È abbastanza naturale che questo testo faccia pensare alla chiesa. L’immagine dell’edificio rimanda a quella dimensione sostanziale della chiesa che è la comunità. Si possono individuare con molta probabilità due ragioni per cui Paolo usi l’immagine di un edificio, anzi, di un cantiere di costruzione.
La prima è legata alla religiosità greca. Il tempio ne era parte fondamentale; in altre parole un atto religioso era strettamente legato a un luogo sacro. Quando pensiamo ai templi greci ci vene in mente l’Acropoli di Atene, la Valle dei Templi nei pressi di Agrigento oppure Paestum in provincia di Salerno. Sono esempi insuperabili di un’architettura unica nel suo genere. La religiosità greca tuttavia non si esercitava soltanto in quei luoghi così splendidi. Un villaggio di montagna o un isolotto doveva talvolta accontentarsi di un tempio più simile a una capanna che ai marmi di Atene.
La seconda ragione andrebbe cercata nello stretto rapporto di Paolo con giudaismo e quindi con il tempio di Gerusalemme. Paolo morì prima della distruzione del tempio. L’esistenza di una “dimora di Dio in mezzo al suo popolo” è rimasta per lui indubbiamente un problema spirituale e intellettuale; un problema irrisolto.
Nella mia riflessione vorrei invece concentrarmi sul versetto 13 del nostro testo che parla del “giorno” (hêmera). Nel testo greco non c’è l’aggiunta “di Cristo” che troviamo nella traduzione. Il “giorno” è la principale categoria dell’escatologia paolina. Non si tratta semplicemente di una “giornata” che scandisce lo scorrere del nostro tempo. L’arrivo del “giorno” significa che il tempo si ferma per essere trasformato in eternità.
Il “giorno” va associato a una luce potente, un’energia che rivela il senso ultimo della storia e crea una realtà nuova. Nel testo greco troviamo pure il temine apokalyptetai che vuol dire “svelare”, “palesare”. Sul piano della fede il significato di questo verbo va però ben oltre il suo significato filologico. Ritornando alla questione ecclesiologica possiamo affermare che il “giorno” significa anche una trasformazione radicale della chiesa.
Paolo non propone tuttavia una scorciatoia. La costruzione della chiesa inizia ora e qui. Tutto il nostro brano afferma questa verità. L’accento è posto ovviamente sul fondamento; ed è proprio il fondamento che unisce il tempo presente con la realtà escatologica. Se questo fondamento manca la costruzione non può essere chiamata chiesa.
Conta tuttavia anche la qualità dei materiali usati. La cristianità ha preso questo pensiero molto sul serio; basta guardare il Duomo di Firenze, il battistero, il campanile di Giotto. Se volessimo tuttavia tradurre questo pensiero nelle categorie di una società occidentale postmoderna non potremmo usare la stessa filosofia di coloro che hanno costruito il Duomo di Firenze.
Credo che dovremmo concentrarci molto di più sulla comunità; quella comunità, la cui mancanza la nostra società avverte in modo così doloroso, una comunità mancante o latente come la definisce il sociologo Zygmunt Bauman. Costruire la comunità... Credo che questo sia il principale compito anche della nostra Chiesa valdese di Firenze e dei suoi responsabili. Da un lato possiamo sentirci sicuri: il fondamento della comunità è saldo. Non sono tuttavia indifferenti la quantità del tempo, la passione ma anche le risorse materiali che mettiamo nella costruzione della comunità, nel rinforzare la rete delle relazioni. La differenza tra oro e paglia, in tal caso, si palesa già oggi, talvolta generando anche sofferenza, senza aspettare la piena manifestazione del “giorno”.
Predicazione tenuta dal pastore Pawel Gajewski domenica 10 agosto 2008, Chiesa Evangelica Valdese di Firenze