1. Esiste l’umanità?
La domanda [1] non è se “Dio esiste” ma se “l’umanità esiste.”
Non è una domanda filosofica o speculativa, da salotto letterario o da talk show. A volte si fa largo prepotentemente, sgomitando nella nostra quotidiana ricerca di senso. E’ un interrogativo che in una qualche forma ha vibrato nei cuori dei partecipanti al viaggio ad Auschwitz. Ha a che fare con la dignità della nostra vita presente e futura. Recentemente l'ho raccolta da 3 voci, diverse tra loro, ma che ponevano la stessa questione.
La prima voce è quella di Maria Silvia, una ragazzina di Firenze. Nella lettera inviata ad un quotidiano Maria Silvia si presenta così: «ho 15 anni e sono una normalissima adolescente che va a scuola, esce con gli amici e litiga con i suoi genitori. Normale. L’unica differenza è che quando avevo appena 6 o 7 mesi sono stata adottata. Per questo la mia pelle ha una sfumatura olivastra, per questo i miei occhi sono a mandorla, così differenti da tutti gli altri». [2] Maria Silvia ha scritto al giornale perché ha deciso di non tacere quello che le è successo. Di ritorno da una bella e spensierata giornata al mare trascorsa con il suo gruppo di amiche e amici, in treno diventa vittima di insulti razzisti da parte di una banda di ventenni, fino a ricevere l’onta dello sputo. Maria Silvia piange, piangono i suoi amici. Al giornale Maria Silvia dice: «Sputare addosso ad una persona equivale ad una coltellata, che affonda nel profondo e lascia una cicatrice indelebile», è il «simbolo del declino di tutto ciò che è umano».
La seconda voce è quella di Asik Tuygun, il comandante turco del mercantile Pinar, la nave che dopo aver soccorso 140 migranti nel Mediterraneo rimane bloccata in mezzo a mare e per diversi giorni, a seguito del conflitto di competenze viene respinta tanto dall’Italia quanto da Malta. A bordo c’è già il corpo senza vita di una ragazza incinta. Le condizioni in cui versano questi disperati fanno temere il peggio. Il comandante implora: «Aiutateci altrimenti moriranno, non abbiamo viveri, non abbiamo acqua a sufficienza, dormono su ponte al freddo.. Vi prego fateci sbarcare da qualche parte». E’ amareggiato Asik, prima gli hanno chiesto dalle capitanerie di porto di soccorrere i naufraghi, e poi non lo fanno sbarcare: «ci bloccano tenendoci fermi in mare aperto con la gente disperata che può morire da un momento all’altro. Ma è umano tutto questo?» [3]
La terza voce è quella di un finanziere italiano impegnato nell'operazione di respingimento in Libia di un barcone di migranti intercettato nel Mediterraneo: «Dopo aver capito di essere stati riportati in Libia ci imploravano: “Fratelli aiutateci!” ma non potevamo fare nulla, gli ordini erano quelli...Non racconterò ai miei figlii quello che ho fatto, me ne vergogno». [4]
Come ha scritto Desmond Tutu, arcivescovo di Città del Capo, Premio Nobel per la Pace e voce della lotta contro il regime dell'Apartheid in Sudafrica, ma anche pastore d'anime impegnato nella riconciliazione nazionale tra bianchi e neri, tra carnefici e vittime: «una persona è una persona attraverso le altre persone... abbiamo bisogno di altri esseri umani per essere umani... l'unico modo per essere umani è assieme». [5] Quando ferisco la dignità umana di una persona è la mia stessa umanità che ne risulta compromessa, è la mia stessa dignità a uscirne offesa.
2. Che ne sarà di noi?
La domanda se l’umanità esiste irrompe violentemente a seguito di uno shock, quando sentiamo che il terreno sotto i nostri piedi si apre e diventa abisso, un vuoto niente che sta per inghiottirci. Se la riformulassimo in un altro modo, forse si comprenderebbe meglio la sua valenza esistenziale: chiedersi se l’umanità esiste equivale a chiedersi “che ne sarà di noi?” Quando il negativo irrompe nella nostra vita, diventa minaccia, scossa di altissima magnitudo e voragine, ecco che allora ci chiediamo: che ne sarà di noi? E ce lo chiediamo anche noi che non siamo propriamente naufraghi in mare, ma a volte siamo naufraghi del significato e scopo della nostra vita; ce lo chiediamo noi semplicemente in quanto viventi, poiché vivere significa essere esposti, sperimentare la propria fragilità, consumarsi nel dolore e struggersi nella gioia, ferire e ferirsi poiché «vivere significa sempre avere una relazione» [6] e una relazione vissuta con un grado minimo di autenticità comporta sempre una certa vulnerabilità.
Che ne sarà di noi? E’ la domanda dei piccoli o dei semplici, [7] dei travagliati, degli aggravati e degli oppressi. Possiamo immaginarla come la domanda su cui si arrovellavano i discepoli di Gesù dopo aver visto il loro Maestro respinto da città come Corazin, Betsaida, Capernaum, «città nelle quali era stata fatta la maggior parte delle sue opere potenti» (Mt 11:20-23). Non era certo un momento felice per questa comunità di semplici in cammino se persino Giovanni il Battista aveva cominciato ad avere dei dubbi e aveva mandato a chiedere: «Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11:3).
Che ne sarà di noi? Enon sarà stato forse anche questo il muto interrogativo dei discepoli sbandati e dispersi di fronte alla tragedia della croce? Hanno visto il mondo con una grande speranza nel cuore ma «la morte (di Gesù) sulla croce non è soltanto la fine della vita che uno ha, ma anche la fine della vita che uno ama e su cui spera. La morte di Gesù fu sentita come la morte del Messia mandato da Dio e contiene in sé anche la “morte di Dio”. Perciò la sua morte è sentita e annunziata come abbandono di Dio, come giudizio, come maledizione, come esclusione dalla vita promessa e ripromessa, come riprovazione e dannazione». [8] Che ne sarà di noi? Non è solo la morte in sé che ci fa paura, ma l’angoscia di essere separati da tutto ciò che amiamo, abbiamo sì paura della Signora Morte dal mantello nero, ma ci procura angoscia la lunga falce che ci separa dalla promessa di vita.
A questo punto l’unico orizzonte possibile sembra il trionfo del potere della morte e che cosa sarà di noi possiamo dirlo con i versi macabri e malinconici del Canzoniere della morte:
« un giorno sarò terra contesa
mi vorranno i vermi i lombrichi le stelle
eppure un giorno ero vivo e ho visto il mondo
eppure un giorno ero vivo e ho visto il mondo» [9]
3. Il Regno e la sua forza ricreatrice
E allora? Festa finita? Partita chiusa? Vince il potere della morte? Tipo: “Morte batte Vita 6 a 0”? Chi è abbattuto resterà abbattuto? chi piegato resterà piegato, chi rannicchiato dallo spavento e dalla paura resterà rannicchiato e spaventato? [10]
No. La partita non è chiusa. Perché contro la realtà che si barrica nella fortezza della ragione e del buon senso, contro la realtà che pretende di essere il ritratto dell’unica (dis)umanità possibile, l’umanità dei sapienti e degli intelligenti, dei forti, di quelli che sono, contro questa Signora Realtà della Morte, Dio si oppone con la risurrezione di Cristo. Con la Pasqua Dio stesso «contraddice la sofferenza e la morte, l’umiliazione e l’insulto, e la malvagità del male» [11], Cristo non è solo la consolazione nella sofferenza ma è anche la protesta di Dio contro la sofferenza.
Ecco che le parole del Cristo sono una risposta ma anche una esultanza (cfr. Luca 10:17): «io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e dalla terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli». E cos’è che è dato conoscere ai piccoli, ai semplici, a chi si è messo in cammino con Cristo, in una parola, cos’è che è stato rivelato alla sua chiesa? [12] Possiamo dirlo nel modo più diretto possibile? Qui si parla del Regno di Dio [13], del “regno dei cieli” secondo Matteo.
Noi, come chiesa di oggi, come semplici del tempo presente, possiamo opporci alla Signora Realtà della Morte annunciando che la partita non è finita, ma anzi, è cominciata “la rimonta”, e il potere della morte ha i minuti contati! Non solo perché confidiamo nella promessa di un Regno in cui “la pace e la giustizia si baciano” (Salmo 85:10), ma perché la sua forza, la forza del Regno, è già operante. Quella forza del Regno che già oggi fa risorgere i viventi, sana le ferite, consola la tristezza, libera dall'angoscia, ridona la vista, risolleva dalla polvere, ci ri-crea in Cristo come nuove creature. E’ già operante quella forza e annuncia la vita nel mezzo della morte, anzi annuncia che la vita è più forte della morte. E quindi potremmo dire “Vita batte Morte 7 a 6 “, la differenza la fa il riposo, compimento della creazione, ma anche ri-creazione di tutte le cose. [14]
Infatti per noi piccoli, semplici di oggi, il Regno di Dio «non è nulla di meno» [15] che l’adempimento futuro di tutte le promesse: la Giustizia di Dio, la nostra stessa risurrezione dalla morte, nuovi cieli e nuova terra, il tempo in cui Dio sarà «tutto in tutti» (1 Cor. 15:28).
4. L'umanità nascosta, l'umanità vera e il discepolato
Ora possiamo anche rispondere alla domanda: “esiste l’umanità”?
Il Crocifisso Risorto, il Cristo, ci rivela la vera umanità. L’umanità invisibile, occulta, nascosta è in Gesù, che si fa clandestino, naufrago, disprezzato, ferito, torturato e crocifisso: ecco l'uomo, ecco il vero volto dell'umanità, perduta e abbandonata ma disposta a donarsi per amore del mondo. Cristo è la via per la vera umanità, l’umanità che ama, e che amando diventa sì vulnerabile ma abbatte ogni muro di separazione tra i popoli, le classi sociali, i generi, poiché in Cristo non v’è più “né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina (Gal.3:20)” [16]
E che cosa ne sarà di noi?
Discepolato! Seguire Cristo con la fiducia nella “fedeltà di Dio alle sue promesse” e quindi se perduti saremo ritrovati, se umiliati saremo rialzati, se mortificati saremo vivificati.
Discepolato dunque, senza il peso della nostra cattiva o buona coscienza, o della nostra religiosità, del nostro buon senso o dell'ansia per il nostro futuro. Per il nostro futuro, per quello che sarà e saremo, basta Cristo (solus Christus !) in Lui troveremo pace e riposo.
Riassumendo in una frase il messaggio di oggi, possiamo dire con Calvino:
«Dove Dio è conosciuto là si coltiva anche l’umanità» [17]
Predicazione tenuta da Pasquale Iacobino, responsabile della Librearia Claudiana di Firenze, presso la Chiesa Valdese di Firenze, Domenica 10 Maggio 2009
Note al testo:
[1] Il v.1 si può tradurre “In quel tempo rispondendo Gesù disse”. Cfr.H.Balz, G.Schneider, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 2004, p.1517
[6] E.Jungel, La morte come mistero della vita, in Possibilità di Dio nella realtà del mondo, Claudiana, Torino 2005, p.162
[7] Cfr.O. da Spinetoli, Matteo, Cittadella, Assisi 1998, p.343 e E. Schweizer, Il vangelo secondo Matteo, Paideia, Brescia 2001, p.251
[10] Cfr.Ortensio da Spinetoli, op.cit. p.350 ma anche E.Borghi, Giustizia per tutti, Claudiana, Torino 2007, p.27
[12] Vedi nepìos¸ in H.Balz, G.Schneider, Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia, p.481.
[13] J. Gnilka, Il vangelo di Matteo, Parte I, Paideia, Brescia 1990, p.641:«L’indefinito tauta, che indica il contenuto della rivelazione…dovrà essere riferito al messaggio del regno di Dio: la Basileìa escatologica agisce e salva già adesso, nella parola e nell’azione di Gesù».
[14] J.Gnilka, op.cit., p.639 e 640: «il riposo/ristoro è in concreto il sollievo concesso agli affaticati, che prefigura l’anapausis eterna» e sul versetto 29, «qui il riposo è un’anticipazione della felicità eterna».
[16] J.Moltmann, op.cit., p.146:«E’ l’evento Cristo quello che per primo fa nascere ciò che si può designare teologicamente come “uomo”, “vero uomo”, “umanità”… Soltanto quando le differenze reali, storiche e religiose che separano i popoli, i gruppi e le classi, sono state annullate nell’evento di Cristo in cui il peccatore è giustificato, si può avere una visione di cosa l’umanità può essere e sarà».