Riconoscere nell’altro lo Spirito che parla

II Pietro 1: 16-21

 

16 Infatti vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del nostro Signore Gesù Cristo, non perché
siamo andati dietro a favole abilmente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua maestà.
17 Egli, infatti, ricevette da Dio Padre onore e gloria quando la voce giunta a lui dalla magnifica gloria gli disse:
«Questi è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto».
18 E noi l'abbiamo udita questa voce che veniva dal cielo, quando eravamo con lui sul monte santo.
19 Abbiamo inoltre la parola profetica più salda: farete bene a prestarle attenzione, come a una lampada
splendente in luogo oscuro, fino a quando spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori.
20 Sappiate prima di tutto questo: che nessuna profezia della Scrittura proviene da un'interpretazione personale;
21 infatti nessuna profezia venne mai dalla volontà dell'uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio,
perché sospinti dallo Spirito Santo.

 

Dopo aver invitato i credenti ad una buona condotta e a un cammino di perfezione, l’autore di questa lettera parla della forza della parola profetica. Mette insieme cioè due elementi piuttosto diversi: la disciplina e l’eccesso, la visione e l’autocontrollo. Sono i due poli tra cui si muove sempre la nostra fede: l’entusiasmo dello Spirito santo, da un lato, e la discrezione della virtù, dall’altro, che ci fa percepire la critica necessaria a non invadere la vita degli altri. Abbiamo bisogno di tutti e due i modi di vivere la fede. Abbiamo bisogno di disciplina, virtù, e costanza.

Non è un caso che qui lo scrittore biblico riprenda le virtù civiche del suo tempo per proporle ai cristiani che vivevano in una società largamente influenzata dalla filosofia greca e dai poteri dell’Impero romano:

- virtù e conoscenza sono due termini della cultura stoica, che afferma come, conoscendo il mondo, si coltivano le virtù;

- autocontrollo: è un termine che avrà una lunga storia, fino a diventare quasi un emblema del mondo puritano;

- pazienza. Ricordo che Paolo aveva in precedenze legato la pazienza all’esperienza e alla speranza, aprendo così su un futuro nuovo le prospettive della capacità di resistere pazientemente;

- pietà: anche questo è un termine ellenistico, che si segnala qui per essere così diverso dalla compassione del Dio ebraico che è coinvolto con la sofferenza del mondo;

- affetto fraterno e amore sono i termini finali che collocano i vincoli tra le persone su piani diversi e crescenti.

E’ un crescendo che parte da sé stessi e va verso gli altri.

Solo con uno sguardo attento su di sé si possono amare gli altri dando loro l’attenzione che meritano, perché si evita di restare concentrati su se stessi. L’apostolo Paolo, con ben altro respiro, aveva invitato a guardare la prassi di Gesù, che svuotò se stesso per incontrare l’altro, l’umanità.

Questo predicatore si limita a parlare della conoscenza del Signore, e forse ripete una lezione ricevuta proprio da Paolo e da Gesù: non puoi guardare e giudicare l’altro se non cominci da te. Noi siamo eredi di tutte e due queste visioni del mondo. Ma poi c’è il passaggio più forte e entusiasmante sulla parola della profezia. La cosa ironica è che questo autore pretende di essere l’apostolo Pietro, e di aver quindi assistito alla trasfigurazione di Gesù sul mondo. Sappiamo invece che chi ha scritto questa lettera non era un contemporaneo di Gesù. Ma questo non ci fa forse ancora più riflettere? Non siamo forse tutti testimoni della vita di Gesù grazie ai racconti dei Vangeli?

E soprattutto grazie alla fede, che ci mette in una relazione diretta con lui, non come lontani successori alle prese con tempi che Gesù non ha conosciuto, ma invece come esseri umani che sempre si trovano a dibattersi tra orgoglio e fiducia, tra amore e rivalità. Gesù conosce profondamente interiorità umana, e ci offre così una parola sempre attuale con cui confrontarci, anche se oggi abbiamo aerei e computer, e allora si andava in giro a piedi e le notizie passavano di bocca in bocca.

Ancora più bella dunque la descrizione che questo testimone del II secolo fa della parola profetica: come una lampada in un luogo oscuro, mentre aspettiamo che sorga l’alba. Il mondo è un luogo in cui manca la luce, questo lo affermano tutti i profeti e gli apostoli. Cristo viene come una luce a illuminare l’attesa, a rischiarare il cammino, a rendere evidenti le falle del progetto umano di salvezza. Ma l’alba ancora non c’è: ci viene offerta questa luce, la parola, la bibbia, ma anche la parola dei testimoni, che lasciano passare in loro la presenza dello Spirito santo. L’immagine è altamente evocativa, anche perché questa lettera parla proprio degli ultimi tempi, della nostra spasmodica attesa di “nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia” (3,13).

Questa luce è in mezzo a noi, ci permette di camminare, di fare comunità. A volte andiamo un po’ a tentoni, a volte crediamo di poterne fare senza, ma la luce ci è data, ed indica la via dell’amore. Come le virtù della perfezione e della disciplina culminavano nell’amore, così anche la parola profetica non è mai aspro giudizio sugli altri, non è una parola che divide e distrugge. Essa al contrario costruisce, proprio come la luce nella notte, che permette di stare assieme, di comunicare, di lavorare, di non perdere il contatto. L’autore di questa lettera si spinge poi a dire che la parola profetica non viene dal desiderio umano.

Certo questi versetti possono aver sostenuto una interpretazione fondamentalista, che cerca certezze invece di accettare che la vita sia fatta di ricerca e di rischio. Eppure anche qui questo antico testimone sta cercando di togliere dal centro l’arroganza umana, i poteri che prendono il sopravvento, le pretese di sapere meglio degli altri. Una fede autentica riconosce che all’opera è Dio e non noi, e che il nostro miglior risultato non può eguagliare il dono di profondità che viene dalla presenza divina.

Riconoscere nell’altro lo Spirito che parla ci è spesso molto difficile. Siamo tentati di squalificare l’altro, per la sua diversità, per la sua lontananza da noi. Questa parola ci rende attenti, invece. E anche l’attenzione, alla fine, è una disciplina: diventare attenti alla parola e alla luce che ne emana, ci rende più attenti agli altri, agli uomini e alle donne con cui siamo chiamati a essere comunità di Gesù Cristo.

Predicazione della Pastora Letizia Tomassone, Domenica 5 maggio - Chiesa Evangelica Valdese di Firenze