Giovanni 20.1-18

Incontri con il Risorto



La morte di una persona amata è sempre una ferita profonda che ha bisogno di tanto tempo per rimarginarsi. Nell’elaborazione del lutto la tomba è un elemento di particolare importanza. Nell’ebraismo la tomba è un luogo di attesa in cui alla fine dei tempi il corpo morto diventerà eternamente vivo. La tomba inspiegabilmente aperta e vuota è quindi motivo di forte sconcerto, di una terribile angoscia. Che cosa è successo?

Nel testo del vangelo di Giovanni questa domanda non è posta in termini espliciti. Apparentemente Maria Maddalena ne ha già trovato una risposta: «Hanno tolto il mio Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’abbiano deposto» (v. 2b). Con la sua sottile ironia, l’autore del vangelo fa ripetere questa affermazione davanti alle due figure angeliche che presidiano la tomba vuota. Questa volta, la certezza di un reato palesemente commesso, si trasforma in una domanda accusatoria: «Perché hanno tolto il mio Signore?» (v.13b). Davanti al Gesù risorto la convinzione di Maria assume il tono di una supplica: «Se tu l’hai portato via, dimmi dove l’hai deposto, e io lo prenderò» (v. 15b). Contemporaneamente l’ironia dell’autore biblico si fa più forte: il termine “Signore” è sempre lo stesso e si riferisce sempre a Gesù, tuttavia il suo significato è di pura cortesia. È la cortesia con cui una donna deve rivolgersi a un uomo sconosciuto che in ogni caso rappresenta un potere seppur molto modesto, quello di un giardiniere, ovvero del custode di una proprietà privata.

La narrazione della risurrezione e quindi intrisa di una fine ironia. Questa ironia serve però per mettere in discussione una delle capacità fondamentali dell’essere umano: la capacità di vedere, di percepire la realtà con la vista. “Ho visto con i miei occhi”, questa espressione assume normalmente il valore di una prova suprema. Questa volta tuttavia la vista sembra giocare brutti scherzi alla protagonista del racconto. Che cosa appare ai suoi occhi?

Maria Maddalena «vide la pietra tolta dal sepolcro» (v. 2). Per le usanze dell’epoca si trattava di un fatto angoscioso ma non inspiegabile. Il testo Gv 19,42 lascia intendere che la sepoltura del corpo di Gesù è un atto provvisorio. Il fatto che Maria si trovi davanti al sepolcro, subito dopo la fine dei festeggiamenti pasquali, conferma ulteriormente la precarietà della sepoltura. Le conclusioni di Maria seguono quindi una logica perfetta: qualcuno giustamente ha trovato un’altra sistemazione per il corpo di Gesù.

Nella seconda scena Maria si china a guardare dentro il sepolcro e vede «due angeli, vestiti di bianco, seduti uno a capo e l’altro ai piedi, lì dov’era il corpo di Gesù» (v. 12). In questo caso bisognerebbe evitare interpretazioni troppo spiritualistiche. Un’attenta analisi filologica del testo greco del vangelo di Giovanni conferma che il sostantivo ‘ángelos’, non fa parte del linguaggio usato nel vangelo. Nell’Apocalisse la situazione cambia radicalmente, ma lì abbiamo a che fare con un genere letterario completamente diverso. In altre parole Giovanni non è Luca con gli angeli che giocano sempre ruoli di primo piano nelle scene più importanti del suo vangelo. Dal punto di vista redazionale non possiamo escludere eventuali influenze sia della narrazione di Luca sia dell’Apocalisse sulla redazione finale del vangelo di Giovanni. In ogni caso sarebbe più corretto scorgere nelle due misteriose figure vestite di bianco ciò che vede Maria: due messi incaricati di vigilare sul luogo della sepoltura di un personaggio importante e particolarmente scomodo. Insomma, nulla di sovrannaturale.

Nel terzo episodio invece Maria incontra Gesù in persona, ma non lo vede come tale. Ella vede sono una figura maschile identificata con un ortolano. Ma proprio in questo episodio avviene la svolta decisiva. Tale svolta non è però legata alla percezione visiva bensì alla parola che è pronunciata da Gesù. Il riconoscimento del Risorto avviene nel momento in cui Maria sente pronunciare il suo nome. Questo fatto è profondamente radicato nella narrazione di Giovanni. Il quarto vangelo presenta il buon pastore che chiama le proprie pecore «per nome» (10,3) e le pecore ascoltano la sua voce (cfr. 10,27). Un pensiero parallelo si trova nella Lettera ai Romani (10,17): «Così la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo».

Nella testimonianza del riconoscimento finale resa da Maria ai discepoli emerge quindi un atteggiamento di fede. L’autore del vangelo mette in risalto la classica formula contenuta in I Cor 15: «aveva visto il Signore». Si tratta senz’altro della più antica confessione di fede nella risurrezione di Gesù. Accanto a questa confessione di fede Giovanni colloca con particolare enfasi la parola pronunciata da Gesù: «va’ dai miei fratelli e di’ loro» (v. 17) e in seguito «Maria Maddalena andò ad annunciare (…) che egli le aveva detto queste cose» (v.18). Tale enfasi colloca la fede nella risurrezione non solo nella dimensione del «vedere», privilegiata inizialmente da Paolo e dalla comunità delle origini (Urgemeinde), ma anche dell’udire e quindi della Parola. La Pasqua della Risurrezione diventa dunque un gioioso annuncio che oltrepassa i confini dello spazio e del tempo.

In una società globale, segnata dalla pluralità delle religioni, i cristiani sempre più frequentemente sono interrogati circa le «ragioni della loro fede». Per certi versi la situazione assomiglia al pluralismo religioso del primo secolo dopo Cristo. Non di rado una persona credente in Cristo si trova davanti a chi nega la risurrezione, nel nome della ragione o di un’altra credenza radicalmente diversa dalla cristiana. Il cristiano tende quindi a elevare la capacita di vedere alla suprema ratio del dibattito. L’ironia di Giovanni è rovesciata. L’interlocutore non cristiano viene posto davanti ai fatti apparentemente inoppugnabili. Egli è invitato ad ammirare la superiorità, vera o presunta, della civiltà cristiana, visibile nella vita sociale e politica di numerosi popoli. I reperti archeologici dell’epoca di Gesù vengono talvolta esposti come prove materiali della sua risurrezione. Minuziose ricerche filologiche pretendono di far vedere la verità della risurrezione, racchiusa in una riga di testo. Rigorosi procedimenti logici, induttivi o deduttivi, sono volti a spiegare tutto ciò che è successo la notte prima della scoperta della tomba di Gesù aperta e svuotata e a dedurne una verità dogmatica.

Nessuna persona dotata di un minimo di sensibilità dialogica scarterebbe tout court le “prove” appena elencate. Vi è una certa forza di convincimento. Un credente cristiano tuttavia dovrebbe ammettere con onestà che la risurrezione di Gesù sfugge a qualunque percezione visiva, in altre parole la risurrezione in sé non è per nulla sfruttabile al cinema o in televisione. Sul versante razionale essa non può nemmeno essere assunta come assioma indiscutibile su cui fondare ragionamenti perfetti, in altre parole privi di contraddizioni.

La risurrezione diventa realtà nel cuore e nella mente della persona credente in cui risuona la parola di Gesù, la parola rivolta individualmente a ogni essere umano, chiamandolo per nome. La percezione di questa realtà non deve tuttavia rimanere un’esperienza strettamente personale. Dall’incontro con Gesù scaturisce la missione di annunziare l’evangelo della Risurrezione.

Predicazione del pastore Pawel Gajewski Domenica di Pasqua 4 Aprile 2010, Chiesa Evangelica Valdese di Firenze