Rifletteremo oggi su questo testo, propostoci da Un giorno una Parola per questa seconda domenica di avvento e, per noi, anche la domenica della Diaconia.
Un testo poetico, di grande forza evocativa, con i verbi declinati al futuro, una visione e una profezia, un tipo di linguaggio che non ci appartiene, ma ancora in grado di parlarci con forza e suggestione. Si parla evidentemente del regno di Dio, di quello di cui abbiamo solo qualche segno, che invochiamo e per il quale siamo impegnati.
E’ il testo che Gesù cita per comunicare a Giovanni Battista l’essenza di quello che sta succedendo. Gesù, alla domanda dei Giovanni, chi sei tu? Non risponde con argomentazioni teologiche ma esponendo quello che sta succedendo, per dire chi è racconta quello che fa.
E’ un testo dunque particolarmente significativo. Quale è il regno che ci presenta il testo biblico di oggi? E’ il regno del cambiamento. Ciechi che vedono, sordi che odono, muti che parlano e addirittura lo zoppo che salterà come un cervo. Crediamo al cambiamento? Crediamo ai miracoli? Io sono naturalmente, culturalmente, storicamente molto scettico quando mi trovo di fronte persone che parlano di miracoli, non parliamo poi quando li sbandierano. Poi, però, come tutti i credenti, nel silenzio della cameretta, nella vita privata ho visto Dio all’opera molte volte. Interventi che altri, forse, attribuirebbero alla fortuna, al caso, e che invece per me erano e rimangono azioni di Dio. Certo sono cose che non si possono raccontare, che hanno senso solo per chi le vive, che, anzi, perdono di autenticità se sono utilizzate come “randelli” per favorire il convincimento di altri. Ma, oltre a questi miracoli “privati”, mai visto niente… fino all’altro giorno, a Torre Pellice: ero a pranzo con alcuni psicologi e pastori impegnati nella cura delle persone. Ognuno raccontava le sue esperienze finchè la conversazione non ha portato al tema del miracolo. E dalle storie che raccontavano ecco un miracolo dietro l’altro, malati terminali che si riprendevano, persone che recuperavano l’uso della parola, ecc. Ho cominciato a pensare a quanti miracoli avvengono nella nostra Diaconia, istituzionale, ecclesiastica o personale. Quanti cambiamenti le persone fanno, quante storie mirabolanti che sfidano le leggi dell’invecchiamento, della malattia, del disagio accadono nel nostro cammino individuale e di chiesa.
Ma perché non li vediamo i miracoli, perché ci ostiniamo a non voler vedere il cambiamento come una cosa possibile? I primi a cui devono aprirsi gli occhi siamo noi.
Sono miracoli veri, concreti, che cambiano la vita della gente, e che, se impariamo a vederli, possono cambiare anche la nostra. Il testo non parla di miracoli qualsiasi, di cambiamento per il gusto di cambiare, non sono giochi di prestigio fatti per stupire il pubblico. La successione è molto significativa.“5Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.” La prima immagine scelta per il cambiamento: aprire i canali di comunicazione. Dare la possibilità di vedere le cose, aprire gli occhi, togliere il velo che oscura. Il nostro compito non è costruire una realtà virtuale da proporre agli altri, ma aiutare gli altri a guardare la realtà che hanno di fronte. Un piccolo esempio: nelle nostre opere che si occupano di minori, a Firenze Gould e Ferretti, a Palermo La Noce, a Torre Pellice la Comunità Alloggio, arrivano spesso bambini e adolescenti devastati da storie personali e famigliari penosissime, ove le relazioni all’interno del nucleo famigliare sono compromesse da patologie, devianze e carenze in un circolo vizioso senza fine. Uno degli obiettivi che ci diamo è proprio questo: apri gli occhi! Per uscirne devi imparare a guardare quello che ti sta succedendo, devi capire cosa vuoi accettare della tua situazione e cosa vuoi cambiare. Essere cieco a volte potrebbe essere meno doloroso. Certamente questo non vuol dire sbattere in faccia ad un bambino la realtà dicendogli: “Arrangiati!”, ma accompagnarlo in questo percorso di “presa visione” di quello che gli sta succedendo. E questo, quando succede, pensandoci, è un vero miracolo.
I ciechi e i sordi: due tipologie diverse di handicap. Se il cieco è privato della visione delle cose il sordo è privato del linguaggio, se il cieco, nel senso comune, sviluppa particolari sensibilità che ci portano a considerarlo particolarmente dotati (veramente diversamente abili), al sordo viene a mancare il linguaggio, le parole e quindi la possibilità di costruire il pensiero. Anche ai sordi si schiuderanno gli orecchi. Ma cosa può sentire un sordo se nessuno parla? Schiudere le orecchie all’ascolto, ma per ascoltare ci deve essere una parola che è detta. E la nostra Diaconia non può essere muta, specialmente se pretende di essere strumento per schiudere gli orecchi ai sordi. Diaconia o predicazione? E’ più facile dire i tuoi peccati ti sono rimessi o prendi il tuo lettuccio e cammina? “Domanda insensata! Non ha risposta. Deve essere respinta perché mina l’unità dell’evangelo” (Paolo Ricca in Grazia senza confini) . La predicazione e la diaconia sono due elementi inscindibili, sono le due lame di una forbice, per riprendere un’immagine di Giorgio Tourn. Non sono subordinate, in successione, sono invece coordinate, con pari dignità ed urgenza. Schiudere gli orecchi ai sordi significa dire qualcosa che non può non essere ascoltato. La nostra predicazione deve essere più connotata dal servizio e la nostra diaconia più connotata dall’annuncio. E questo non ha niente a che vedere, ovviamente, con una strumentale azione di proselitismo nei confronti dei deboli che incontriamo sulla nostra strada. Ma cosa vuol dire allora annunciare il regno con il servizio? Predicare con la diaconia? Come resistere alla tentazione di “predicare noi stessi”, e dire quanto siamo bravi, altruisti, laici, colti, rispettosi? Perché se questo è il messaggio è bene che il nostro interlocutore rimanga sordo! Come comunicare il tormento del regno, cui ci sentiamo chiamati, cui tendiamo e che sempre ci sfugge? Come comunicare la tensione etica nei rapporti con le persone senza sfuggire alle costrizioni del mondo della sofferenza, del lavoro, delle relazioni distorte? Come gestire una trattativa con l’Ente Pubbico? Come gestire i rapporti con il personale? Come mettere insieme il pareggio di bilancio con il servizio del prossimo? Nelle risposte a queste domande troviamo la predicazione della diaconia.
Un altro segno di cambiamento che il testo di oggi ci propone è l’urlo di gioia del muto. E questo ci riporta ad un altro compito essenziale della diaconia: dare voce ai senza voce ed essere voce dei senza voce (Paolo Ricca). Dove e come parla un ragazzino di una famiglia sgangherata? Come si esprime un handicappato grave? Come comunica un anziano con il morbo di Alzheimer?
Nei giorni scorsi all’Istituto degli Innocenti i ragazzi del Gould hanno esposto i loro lavori di pittura, alcuni dei quali di notevole fattura. Hanno comunicato, è stato dato loro modo di esprimersi.
L’Uliveto, storica struttura della Diaconia Valdese che accoglie portatori di handicap molto compromessi nelle proprie autonomie, lavora da anni, fra i primi in Italia, sulla Comunicazione Alternativa Aumentativi, un linguaggio particolare che consente di far esprimere, dar voce, anche a coloro che finora non hanno mai potuto dire la loro.
Il Gignoro ha vinto, lo scorso anno, il premio nazionale Alzheimer per un progetto di sviluppo della comunicazione con e per gli anziani affetti da questo male terribile.
Il mercatino dei ragazzi di Via Manzoni è anch’esso un modo per dar voce ai ragazzi che si sono impegnati, nel pensare e realizzare oggetti.
Vorrei ricordare anche altri strumenti, che apparentemente sono tecnici, ma che hanno, a mio avviso una valenza importante: un indicatore di qualità perseguito formalmente nelle nostre opere è il coinvolgimento delle persone, ospiti e famigliari: assemblee, incontri tematici, focus group, questionari, ecc. sono incoraggiati e tenuti sotto controllo in modo da garantirne la più piena fruizione.
Questa carrellata sintetica, che non vuol essere trionfalistica, indica un percorso sul quale la Diaconia, pesante, leggera, istituzionale, personale, è inserita. Un percorso molto lungo, pieno di curve e, se Dio vuole, di conversioni.
Abbiamo detto che la diaconia deve dare voce ai senza voce, ma anche essere voce dei senza voce. Questo richiama una responsabilità politica della diaconia/predicazione, questo ci interpella a sentirci chiamati a rappresentare le persone di cui ci occupiamo, nel contesto locale e nel contesto allargato. Dobbiamo continuamente tenere insieme il filo che va dall’intervento con la persona umana nella sua concretezza alla visione consapevole dei meccanismi all’interno dei quali si costruiscono e si sviluppano il disagio, la sofferenza e l’emarginazione.
Il testo biblico ci ha portati quindi ad individuare la diaconia come un luogo (non l’unico!) dove possiamo imparare a vedere miracoli, come uno strumento che siamo chiamati ad usare per ri-conquistare per noi e per gli altri la capacità di vedere il mondo e le persone nella loro reale definizione, come un’occasione per schiudere le nostre orecchie e le orecchie del prossimo all’ascolto, e, infine, come una necessità di dare la parola a coloro che non ce l’hanno.
Cammino impossibile per noi, ce ne
rendiamo conto, ma possibile con l’aiuto di Dio.
Predicazione di
Gianluca Barbanotti, 10 Dicembre 2006 - 2da di Avvento, Domenica della
Diaconia
Chiesa Valdese di Firenze