L’Epistola ai Romani è senza dubbio il manifesto della Chiesa di Gesù
Cristo. Questo scritto riassume magistralmente i contenuti fondamentali della
fede cristiana e traccia un percorso esistenziale all’insegna della Grazia.
Trattandosi di uno scritto programmatico, un pastore che è chiamato a
presentare le linee guida della sua predicazione e del suo agire, non può
fare a meno di confrontarsi con il capolavoro della teologia paolina. Se non
seguissi il lezionano UN GIORNO UNA PAROLA, avrei scelto proprio questo brano
per il culto d’insediamento, in questo caso però seguire il lezionario mi è
stato di aiuto perché il brano Romani 10,9-17 è previsto per la liturgia di
oggi.
Rispetto alle predicazioni dei due mesi scorsi, vorrei proporre oggi una cosa
diversa. Si tratta di dare un risalto particolare alla Parola stessa e quindi
la mia meditazione si limiterà al commento dei versetti dì Paolo. È un
maldestro (e presuntuoso!) tentativo di imitare Karl Barth la cui teologia è
stata per me particolarmente illuminante. Sento il dovere di precisare che il
testo scritto non sarà uguale alle parole pronunciate dal pulpito. La
predicazione è una realtà viva, lo Spirito la rende tale nel momento stesso
in cui il predicatore con timore e tremore si presenta davanti alla Chiesa
riunita nell’ascolto della Parola.
In questa prima sezione non c’è alcuna sequenza di tipo cronologico.
L’atto di fede, quello interiore, è strettamente legato alla confessione
pubblica della fede. Anche la distinzione tra giustificazione e salvezza,
importante dal punto di vista teologico, è in questo caso secondaria. La
visione di Paolo è unitaria: cuore e bocca, giustificazione e salvezza sono
un’unica realtà. Il centro della fede cristiana è la risurrezione di Gesù che
dimostra al mondo intero la sua Signoria divina.
Una chiesa o una persona credente che si ferma sull’atto interiore rischiano
di frammentare la visione di Paolo. Le battaglie a favore della laicità, il
sostegno al pluralismo religioso e alla multiculturalità non sono e non
possono essere impedimenti alla nostra chiara ed esplicita confessione della
fede in Gesù Cristo. Non va bene l’ostentazione della propria fede, ma
l’eccessiva timidezza può rivelarsi davvero deteteria.
Poiché non c’è
distinzione tra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti,
ricco verso tutti quelli che lo invocano (Gioele 2,32). Infatti chiunque avrà
invocato il nome del Signore sarà salvato.
La grandezza della fede cristiana è proprio questa: la proclamazione della
sostanziale uguaglianza di tutti gli esseri umani davanti a Dio. E la
Signoria di Gesù che rende possibile questa realtà. Facciamo però attenzione
a non generalizzare troppo l'affermazione di Paolo. Tale affermazione sembra
perfettamente in sintonia con le più importanti dichiarazioni dei diritti
umani. Ma non sono queste dichiarazioni a rendere attendibile il nostro
testo, al contrario, è il nostro testo a rendere plausibili altre
dichiarazionI. Non dimentichiamo tuttavia che esistono tuttora nel mondo
tante scuole dì pensiero religioso ben lontane da qualunque pensiero di
uguaglianza, sistemi religiosi che teorizzano la disuguaglianza come volontà
divina.
Ora, come invocheranno
colui nel quale non hanno creduto? E come crederanno in colui del quale non
hanno sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, se non c’è chi lo
annunzi?
Queste espressioni sono una forte esortazione rivolta a chi crede in Gesù. Al
tempo stesso queste parole possono spiegare le regioni dei nostri fallimenti.
Se intorno a noi vediamo tante persone che non credono (o non credono più) in
Gesù Cristo, se le altre proposte religiose non cristiane riscuotono più
successo della predicazione cristiana, vuoi dire che non abbiamo annunziato
abbastanza la Buona Notizia oppure l’abbiamo annunziata in modo errato,
facendo leva sull’esaltazione della nostra piccola chiesa, sull’etica, sulla
politica. Tutte queste cose vengono dopo, il principio è invece l’annuncio di
Gesù Cristo.
E come annunzieranno se
non sono mandati? Com’è scritto (lsaia 52,7): «Quanto sono belli i piedi di
quelli che annunziano buone notizie!»
Il verbo mandare (o “inviare”) allude chiaramente a una missione, un mandato.
Tale mandato viene esclusivamente da Dio e qualunque autorità umana della
Chiesa può solo riconoscere tale mandato e non deve mai conferirlo basandosi
sulla propria autorità. Per la nostra Chiesa valdese di Firenze e per la
Unione delle chiese valdesi e metodiste vedo in questo versetto due
importanti indicazioni. La nostra non può essere (o diventare) una chiesa
basata sull’appartenenza sociologica. Ogni membro di chiesa riceve da Cristo
un mandato e spetta alla comunità di riconoscere tale mandato, sostenendo e
incoraggiando la persona affinché la sua vocazione porti frutti abbondanti.
La seconda indicazione riguarda i ministeri costituiti (della Parola di Dio,
di governo, dì servizio alle persone bisognose). il senso di ogni ministero e
del loro essere collegiale è l’annuncio di Gesù Cristo. Non v’è alcuna
gerarchia o sottomissione ma soltanto diversità di compiti. Questa
impostazione esclude qualunque forma di prevaricazione e dì accentramento a
discapito degli altri e della collegialità stessa.
Ma non tutti hanno
ubbidito alla buona notizia; lsaia (lsaia 53,1) infatti dice: «Signore, chi
ha creduto alla nostra predicazione?»
Ritorniamo ancora al problema del fallimento, individuale e/o comunitario. La
Bibbia tutta quanta non lo esclude, anzi, lo evidenzia con cura. La stessa
Bibbia nella sua totalità propone anche una soluzione infallibile. Questa
soluzione si articola in due elementi: la conversione e la preghiera. A
questi due sostantivi sì possono aggiungere due aggettivi: continua e
incessante. Abbiamo bisogno dì una conversione continua. La conversione non
può essere limitata a un determinato momento del cammino di fede. La
preghiera invece deve ritornare al primo posto della nostra vita comunitaria
e individuale. Non bastano soluzioni basate su teorie psicologiche
sociologiche o politiche. Se le soluzioni nascono dalla preghiera
funzioneranno sicuramente. Se confidiamo eccessivamente nelle cose puramente
umane, il fallimento può soltanto aggravarsi.
Così la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo.
E così sia... Oggi e negli anni del nostro cammino insieme che il Signore vuole donarci.
Predicazione del pastore Pawel Gajewski il 30 Settembre 2007 in occasione del suo insediamento come pastore della Chiesa Evangelica di Firenze