Qual'è la preoccupazione più grande, quando pensiamo alla nostra chiesa? Credo che tanti di noi potrebbero rispondere in questo momento: i giovani e quindi un futuro assai incerto. Pochi giorni fa ho potuto partecipare a una bella conversazione con i ragazzi appartenenti alle Chiese valdesi nel Rio de la Plata. Abbiamo scoperto, non senza stupore di avere le stesse preoccupazioni. Possiamo definirle trasversali, nel senso che vedere diminuire e invecchiare la nostra popolazione ecclesiastica non riguarda soltanto coloro che sono già nonni ma anche i loro nipoti.
Nella logica narrativa della Torah (Pentateuco) il libro del Deuteronomio parla della seconda generazione dei liberati dalla schiavitù egizia. Sono i figli, o addirittura i nipoti di coloro che hanno celebrato la Pasqua della liberazione nella terra d'Egitto. La figura di Mosè unisce però le generazioni. L'autore biblico mette sulla sua bocca uno straordinario racconto delle vicende passate che mantengono tuttavia la loro attualità.
La storia di questo stupendo capolavoro ci dà però altre indicazioni. Molto probabilmente il Deuteronomio comincia a circolare dopo la riforma religiosa di Giosia (640-609 a.C.; cfr. II Re, capitoli 22-23). Si tratta di una vera e propria corrente di pensiero che accompagna le vicende del popolo di Giuda fino alla caduta del regno (597 a.C.). Appartengono a questa opera narrativa i libri di Giosuè, Giudici, Samuele e Re.
Proviamo a parafrasare la domanda iniziale di questa meditazione. Qual'è la principale preoccupazione del Deuteronomista?
La risposta è: i giovani e quindi un futuro assai incerto. Il nostro autore biblico propone tuttavia anche la soluzione: guardati dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto, ed essenon ti escano dal cuore finché duri la tua vita. Anzi, falle sapere ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli.
Dal testo del Deuteronomio emerge chiaramente che le cose di cui parla questa breve citazione è la legge del Signore. L'autore Deuteronomista è assai duro nel condannare non soltanto l'idolatria, il cui livello in Giuda era per così dire “fisiologico” e quindi non particolarmente preoccupante. Le sue critiche si rivolgono piuttosto contro l'eccessiva fiducia nelle soluzioni umane volte a mantenere lo status quo del regno di Giuda. È istruttiva sotto questo aspetto la storia del censimento ordinato da Davide 2 Samuele, cap. 24 oppure la figura di Manasse II Re, cap. 21.
Credo che nella ricerca delle risposta alla nostra principale preoccupazione dobbiamo attingere dallo spirito del Deuteronomista. Se le Chiese valdesi di oggi vogliono affrontare il futuro (i giovani!), esse sono chiamate a ristabilire rimettere al centro del proprio orizzonte e del proprio pensiero Cristo Gesù. Poiché quest'anno ricordiamo i cinquecento anni dalla nascita di Giovanni Calvino, vorrei citare due frasi, legate strettamente alla storia dei valdesi.
E dal momento che Gesù Cristo è il fine della Legge e dei Profeti, nonché la sostanza dell'Evangelo, non dobbiamo tendere ad altro scopo che a conoscerlo, ben sapendo che anche una minima deviazione da lui conduce alla rovina.
Queste parole sono state scritte da Calvino nella prefazione (del 1546) alla traduzione francese del Nuovo Testamento (1535) compiuta da Pierre Robert, detto Olivétan. Come sappiamo sono stati i valdesi a finanziare questa traduzione particolarmente importante per la storia della Riforma in Europa. La centralità di Cristo è strettamente legata con la centralità della Bibbia. Quest'ultima ha anche un enorme valore culturale. Una mia collega, docente di storia moderna all'Università di Firenze mi raccontava qualche giorno fa che l'ignoranza in materia biblica della maggior parte dei suoi studenti raggiunge ormai i livelli di guardia.
E quand'anche il mondo non solo derida la nostra semplicità, ma giunga a odiarci, accontentiamoci del fatto che è il più gradevole servizio a Dio rendere testimonianza alla verità del suo Evangelo. In sostanza, poiché il Signor Gesù è il modello al quale dobbiamo conformarci, abbiate cura di guardare in tutto a lui.
Calvino scriveva queste parole nell'aprile 1556, alla vigilia delle tragiche persecuzioni in Calabria e in Piemonte. I valdesi in Calabria hanno deciso di non prendere le armi in mano, quelli valligiani invece sì. Si tratta di uno dei problemi più delicati nella storia valdese, discusso tuttora da storici e teologi.
In che modo e in che misura bisogna rispondere alle persecuzioni?
Nell'Italia di oggi noi valdesi ufficialmente non siamo perseguitati. Basta tuttavia ricordare i recentissimi episodi di un confessionalismo integralista: l'udienza dal papa imposta ai volontari e alle volontarie del Servizio Civile Nazionale, pesanti e volgari critiche che il giornale “Avvenire” ha rivolto a Gustavo Zagrebelski, definendolo “Grande Valdese”, a mo' del “Grande Inquisitore di Dostojewskiana memoria. La parola “valdese” è diventata di fatto un insulto sulle pagine del quotidiano della CEI. Alla luce della frase di Calvino, appena citata non dobbiamo preoccuparcene.
Vorrei concludere questa meditazione che il nostro futuro non ci farà paura se (ri-)mettendo al centro della nostra testimonianza la figura e il messaggio di Gesù saremo capaci di impegnarci concretamente per un paese libero da ogni ingerenza religiosa e pienamente sovrano nelle sue scelte giuridiche.
Predicazione del pastore Pawel Gajewski domenica 15 febbraio 2009, Chiesa Evangelica Valdese di Firenze, in occasione della celabrazione della Festa del XVII febbraio