Da diversi decenni ormai gli studiosi del Nuovo Testamento concordano nell’attribuzione della Lettera agli Ebrei ad un autore diverso dall’apostolo Paolo. Una delle prove fondamentali per questa tesi sono i riferimenti alla distruzione del tempio di Gerusalemme e alla cessazione del culto sacrificale, fatti avvenuti nel 70 d,C, vale a dire almeno cinque anni dopo la morte di Paolo. Il brano su cui stiamo riflettendo conferma tuttavia uno strettissimo legame del’epistola agli Ebrei con il pensiero di Paolo. Un segno inequivocabile di tale collegamento è il celebre testo di Abacuc 2,3-4, utilizzato da Paolo nella Lettera ai Romani, cap.1.
Credo che valga la pena soffermarsi qualche istante su questo brano dell’Antico Testamento. Il profeta Abacuc svolge la sua missione in un tempo particolarmente critico. Sulla scena mondiale stanno per avvicendarsi gli imperi; quello assiro e già in forte declino, avanza invece l’impero neobabilonese. Il profeta e profondamente turbato dall’ingiustizia che dilaga intorno a lui ma non si perde d’animo. Agli abitanti di Giuda egli annuncia la potenza di Dio, il sostegno di un Dio che vuole salvare il suo popolo da ogni pericolo, un Dio che ristabilisce pace e giustizia. Risuonano in Abacuc gli echi del Primo Isaia, che esortava il popolo a non fidarsi delle grandi potenze dell’epoca, né sostituire Dio con il faraone o con un altro imperatore di turno.
Fin qui il nostro Abacuc.
Il nostro testo punta però su un termine particolarmente importante: franchezza. Nel nostro sentire comune la franchezza è indubbiamente una virtù. La capacità di parlare chiaro, di evitare giochi di parole e doppi sensi. Nel linguaggio cristiano della seconda metà del I secolo d.C. il termine greco parresia aveva però un significato molto più profondo e a tratti drammatico. Tale termine significava prima di tutto la confessione verbale della fede cristiana. Una confessione del genere poteva costare caro, non di rado il prezzo della propria vita. Questa è la ragione per cui l’autore dello scritto cita il profeta Abacuc.
Diciannove secoli dopo, cioè oggi, nelle facoltà di teologia questo termine é diventato di moda, specialmente quando si affrontano questioni relative alle missioni, all’evangelizzazione, al dialogo ecumenico e interreligioso. Il significato di questo termine è di nuovo mutato. Oggi la parresia indica da un lato la costruzione teologica di un chiaro profilo cristiano, dall’altro un inequivocabile annuncio del messaggio cristiano. Ma la parresia è anche un rimedio alle nostre paure e ansie Durante il nostro sinodo questo tema é stato affrontato più volte.
Non dobbiamo avere paura né di imperatori di turno, né della cosiddetta opinione pubblica. Non esiste un bene o un valore per cui valga la pena essere meno franchi nell’annuncio dell’evangelo. Infatti non mi vergogno del vangelo perché esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede; del Giudeo prima e poi del Greco (Romani 1,16).
Predicazione tenuta dal pastore Pawel Gajewski domenica 7 settembre 2008, Chiesa Evangelica Valdese di Firenze