato - perciò ora ne do testimonianza - mi glorio nella sua
potenza - attendo di partecipare alla sua gloria. Qui in Paolo lo
schema potrebbe essere: mentre eravamo senza forza, empi (v.6),
peccatori (v.8), nemici (10) - Cristo è morto per noi -
perciò abbiamo accesso alla grazia - ed ora resistiamo e ci
gloriamo - anche nelle afflizioni - e l'amore di Dio è sparso
(innaffiato) nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo. C'è una
sottolineatura in più dell'opera di Dio in Cristo, gratuita,
immotivata. Paolo la argomenta: per un parente, per un giusto uno
potrebbe anche morire, ma Dio mostra la grandezza del suo amore per
noi, perché Cristo muore per noi, deboli, sconosciuti,
colpevoli, nemici.
Il nostro testo è molte volte attraversato dal "per noi" che poi
risuona nel Credo ("per noi e per la nostra salvezza..."), che
significa a causa nostra, al posto nostro o in nostro favore. E' una
delle formulazioni più importanti del Nuovo testamento. Anche
Gesù nella Cena dice ai discepoli: "Questo è il mio
corpo, che è dato per voi" (Lc.22,19); "Questo è il mio
sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti"
(Mc.14,24). A causa nostra muore l'innocente, perché viene
tradito, abbandonato, perché nessuno lo difende. Al posto nostro
Gesù muore per i nostri peccati. Si è spesso intesa
questa espressione nel senso che la morte di Gesù è un
sacrificio reso a Dio, che lo accetta. E' una delle spiegazioni della
croce, oggi sembra più urtante, perché fa essere nel
nostro immaginario Dio un tiranno crudele che non può cambiare
le leggi della storia.
In realtà il NT risuona del messaggio di Dio che si identifica
in Cristo, e che in lui si dona senza risparmio, perché noi
riceviamo nuova vita e muoriamo con lui alla nostra stessa
crudeltà o indifferenza. Se l'idea di sacrificio ci affascina
ancora, dobbiamo ricordare che quello di Gesù deve essere
l'ultimo, conclusivo di un'epoca nella quale si pensava avvenisse lo
scambio con Dio tramite sacrifici. In nostro favore muore Gesù
affinché passiamo come attraverso di lui per giungere al Padre,
e Gesù fa da porta, da ponte, da garante. Morire per una grande
causa può valer la pena; è quello che pensano i giovani
kamikaze che si immolano per la patria o per la libertà dei loro
territori e delle loro famiglie. Ma non nasce nuova vita dalla loro
morte: una morte per odio produce altro odio e desiderio di vendetta.
Solo la morte per amore serve alla vita e fa sbocciare la speranza.
Lo straordinario dell'Evangelo è che Gesù non muore per
le persone per bene (gli uomini di buona volontà), nelle quali
anche noi ci definiamo; questa è la parte più urtante
dell'Evangelo sapere che Gesù muore per persone assolutamente
indegne (traditori, mafiosi, prostitute). Lutero ha capito bene il
cuore del messaggio evangelico quando dice che avviene un benefico
scambio, per cui i nostri peccati sono portati da Cristo e a noi
è attribuita la sua obbedienza e virtù.
Nella grazia stiamo e ci gloriamo. Il verbo è quello della
resistenza, alla quale spesso l'apostolo si richiama. A volte aggiunge
"state saldi", senza cadere, ma anche senza affannarsi a fare opere
degne della grazia. La fede è in realtà un "vuoto" (ha
scritto K. Barth nell'indimenticabile commentario alla Lettera ai
Romani) che solo Dio può e deve colmare. Noi ci affanniamo
continuamente a riempirlo di nostri progetti e anche di buona
volontà con le nostre opere, ma intralciamo quasi l'opera di Dio
che si manifesta "perfetta nella debolezza". Noi partecipiamo in
speranza alla gloria di Dio, che è appunto di Dio e non nostra;
e si conserva tale se manteniamo la distinzione tra Dio e noi e se lo
lasciamo operare alla sua maniera.
Ecco perché possiamo gloriarci anche nelle afflizioni,
perché Dio opera in esse la nostra resistenza e la nostra
speranza. Partecipare alla gloria di Dio, perché abbiamo visto
l'esaudimento dei nostri desideri è il nostro modo di concepire
la fede, sempre alla ricerca di punti fermi e di assicurazioni; ma
queste non mantengono vuoto il posto per la gloria di Dio. Non vogliamo
desiderare o procurarci le afflizioni come se fossero un aiuto alla
salvezza. In questo caso sarebbe come dire che la croce di Cristo non
basta! Le sofferenze ci saranno sempre nella nostra vita terrena,
qualche volta ci sembreranno meno sopportabili; allora sentiremo
più vicina la gloria di Dio nella speranza.
L'apostolo elenca una serie di cause ed effetti: l'afflizione produce
pazienza, la pazienza esperienza e l'esperienza speranza. Non è
esattamente quello che di solito ci accade; anzi di solito l'afflizione
in noi produce impazienza, perché a buona ragione vorremmo che
fosse già finita, quando è appena incominciata; raramente
accresciamo le nostre conoscenze, e facciamo esperienza di noi stessi,
del mondo, del tempo in cui viviamo. In effetti quando questo avviene
ci sembra già di aver superato l'afflizione stessa... E infine
ben di rado si passa dalla pazienza all'esperienza e dall'esperienza
alla speranza. Molto più prosaicamente l'esperienza del dolore,
della delusione, della solitudine ci rendono esacerbati, senza
speranza, senza più attese e fiducia nel futuro.
Non è questa la vita della fede che ci è donata in
Cristo: Dio stesso effonde su noi il suo amore (come si innaffia) per
far crescere in noi la pianta della speranza, che è come un
anticipo a partecipare alla sua gloria; un anticipo già
immediato e reale, che ci permette di resistere, di aver pazienza, di
fare esperienza della nostra storia e di partecipare da subito alla
gloria di Dio. Cosa vuol dire partecipare alla gloria di Dio? E' la
beatitudine del vivere nell'amore di Dio e del prossimo, come se...
fossimo sani, quando siamo malati, amati quando siamo infelici,
perdonati quando siamo colpevoli, giustificati quando ci sentiamo
reietti. Nulla è troppo poco o troppo ripugnante per il nostro
Creatore che non possa prendere su di sé per farne un capolavoro
e noi siamo il vaso che sarà la sua opera più bella
(come un vaso quando si scheggia, ma il vasaio lo reimpasta e della
fessura che si è creata fa un bellissimo disegno).
Non abbiamo bisogno di andarcele a cercare le afflizioni e possiamo
finché è possibile godere della buona creazione di Dio,
ma quando ci avvengono chiediamo a Dio di imparare a gloriarci di
quanto lui farà in noi stessi e nella nostra storia.