Romani 14,7-9

Morire per vivere



Non mi ricordo quante volte ho predicato su questo testo durante i funerali. Tante… qualche decina di si sicuro. Si tratta di un “classico”, di un brano che esprime in maniera sintetica il messaggio di speranza annunciato nell’evangelo. Stamattina non vorrei però riciclare pensieri detti in circostanze di lutto. Credo che questo brano indichi prima di tutto una visione morale e un cammino da percorrere.

La visione morale è proposta in una maniera assertiva: Nessuno di noi, infatti, vive per sé stesso, e nessuno muore per sé stesso. La nostra sensibilità linguistica e la nostra etica richiederebbero in un discorso come questo un’esortazione e un congiuntivo: nessuno viva per sé stesso, nessuno muoia per sé stesso. Una forma assertiva stride profondamente con la nostra percezione della realtà. Intorno a noi tutto e tutti affermano l’esatto contrario della frase di Paolo. Nel nostro mondo ognuno vive per sé stesso e cerca di eliminare in tutti i modi il pensiero e la realtà della morte. Nella visione sostenuta da Paolo la morte biologica è una realtà del tutto naturale, anzi irrilevante. La vita biologica e la sua fine naturale non hanno importanza. Tutto questo è possibile però in una dimensione in cui non c’è più spazio per il nostro io, per la nostra autoreferenzialità, per il nostro “essere curvi” e concentrati esclusivamente sulla nostra esistenza.

Nel testo compare la parola “Signore” (Kyrios) come riferimento di un’esistenza piena completa in cui la vita e la morte sono relativizzate. Si potrebbe discutere se questo termine si riferisca a direttamente a Dio oppure a Gesù. Il contesto sembra suggerire la seconda opzione. A me piace invece tradurre (concettualmente non filologicamente) il termine Kyrios con la parola “Altro”, ovviamente con la “A” maiuscola. Kyrios è colui che domina su tutto in modo assoluto. Ognuno deve avere il suo Signore. La domanda quindi che ognuno deve porsi è la seguente: chi è il mio Signore? Temo che nel profondo del cuore la risposta sia sempre, o almeno spesso la stessa: Io. Io sono il mio Signore e ci tengo assai alla mia sovranità assoluta, anzi, cerco di allargarla a tutti gli altri che ruotano intorno a me.

La prospettiva cambia radicalmente quando sono capace di dire che il mio Signore è l’Altro. Questa alterità significa sia l’apertura verso la trascendenza sia verso il nobile altruismo che è tanto raro nella nostra società. Ovviamente non si tratta di vivere la propria vita ponendosi la domanda “Che cosa diranno gli altri di me?” Porsi troppo spesso questa domanda, può essere indicatore di una terribile forma di egocentrismo. Nella prospettiva di un eterno legame con colui che spezza le catene dell’egocentrismo la domanda sul giudizio degli altri diventa quasi irrilevante perché lo sguardo punta oltre i giudizi del momento, favorevoli o sfavorevoli che siano. Quasi tutto il capitolo 14 della lettera ai Romani parla, infatti, dei giudizi, delle contese delle liti che sorgono intorno alle valutazioni dei determinati comportamenti per lo più di natura rituale.

Fin qui la visione morale. Ma qual è la via che il testo vuole indicarci? L’ultimo versetto del nostro testo menziona chiaramente la morte e la risurrezione di Cristo. Si tratta, infatti, del cuore dell’annuncio cristiano. La morte e la risurrezione di Cristo testimoniano chiaramente che la trasformazione della mia esistenza sia possibile. Non solo. Tale trasformazione è già in atto. Ovviamente tutto questo secondo i “tempi di Dio” per menzionare il noto saggio di Vittorio Subilia. Qui arriva però il punto più duro dell’intero ragionamento. Bisogna morire. Non si tratta però della morte biologica. Si tratta di morire molto prima.

Fate dunque morire ciò che in voi è terreno, leggiamo in Colossesi 3,5. Si tratta di una “morte assistita”, di una sorte di eutanasia interiore che on dipende in alcun modo dai nostri sforzi. È però un processo che il più delle volte fa molto male. Far morire il proprio io per far posto all’Altro è spesso un processo traumatico. Il trauma è però necessario per guarire per aprirsi alla Vita.

Il nostro io nuovo e vero (che è di Cristo e anche nostro, e nostro perché Suo), come afferma C. S. Lewis nel suo celebre saggio “Il cristianesimo così come’è”, non verrà fin tanto lo cerchiamo. Verrà quando cominciamo a cercare il Signore della nostra intera esistenza, l’Altro che ci viene incontro. Cercando l’Altro, aprendosi all’Altro comprenderemo pienamente la potenza trasformatrice del Grande Comandamento: Ama il Signore, ama il prossimo.

Predicazione del Past. Pawel Gajewski, Chiesa Valdese di Firenze, Domenica 7 Novembre 2010