Ebrei 4,12-13

La Parola che salva

 

Gesù Cristo, quale ci è stato attestato nella sacra Scrittura,
è l'unica parola di Dio che noi dobbiamo ascoltare e in cui
dobbiamo confidare e ad essa dobbiamo ubbidire in vita e in morte.

Ho scelto questa citazione tratta dalla Dichiarazione teologica di Barmen perché la considero la migliore esegesi del testo indicato per la predicazione di stamattina. Nell'ottica della fede cristiana la parola di Dio è identificabile prima di tutto con Cristo Gesù, parola incarnata. Il termine “parola” diventa così sinonimo del vocabolo “persona”. La persona di Cristo Gesù, una presenza viva e operante nella sua Chiesa. Eppure il termine greco “logos” ci fa pensare piuttosto a concetti, discorsi, asserzioni, definizioni... Tutto questo viene però dopo. Dopo aver riconosciuto Gesù Cristo come l'unica parola di Dio. Ed è proprio questa Parla a creare la Chiesa (Ecclesia creatura verbi) e a incidere attraverso la Chiesa sulla storia umana.

La nostra sensibilità protestante ci fa percepire la presenza della parola di Dio in particolare durante la predicazione. Ha ragione chi afferma che la predicazione è la parte centrale e fondante dell'intero culto evangelico. Eppure la predicazione è anche un atto creativo puramente unano, simile all'opera di un insegnante, un magistrato o un letterato. Richiede studio e competenza, capacità di articolare il pensiero attraverso la comunicazione orale e anche per mezzo di quella scritta. In linea di massima si tratta di un lavoro che richiede diverse ore di fatica. Accanto a questo aspetto umano si profila la dimensione spirituale, ovvero sovrannaturale della predicazione. In questa dimensione c'è un'unica regola, quella di affidarsi alla guida dello Spirito di Dio. Non si possono quantificare in alcun modo la preghiera e la tensione spirituale legate alla preparazione di un sermone. Non si possono quantificare perché in fondo non si tratta di qualcosa che sia facile da definire, qualcosa in cui entra in gioco l'Altro con tutto il carico di significati dati a questo termine da Martin Buber e Karl Barth.

Nella seconda parte di questa meditazione vorrei però riflettere su un argomento assai più semplice: le attese legate alla predicazione, in altre parole: cosa ci si aspetta dalla predicazione. È un quesito assai semplice quanto alla sua formulazione, estremamente difficile invece quando ci rendiamo conto che si tratta di un cosa che possiamo considerare res stantis et cadentis Ecclesiae.

Cominciamo dalle attese umane di chi predica. Sono convinto (parlo di me) che la prima di queste sia la semplice gratificazione per il lavoro svolto: un apprezzamento, un complimento, un commento gentile. La seconda attesa umana è senz'altro il desiderio di incidere in qualche modo sul modo di pensare e di vivere dell'uditorio. Una reazione concreta, un progetto, una mobilitazione di fronte a un'emergenza, anche questo io aspetto dalla mia predicazione.

Che cosa si aspettano invece gli uditori? Non penso che ci sia un'unica risposta. Sul piano individuale ogni persona ha le proprie attese umane che dipendono sempre dalla situazione esistenziale in cui si trova. Quanto alle attese umane della comunità provo a buttarla sulla battuta: importante che la predicazione sia breve e comprensibile senza la necessità di consultare continuamente lo Zingarelli.

Non sono un manicheo che disprezza l'aspetto umano, anzi carnale della nostra esistenza e quindi non vedo nulla di male in tutte queste aspettative umane. Esse diventano pericolose quando raggiungono livelli esagerati. Esattamente come succede con il vino un bicchiere o due creano una bella atmosfera durante il pasto, una o due bottiglie possono provocare un disastro.

Abbandonando il piano umano diventa ora necessario rispondere alla domanda: qual'è il significato assoluto della predicazione?

Semplificando un po': che cosa si aspetta Dio dalla nostra predicazione della sua parola?

Alla luce del testo Ebrei 4,12-3 la riposta può essere solo questa: la verità, niente altro che la verità su di noi e la verità sulla sua opera in mezzo di noi. Far emergere la verità è un'operazione assai dolorosa. Non esiste un'anestesia in grado di mitigare o di far sparire questo dolore. Perché si tratta di una verità terribile, la verità sul nostro orgoglio, sulla nostra prepotenza, sulla violenza, sull'odio che coviamo nel profondo dei nostri cuori. La verità insomma sulla nostra malvagità, sul nostro peccato.

Ci sono due possibilità di fronte a questa verità: rifiutarla oppure scendere nella profondità del dolore che non di rado diventa anche fisico. Ma solo in fondo a quel dolore possiamo incontrare il volto sorridente e rassicurante di Dio che guarda con compassione al nostra sofferenza per curarla e per affermare con le stesse parole rivolte da Gesù alla donna che “aveva perdite di sangue da dodici anni”: «Figlia mia, la tua fede ti ha salvata; va' in pace e sii guarita, dal tuo male» (Marco 5,34).

Predicazione del pastore Pawel Gajewski Domenica 7 Febbraio 2010, Chiesa Evangelica Valdese di Firenze