Nel 1557 il tipografo ginevrino Conrad Badius terminava la stampa di un ponderoso volume di 237 pagine in 4° firmato da Giovanni Calvino e intitolato Sermons sur les dix commandemens. Queste mie note sono invece composte di qualche decina di righe, il che fa vedere chiaramente la differenza tra i due approcci al decalogo.
L’espressione “tutte queste parole”, con la quale si apre il nostro testo non è un semplice incipit; nelle versione essa ebraica indica la totalità, la completezza; in pratica “le parole” di Dio vanno sempre prese come un’unità organica in cui non ci sono ‘devarim’ (il termine ebraico per dire “parole”) che hanno più importanza, mentre le altre possono essere tranquillamente messe in secondo piano. Questa è la Legge, la Torah dell’Eterno che non può essere spezzata.
Qualche volta a questo proposito mi chiedo, perché in alcune chiese cristiane si insiste tanto su alcune questioni riguardanti la sessualità, l’affettività, mentre le altre questioni riguardanti i rapporti patrimoniali (non rubare, non desiderare cosa alcuna del tuo prossimo!) o l’amministrazione della giustizia (non pronunziare falsa testimonianza!) scendono in secondo piano. Ho la sensazione che la ragione si trovi nell’esaltazione inconscia dei nostri più profondi tabù che sono legati proprio alla sessualità, ma questa non è proprio la volontà di Dio.
Spesso e volentieri si afferma che i contenuti della cosiddetta seconda tavola esprimono le principali norme comportamentali, comuni a tutti gli esseri umani. Numerose ricerche nel campo storico e di antropologia culturale confermano questa tesi. Nell’ottica della fede ebraica (e quindi anche di quella cristiana) tali norme comportamentali provengono da Dio stesso; anzi è la sua volontà che gli esseri umani si comportino in un certo modo, evitando alcune azioni e praticandone altre. La validità delle norme tuttavia non è basata su una qualche forma di esperienza codificata in seguito a un processo di elaborazione, bensì sulla rivelazione positiva di Dio. Sul piano sociologico e psicologico e filosofico si può affermare l’importanza dell’esperienza, sul piano teologico si deve dare precedenza alla rivelazione.
Veniamo ora alla domanda cruciale: la Legge espressa nelle “Dieci parole” è ancora pienamente valida? La Bibbia ebraica non osa nemmeno porre tale domanda, anzi più di duecento passi sparsi nei libri profetici (Navijm), poetici o didattici (Ketuvijm) esaltano la perfezione e l’eterna validità della Legge (Torah). Non dimentichiamo che per gli ebrei questo termine si estende ai primi cinque libri della Bibbia, chiamati talvolta Pentateuco; il loro cuore tuttavia è sempre rappresentato dalle “Diec parole” che l’Eterno ha affidato a Mosè.
L’apostolo Paolo afferma invece: “…perché mediante le opere della legge nessuno sarà giustificato davanti a Lui; infatti la legge dà soltanto la conoscenza del peccato” (Romani 3,20). La conoscenza del peccato… L’uso del singolare è in questo caso particolarmente importante. Nella teologia biblica, sia ebraica, sia cristiana, non esistono i “peccati” al plurale. Il peccato è una condizione e non un’azione. Le azioni possono diventare trasgressioni della legge e quindi possono far emergere il peccato. La casistica pseudocristiana che cerca di stabilire nell’immenso ambito del nostro agire cosa sia e cosa non sia peccato è, prima di tutto, una figlia illegittima della giurisprudenza e poi una degenerazione pericolosa di un altro ragionamento genuinamente biblico. Alla luce della Parola di Dio una persona credente si chiede: quale delle mie azioni fa emergere la Grazia che agisce in me e quale altra azione dimostra in maniera palese la mia condizione naturale di peccato. Questa è una distinzione genuinamente biblica. Grazia e peccato… L’uno non esiste senza l’altro. La Legge di Dio ci ricorda continuamente che le nostre forze umane non ci permettono di osservarla. Con un atto di fede ci affidiamo alla Grazia di Dio che si è manifestata pienamente in Cristo Gesù che ha compiuto in tutto e per sempre i comandamenti della Legge.
Predicazione del pastore Pawel Gajewski, 7 Ottobre 2007, Chiesa Evangelica di Firenze