Credo che la maggior parte di noi conosca ormai a memoria la parabola del buon samaritano. Da qualche anno ormai nelle chiese valdesi e metodiste si parla della diaconia utilizzando come paradigma di riferimento proprio questa parabola. È stato così anche quest’anno durante i lavori sinodali. La Commissione d’esame sull’operato della nostra diaconia ha ripreso la parabola per dimostrare che il lavoro retribuito dell’oste non può essere considerato diaconia; soltanto l’azione del Samaritano può essere considerata tale. Il samaritano presta soccorso la persona ferita e tira fuori i soldi dalla propria saccoccia. Nel corso del dibattito ovviamente la parabola è stata rivoltata come un calzino; un giovane pastore siciliano ebbe a dire che la vera diaconia è addirittura far sparire i briganti dalle strade.
Vorrei proporre questa mattina una lettura leggermente diversa del testo di Luca. Una lettura diaconale che cerca tuttavia di andare oltre le semplificazioni retoriche molto utili nel dibattito sinodale, un po’ meno efficaci quando si tratta di predicare la Parola di Dio.
Con quale domanda inizia questo particolare dialogo tra i due conoscitori delle Scritture ebraiche? Dalla domanda: «Maestro, che devo fare per ereditar la vita eterna?». Badiamo bene: non si tratta di chiedere un puro consiglio etico: Maestro, che devo fare per migliorare la mia vita, le mie condizioni psicofisiche? Oppure: Maestro, che devo fare per migliorare la società e il mondo intero?
La riposta di Gesù non è altro che il comandamento d’amore composto da due citazioni delle Scritture ebraiche Deuteronomio 6,5 e Levitico 19,18. «Fa' questo, e vivrai». Vivrai in eterno.
Basterebbe già questo brano per costruire un intero sermone. A mo’ di commento mi soffermo soltanto sulla parafrasi di una dei più celebri detti di Calvino: dove Dio non è amato anche l’essere umano non può essere amato. Calvino parlava di onorare Dio e rispettare gli esseri umani. Io preferisco il verbo “amare” che presuppone il dono di sé all’altro, un’unione intima e profonda con Dio e con l’altro, l’agape appunto. Mi rendo conto che la frase di Calvino è una forte provocazione e che qualcuno potrebbe obiettare portando esempi di coloro che pur non confessando alcun credo religioso hanno amato profondamente l’umanità. Importante che la provocazione rimanga tale; non penso di ritrattarla.
Proviamo ora ad analizzare un altro elemento portante della risposta che Gesù dà al dottore della legge. Il prossimo è colui che usò misericordia. Il sostantivo ‘plêsion’ ricondotto al suo contesto ebraico significa il vicino di casa. Paradossalmente non si tratta di qualcuno che deve essere servito, aiutato. Al contrario: è una persona su cui contare nel momento di sventura. Amalo perché in lui in lei si manifesta l’amore e la bontà di Dio. Sii pronto ad accettare il suo servizio perché solo così tu potrai diventare prossimo di qualcun altro. Prima ricevere, poi donare. Non si può donare se prima non si è ricevuto. Questo anche il senso dell’espressione “usare misericordia”. Il Samaritano è dunque il prossimo dell’uomo ferito, non il contrario.
Ritornando al dibattito sinodale vorrei affermare che il samaritano svolge indubbiamente una nobile azione diaconale. Il samaritano però non è altro che l’incarnazione metaforica di Cristo. L’uomo ferito siamo noi, colpiti dalle ingiustizie, dai briganti che colpiscono nel corpo e nello spirito. Spesso siamo ridotti allo stremo, privi di sensi, a un passo dalla morte. Proprio in queste situazioni Cristo si china davanti a noi, comincia a fasciare le nostre piaghe, versandovi olio e vino per purificarci da ogni scoria di male che sta distruggendo la nostra esistenza. L’oste rimane in tutto questo una figura piuttosto neutra che ci ricorda la concretezza della nostra esistenza. Il sacerdote e il levita esprimono una forte critica alla religione fatta di riti ma priva di amore, distante da ogni forma di misericordia.
Dove si trova in tutto questo la dimensione diaconale? Nella comunione con Cristo Diacono raffigurato nella persona del Samaritano.
Domenica scorsa ho parlato da questo pulpito della necessità di rendere testimonianza a Gesù Cristo con le nostre parole. Oggi aggiungo che questa stessa testimonianza ha bisogno della concretezza di un’azione diaconale. È ovvio che oggi tale azione ha bisogno di operatori qualificati e quindi di denaro, di amministrazione, di certificazioni pubbliche. Per me però rimane sempre importante che in tutto questo emerga una chiara testimonianza a Colui che usa la misericordia verso di noi e che ci rende capaci non solo di migliorare le condizioni di vita ora e qui ma anche di testimoniare l’esistenza un mondo nuovo e di una vita rinnovata dallo Spirito di Dio.
Predicazione del pastore Pawel Gajewski domenica 6 Settembre 2009, Chiesa Evangelica Valdese di Firenze