“Guardatevi dai falsi profeti!” sembra una raccomandazione che si riferisce più alla comunità primitiva che al tempo di Gesù. Mentre c’è il Maestro, non si può scambiarlo con un altro o dar credito a qualcuno che abbia più autorità di Gesù stesso. Nella comunità della seconda metà del primo secolo invece si pone il problema di chi è un vero interprete delle parole del Cristo e chi non lo è. Sicuramente ci saranno state infiltrazioni di persone apparentemente perbene, piene di virtù e sapienza, che poi si sono rivelate essere “lupi rapaci”.
In un certo senso c’è di che aver paura dei profeti… Sono degli irregolari, raramente coincidono con il sacerdozio ordinato del tempio; sono, come Amos il mandriano, persone dedite ai loro lavori mandate da Dio ad annunciare dure parole di giudizio in una situazione che sembra pacifica, mandate ad annunciare catastrofi come giusto castigo del Signore per situazioni di ingiustizia e conflitto che di solito sembrano “normali” a tutti gli esseri umani. Sempre c’è stato il problema del “riconoscerli” come inviati da Dio e dare ascolto alla loro voce. Quasi mai si è dato ascolto ai loro consigli, mentre invece si è riconosciuta la giustezza dei loro giudizi, quando le catastrofi si sono avverate.
Questo riguardava la comunità antica, Israele. Ma come si mettono le cose per la comunità nata dal messaggio del Cristo? L’apostolo Paolo parla da subito di “profeti”: “Dio ha costituito nella chiesa in primo luogo degli apostoli, in secondo luogo dei profeti…” (1 Cor. 12,28) , e ne parla come se potessero essere in tanti : “ Anche i profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino, se una rivelazione è data a uno di quelli che stanno seduti, il precedente taccia, infatti tutti potete profetare a uno a uno, perché tutti imparino e tutti siano incoraggiati” (v. 29 - 31). Naturalmente si pone il problema se le loro rivelazioni siano giuste o no. Paolo suggerisce come criterio: “Gli spiriti dei profeti sono sottoposti ai profeti, perché Dio non è un Dio di confusione, ma di pace” (v. 32-33). Qui sembra che l’apostolo Paolo usi il termine “profeta” in un senso più moderno di “predicatore”, anche se comunque definisce “rivelazione di Dio” la fonte che ispira il profeta.
Questo diventa una specie di istituzione nella Lettera agli Efesini: “…[Cristo] ha dato gli uni come apostoli, gli altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e dottori” (Ef.4,11). In ogni caso possiamo pensare alle comunità dei I secolo come comunità “carismatiche”, sia nel senso (più paolino) che i “carismi” dello Spirito erano sparsi su tanti e rendevano attivi, nel bene e nel male, i membri della comunità dei chiamati, sia nel senso che si formavano attorno ad una “personalità carismatica” che aveva una capacità di trascinamento nei confronti degli altri.
Mentre le chiese cattoliche e ortodosse si sono sempre più riconosciute nello schema di “chiese ordinate”, nel senso che hanno definito un “ordine” e lo seguono, le chiese della Riforma e in particolare quelle che vengono dall’ala “ribelle” sono a volte definite “chiese carismatiche” soprattutto dopo il Revival e per il sorgere delle chiese pentecostali all’inizio del Novecento. Il rischio delle chiese ordinate è di assolutizzare il proprio ordine e non aver più canali perché la Parola giunga dall’esterno della chiesa stessa, come “rivelazione” data per volontà di Dio, capace di creare nuova vita. Il rischio delle chiese carismatiche è di dilaniarsi a vicenda su quale sua la vera rivelazione data da Dio per quel momento giudicando severamente tutti gli altri, e rischiando di seguire il “profeta” trascinatore di quel dato tempo.
Il prof. Vittorio Subilia ha dedicato a questi temi più di un libro che rimane a fondamento della nostra ricerca (per es. “I tempi di Dio”). La sfida rivolta al nostro tempo è vivere sullo spartiacque fra l’istituzione e l’evento, lasciando allo Spirito di Dio la libertà d’intervento, anche al di fuori dei nostri schemi e ordinamenti, anche i migliori possibili. Naturalmente dobbiamo sottoporci e operare la distinzione degli spiriti, come dice la 1 Gv. 4:1 “Carissimi, non crediate a ogni spirito, ma provate gli spiriti per sapere se sono da Dio; perché molti falsi profeti sono sorti nel mondo”. In quel tempo (fine I secolo o inizio del II secolo) il suggerimento di Giovanni è : “Da questo conoscete lo Spirito di Dio: ogni spirito, il quale riconosce pubblicamente che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio”. Ora le cose sono diverse e più complicate, tuttavia forse si può ancora dire che il danno maggiore al Cristianesimo sia stato un certo spiritualismo che ha negato che Gesù “è venuto nella carne”.
Il nostro testo di Matteo ugualmente sembra essere un’esortazione contro lo spiritualismo: distinguere il dire dal fare è importante, e la precedenza d’importanza è sul fare. Qui i falsi profeti non sembrano persone che vengano da molto lontano, ma la stessa comunità dei discepoli è esposta al rischio di essere nulla, perché al riconoscere Gesù come Signore e invocarlo continuamente non corrisponde una vita dove si portino “frutti buoni”. La predicazione di Giovanni il Battista: “Ormai la scure è posta alla radice degli alberi; ogni albero dunque che non fa buon frutto sta per esser tagliato e gettato nel fuoco” (Mt.3, 10) echeggia ora nelle parole di Gesù rivolte ai suoi stessi discepoli. Non c’è mai uno stato di beata santità nella quale si possa vivere di rendita per il fatto di esser stati chiamati, di aver risposto volonterosamente, aver lasciato tutto per seguirlo, di aver imparato a fare le stesse opere e gli stessi miracoli che ha fatto il Maestro?
“Molti” diranno nel giorno finale: “abbiamo profetizzato in nome tuo… cacciato demoni, fatto opere potenti nel tuo nome…” e non saranno riconosciuti da Gesù, perché non avranno fatto la volontà di Dio, ma solo si saranno dati da fare per sentirsi utili, si saranno messi in mostra per esser ammirati dagli altri. Quello che dà più fastidio è quel “MOLTI”, non sono le solite eccezioni che sempre possono esserci. Al contrario qui Gesù sembra ribadire che anche la comunità dei discepoli è sottoposta alla tentazione più grave di tutte, quella di essere un albero inutile che si può solo tagliare e farne del fuoco. Ora non ci meravigliamo più che il mondo non cambi nei suoi vecchi schemi e rimanga imprigionato nella sofferenza e nella violenza. Siamo alberi che non portano frutto o ne portano pochi e stenti, che bastano appena per sopravvivere a se stessi, ma non per nutrire il mondo circostante. E’ questa la fine delle chiese cristiane nel nostro tempo?
Ma la chiesa di Matteo è la chiesa dei discepoli, dove il Cristo continua ad essere il Vivente anche dopo e al di là delle sue discipline e dei suoi ordinamenti; il Cristo Vivente è l’albero buono che porta frutti buoni, la croce come albero della vita fa rivivere chi crede in lui e lo segue. Quello che ai discepoli è impossibile è possibile a Dio: cioè ricevere ancora in tanti la sua rivelazione fuori e dentro le istituzioni umane che ci siamo date ed è possibile ancora riconoscerle e riceverne vita e gioia nuova, così come sarà possibile un giorno “esser riconosciuti” dal Signore nella gloria quando dirà: “Venite voi i benedetti del Padre mio, ereditate il Regno che vi è stato preparato avanti la fondazione del mondo!” (Mt.25,34).