Aspettiamo la risurrezione dei morti
e la vita del mondo che verrà
(testi di riferimento: Giobbe 19, 25-27; Isaia 11, 6-9; 1 Tess.4, 13-18)
E' l'affermazione conclusiva del Credo Niceno-Costantinopolitano (il
Simbolo Romano dice: [credo] nella risurrezione della carne, la vita
eterna). Definisce la chiesa come una comunità dell'attesa e
della speranza (che in qualche lingua, come per es. lo spagnolo
'espera', sono la stessa parola). E' il contenuto stesso della fede in
termini umani, nei quali è permesso impiegare il nostro
immaginario per esprimere quello che la nostra vita attuale non
è, ma dovrebbe o vorrebbe essere.
Il primo testo è quello di Giobbe, che descrive in questo
capitolo senza mezzi termini la sua situazione piena di angoscia;
rivendica la propria innocenza e non si fa illusioni sulla
possibilità di sconfiggere i suoi avversari, dal momento che
è Dio stesso "a sbarrargli la via" e a "coprire di tenebre il
suo cammino" (v.8). Poi prorompe la confessione di fede nell'estremo
della prova: "Io so che il mio Redentore vive... E quando, dopo la mia
pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne,
vedrò Dio. Io lo vedrò a me favorevole... Il cuore dal
desiderio mi si consuma" (v.26-27). Come sappiamo, il libro di Giobbe
mette in serio dubbio il tema della retribuzione alle opere (ai giusti
benedizione, agli ingiusti castigo) ed accetta la sfida di poter amare
Dio "per nulla", senza vedere 'nella carne' la benedizione di Dio. Non
si arrende però e grida fino alla fine (cioè fino alla
risposta di Dio) il suo bisogno di "vederlo" (saperlo favorevole).
Anche se questo non dovesse avvenire 'nella carne' non dubita che
questo possa avvenire dopo, e si consuma dal desiderio che ciò
avvenga. C'è una sofferenza che 'si consuma' per il desiderio di
Dio, come molti salmi esprimono con grande libertà.
Nel mondo ebraico antico non sembra esserci stata attesa della
risurrezione dei morti, si pensa allo Sheol come ad un luogo di ombre e
di tenebra dal quale non si ritorna (2 Sam.12, 23), ma prima e
nell'epoca di Cristo la risurrezione dei morti è oggetto di gran
dibattito; infatti un gruppo di persone chiede a Gesù il suo
parere (Luca 20, 27-38) ed egli risponde secondo l'immaginario
dell'epoca, dell'attesa "del mondo che verrà" dove saremo
"simili agli angeli e figli di Dio, essendo figli della risurrezione"
(v.36). Forse si può dire che la dottrina della risurrezione si
fa strada proprio per rispondere alla giusta richiesta della sofferenza
innocente, dell'ansia e del bisogno di appartenere a Dio in vita e in
morte, perché Dio è Dio dei morti e dei viventi
(Rom.14,9).
L'apostolo Paolo ha definito la risurrezione come l'elemento centrale
della fede in Dio: nel capitolo 15 della prima lettera ai Corinzi
ribadisce molte volte che se non si pone al centro la fede nella
risurrezione di Cristo e l'attesa della nostra stessa risurrezione si
è creduto invano e si è i più infelici fra tutti
gli esseri umani. La risurrezione non è un'appendice del Credo,
poco prima dell'Amen, ma è l'espressione della nostra speranza.
Cosa fa il credente? Testimonia la risurrezione di Cristo e attende e
spera la propria risurrezione. Paolo la riassume nel morire con Cristo
per risorgere con lui ad una vita nuova (Rom.6,4). Descrive nella prima
lettera ai Tessalonicesi la fine del mondo, come la sua epoca la
immaginava. La 'vita nuova' è qualcosa che comincia da subito
per chi crede e viene risuscitato con Cristo mediante lo Spirito.
Non c'è da sgomentarsi per quelli che sono morti: il nostro
corpo è come un seme che finisce nella terra e poi da quello
rinascerà un corpo spirituale (come la farfalla dalla crisalide
o dal bruco). "Il corpo è seminato corruttibile e risuscita
incorruttibile, è seminato ignobile e risuscita glorioso,
è seminato debole e risuscita potente, è seminato corpo
naturale e risuscita corpo spirituale" (1 Cor. 15, 42). Non possiamo
immaginare come ciò avvenga; le apparizioni di Gesù
risorto sono l'unico riferimento che abbiamo: era riconoscibile, lo si
poteva toccare, ma poteva passare per le porte chiuse, poteva mangiare
e poteva scomparire. C'è la salvaguardia dell'identità,
insieme ad una identità nuova, piena, gloriosa, di uno
spirituale che non nega il corporale, ma lo redime dalla sofferenza e
lo glorifica.
La nostra vera identità è davanti a noi nel futuro e non
indietro nel passato, non dobbiamo dimenticarlo noi valdesi che
trascorriamo più tempo nei convegni storici che nello studio
della evangelizzazione del mondo circostante. Naturalmente è
importante sapere da dove veniamo, ma siccome stiamo camminando
bisognerebbe anche essere al chiaro del verso dove andiamo! Si tratta
di prospettive faticose e spesso laceranti che contraddicono
l'interesse di alcuni e ci trovano spesso sgomenti e divisi sia per i
grandi progetti politici che riguardano il nostro paese e il mondo (v.
per es. la globalizzazione), sia per orizzonti ben più piccoli e
immediati come il futuro della nostra diaconia fiorentina.
La vita del mondo che verrà è stata spesso immaginata,
sognata, cantata come l'isola che non c'è, l'utopia del
possibile, che però è considerato l'impossibile nella
nostra vita attuale. Abbiamo bisogno di queste descrizioni! Spesso sono
delle confessioni di fede, come quella ascoltata oggi di Dorothee
Soelle, che sono fatte proprie dalla chiese, comunità della
speranza. In un certo senso si parte sempre da un negativo per
rivoltarlo in un positivo. E' quello che fa anche il testo sui tempi
messianici di Isaia 11: gli animali si divorano a vicenda - si annuncia
la loro convivenza pacifica; gli umani vivono minacciati
dall'ingiustizia e dalla corruzione - si annuncia la saggezza e il
timore del Signore. Altri testi straordinari annunciano la fine delle
morti improvvise, delle morti di bambini o tempi in cui ci sarà
abbondanza di cibo, di sicurezza e di pace. Ciascuno di noi può
cercarli nei cassetti nascosti della nostra stessa memoria per tirarli
fuori in tempo di difficoltà; oppure quando li abbiamo
dimenticati e siamo troppo tristi per cercarli ci verrà in aiuto
un fratello o una sorella della "comunità della speranza" per
farceli tornare alla memoria.
Un commento comune al Credo è stato preparato da un gruppo di
Fede e Costituzione del Consiglio Ecumenico delle Chiese nel 1990
(Confessare una sola fede), all'art.277, definisce la "speranza attiva
nell'amore nell'ambito di questo mondo, pur guardando al mondo che
verrà, e si rinnova all'interno della comunione della chiesa
mediante il dono sempre nuovo della salvezza di Dio in Gesù
Cristo, dato dallo Spirito Santo per mezzo della Parola e dei
Sacramenti". Poi elenca le situazioni negative che la speranza deve
trasformare: disperazione di fronte alla decadenza del mondo,
disperazione personale degli individui, prospettive religiose
strumentalizzate da sistemi politici, dolore insopportabile, malattia
incurabile, handicap irreversibile... La speranza che si basa sulla
croce e risurrezione di Cristo troverà il suo compimento nella
visione beata e nella partecipazione alla gloria di Dio nella comunione
dei santi (art. 278).
La gloria futura è stata spesso definita dai Padri della chiesa
come 'visio' e come 'fruitio', cioè visione e godimento dei beni
celesti: qui il nostro immaginario nei secoli si è come
accorciato e clericalizzato, limitandosi a pensarci in un eterno culto,
come angeli che volano e che cantano. Altre visioni di paradisi
più materiali sono più che legittimate (a parte il
maschilismo che a volte le contraddistingue): Gesù ha spesso
paragonato il Regno di Dio ad una festa di nozze e ad un banchetto! Non
sappiamo se veramente tutti, anche quelli che sono stati malvagi in
questa vita, ne faranno parte; noi vi siamo stati invitati, e non siamo
granché buoni... Vogliamo trascorrere la nostra vita nell'attesa
e nella dignità di quella festa finale.
Nella Bibbia non mancano parola taglienti che annunciano il giudizio
sulla malvagità e sull'ingiustizia; senza ricorrere
all'immaginario dantesco di punizioni eterne e di supplizi
interminabili anche noi pensiamo che non ci sarà posto
all'accaparramento, alla violenza e alla crudeltà. Il sì
sarà veramente sì e il no, no. Nell'incontro con il
Cristo avviene da subito un giudizio che è quello dello Spirito
di Dio e che colpisce innanzitutto la nostra vita. Non vivremo nella
fuga dal mondo o nell'ascesi, in attesa del mondo futuro che Dio
creerà, ma non vivremo neanche nella irresponsabilità e
nello sperpero, rispetto agli altri viventi e alla natura.
Amen è l'ultima parola del Credo; dovrebbe esser detto ad alta
voce dalla comunità che attende e che spera, in modo da esser
consapevoli che pronunciamo un sì sentito e vero di questa
speranza. Noi siamo una comunità muta che rifugge dal
pronunciare qualsiasi parola che non sia il canto. Non possiamo
imparare a dire un Amen a voce alta e convinta al termine di ogni
preghiera, di ogni confessione di fede, di qualche predica?