Un Credo

 

Crediamo tutti in un solo Dio creatore del cielo e della terra

che si offerse come Padre perché fossimo suoi figli:

Dio ci nutrirà sempre, ci conserverà nell'integrità,

ci difenderà da ogni sventura e il dolore non potrà toccarci; veglia su di noi e ci protegge, lui che ha potere su ogni cosa.

Crediamo anche in Gesù Cristo Figlio suo e nostro Signore, in eterno presso il Padre,

Dio di ugual potere e gloria,

dalla vergine Maria

nato per lo Spirito Santo come vero uomo,

morto sulla croce per noi che eravamo perduti

e dalla morte risuscitato per volontà di Dio.

Crediamo nello Spirito Santo Dio insieme al Padre e al Figlio, detto “il Consolatore di ogni debole” che ci rende belli dei suoi doni.

Tutti i cristiani sulla terra condividono questa stessa fede; tutti i peccati saranno rimessi

e vivremo una nuova vita dopo questo esilio,

perché si prepara a noi la vita nell’eternità.

(ispirato all'Inno "Wir glauben all an einen Gott" di Martin Lutero 1524)

 

LA PREGHIERA, TEMPO DI DIALOGO E DI ASCOLTO

di Pasquale Iacobino

Colossesi 4:2-4

 

“Buon giorno” disse il piccolo principe.

“Buon giorno” rispose il mercante. Era un mercante di pillole perfezionate che calmavano la sete. Se ne inghiottiva una alla settimana non si sentiva più il bisogno di bere.

“Perché vendi questa roba?”, disse il piccolo principe.

“E’ una grossa economia di tempo”, disse il mercante. “Gli esperti hanno fatto dei calcoli. Si risparmiano cinquantatré minuti alla settimana”.

“E che cosa se ne fa di questi 53 minuti?”

“Se ne fa quel che si vuole…”

“Io – disse il piccolo principe – se avessi 53 minuti da spendere, camminerei adagio adagio verso verso una fontana…”

 

L’apostolo Paolo pregava. Dedicava alla preghiera evidentemente una ricca parte del suo tempo. Un tempo speciale che richiedeva raccoglimento e concentrazione. Un tempo che accoglieva le sue palpitazioni.

Paolo pregava. Associate al pregare usa spesso le parole “sempre”, “incessantemente”. Pregava “giorno e notte”, “nello Spirito e con la mente”, rendeva lode a Dio Padre per l’opera di Cristo, ringraziava per i doni di parola e conoscenza ricevuti dalla chiesa, pregava per il progresso delle comunità e chiedeva alle comunità di pregare per la sua opera missionaria, “affinché mi sia dato di parlare apertamente, per far conoscere con franchezza (con forza di persuasione) il mistero dell’evangelo (Ef. 6,19)”, oppure “affinché la parola del Signore si spanda e sia glorificata” (2 Tess.3,1).

Paolo è convinto di una cosa: c’è un rapporto tra il pregare e l’essere figlie e figli di Dio. Secondo l’apostolo è lo Spirito santo che parla nella nostra preghiera. La possibilità di rivolgerci direttamente e con familiarità a Dio, chiamandolo Abbà, (papà, babbo) è permessa dallo Spirito: “Perché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, che grida: Abbà, Padre! (Galati 4:6). Grazie al Figlio, diventiamo figli di Dio.

Accade un paradosso: è il nostro spirito che prega, ma è mediante lo Spirito santo che comunichiamo intimamente con il nostro Padre celeste. La nostra umanità non viene cancellata. Diviene dimora scelta, diviene albergo prenotato che accoglie lo Spirito del Figlio. Paolo scriverà “Io vivo, ma non sono più io, bensì è Cristo che vive in me” (Galati 2,20). Così come è grazie al Figlio che diventiamo figli di Dio, così anche nella nostra preghiera è lo Spirito santo che parla.

 

(Signore…Tu che vieni alle nostre labbra quando preghiamo…)

 

E’ questa filialità (e questa familiarità) che rende dunque la preghiera un dialogo a tu per tu con Dio. Riflettiamo su qualche aspetto.

 

La preghiera è un dialogo reso possibile innanzitutto dalla volontà di Dio di stabilire una relazione con noi. E’ l’amore di Dio che precede ogni cosa. La preghiera è l’eloquenza della fede (Giacomo 5,15) che risponde all’annuncio dell’amore di Dio per i suoi figli e per le sue figlie. E la risposta degli uomini e delle donne che confidano in Lui può essere anche accettare di partecipare ad un gioco di inseguimento, ricerca, nascondimento e scoperta. Persino un gioco con le regole del desiderio ardente “O Dio, dall’aurora io ti cerco, la mia anima ha sete di te mio Dio…ti parlo nelle veglie notturne…“ (Salmo 63).

La preghiera presuppone l’ascolto. Uno dei punti più alti delle Scritture ebraiche è il grande comando dell’ascolto, lo Shema’Israel in Deut.6,4: Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo! Amerai il Signore tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze. Dall’ascolto nasce la conoscenza e dalla conoscenza l’amore. Lo stesso valore generante viene attribuito all’ascolto dal Nuovo Testamento. Nell’episodio della trasfigurazione, la voce dalla nube dice: “Questo è il mio Figlio diletto: ascoltatelo” (Marco 9: 7). Per i credenti è essenziale avere “un cuore che ascolta” (1 Re 3:9): ascoltare con il cuore significa tentare di ascoltare qualcuno rispettando l’integrità della persona e la complessità delle situazioni. Dando spessore agli aspetti razionali, ma anche a quelli emotivi e affettivi. Con sapienza, intelligenza e discernimento.

A volte non riusciamo ad ascoltare nemmeno noi stessi. A volte non ci rendiamo conto di quale tipo di sete siamo portatori. E ci dissetiamo con le soluzioni sbagliate. Se ci ascoltiamo dentro sentiremmo l’anima nostra che ha sete di Colui che ci ha dato vita nuova, ha voglia di ascoltarne la voce soave. Vero ristoro dell’anima.

Ecco perché nell’esercizio dell’ascolto si è andata riscoprendo la dimensione del silenzio (anche al di là delle tradizioni ascetiche o mistiche). Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer diceva che “nel silenzio è insito un meraviglioso potere di osservazione, di chiarificazione, di concentrazione sulle cose essenziali”. A volte il silenzio è più eloquente di qualsiasi parola: il silenzio tra gli sguardi di due persone innamorate, il silenzio del lutto.

Un silenzio per la preghiera non è semplicemente il non-parlare, o il dire meno parole. Un silenzio per la preghiera è quel silenzio che diventa custode della nostra interiorità. E’ quel silenzio che fa tacere i pensieri, i giudizi, le mormorazioni che nascono dal nostro cuore, luogo della lotta spirituale (“perché è dal di dentro, dal cuore degli uomini, che escono cattivi pensieri” Marco 7:21)

Un silenzio per la preghiera è quel silenzio che scava dentro il nostro cuore per creare spazio e per fare abitare la Parola del Signore, l’amore di Dio per noi, l’amore, l’accoglienza e l’attenzione per l’altro.

Il silenzio richiede tempo. Piccoli passi verso la fonte.

Quindi, riassumendo:

La preghiera come dialogo tra Dio e i suoi figli e le sue figlie, nel nome di Gesù Cristo e nella libertà dello Spirito.

La preghiera richiede ascolto,

L’ascolto richiede di apprendere il silenzio interiore.

 

Perseverate nella preghiera! Così ci esorta Paolo.

Preghiamo:

(Signore…Tu che vieni alle nostre labbra quando preghiamo…)

 

“…qui è la nostra casa,

la porta dove attendere,

abbiamo occhi minacciati

e ringraziamo.

Accendi il lume che conosci

E così sia.”

(R.Carifi, Poesie di Dio, p.63)

 

 

 

Martin Lutero

di Piero Bensi

Note biografiche

 

10.11. 1483 Nascita ad Eisleben (Germania)

1501 Università di Erfurt

1505 Magister Artium - entrata in convento

1510 Viaggio a Roma

1511 Trasferimento a Wittemberg

1512 Dottore in teologia

1513 Lezioni sui Salmi

1515 Lezioni sui Romani

1516 Lezioni sui Galati

 

31.10. 1517 Le 95 Tesi

1518 Disputa di Heidelberg

1519 Disputa con Eck a Lipsia

1520 Bolla "Exurge Domine"

De captivitate babilonica ecclesiae

De libertade christiana

Lutero riceve la bolla di scomunica

Lutero brucia la Bolla

1521 Dieta di Worms

Rapimento alla Wartburg

Traduzione della Bibbia

1523 Primi martiri a Bruxelles

1525 Rivolta di Thomas Müntzer

1525 Battaglia di Frankenhausen

De servo arbitrio

Matrimonio con Catharina von Bora

1530 Dieta di Augusta

Confessio Augustana (Melantone)

1535-36 Rivolta dei fanatici di Münster

18.11.1546 Morte ad Eisleben

Chi è Lutero

 

Non ci fermiamo sui particolari biografici di Lutero, che si possono trovare in qualsiasi libro di storia, sia pure con giudizi e angolature assai discutibili.

Quel che interessa la nostra esposizione - io penso - è il pensiero di Lutero. Ma trattandosi di un "pensiero religioso" nel senso più profondo del termine, non possiamo parlarne senza fare un preciso riferimento alle esperienze di vita, di mente e di cuore che lo hanno condizionato. Solo il pensiero scientifico o filosofico può - ma non sempre - fare astrazione dalle esperienze umane nelle quali si viene formando. Quello religioso biblico, mai.

Lutero nasce e fiorisce in pieno Umanesimo. Le grandi scoperte geografiche, le invenzioni (fra cui essenziale quella della stampa, senza la quale ben difficilmente il pensiero di Lutero si sarebbe propagato con tanta velocità), i nuovi commerci, la poesia, la filosofia, ecc. danno allo spirito umano una nuova dimensione. La Francia. l'Inghilterra e la Spagna sono Stati quasi moderni, sostenuti da patriottismi ardenti. Vecchi ideali crollano, nuovi idoli vengono adorati.

Lutero, nella sua prima gioventù, non ha avuto grande sentore di tutto questo rivolgimento. Egli era un oscuro figlio di un'umile famiglia di montanari della Turingia. I suoi primi studi e la sua stessa vocazione non sembrano proprio indirizzarlo verso un ruolo di assoluto protagonista nel mondo raffinato del suo tempo. Ben diverso da Erasmo, la cui educazione raffinata lo predestinava già al ruolo di grandissimo umanista.

Lutero è figlio del popolo e come tale reagirà sempre di fronte alle circostanze e agli uomini.

E' in questo fatto, oltre che nei costumi del tempo, che va trovata la spiegazione di molte sue violenze di linguaggio o di alcune grossolanità di proposito, che talvolta ci danno fastidio.

Del resto, certe frasi che oggi non ci sentiremmo di usare dal pulpito, erano abbastanza normali in quei tempi.

Il pensiero e l'atteggiamento umanistici non l'hanno mai sedotto. Basta considerare il suo rapporto con Erasmo. Se per un certo tempo Lutero lo ha stimato e ammirato, tuttavia, con una sicurezza di giudizio sorprendente, Lutero ha sentito subito che la loro fede non era comune e che in quell'umanesimo facilmente soddisfatto di sé c'era un radicale tradimento dell'evangelo.

Il pensiero religioso si esprimeva nelle scolastiche tradizionali che Lutero imparò come monaco e che insegnò pure per qualche tempo.

Lutero entra nel convento di Erfurt

Lutero entra nel convento di Erfurt il 17.7.1505, a 22 anni. Che cosa lo aveva spinto a questa decisione, del resto abbastanza comune a quei tempi? La leggenda si è ampiamente impadronita dei fatti ed è evidente che in un animo talmente grande non sono i fatti esteriori che possono averlo condotto ad una simile decisione, bensì un profondo travaglio interiore. Tre avvenimenti susseguitisi con ritmo incalzante, possono tuttavia avere ampiamente contribuito:

1503 poco prima di Pasqua: si ferisce con la spada così gravemente da rischiare la morte per emorragia;

pochi mesi dopo, un suo intimo amico muore di morte violenta;

2.7.1505 un fulmine cade presso di lui strappandogli un grido d'angoscia ed anche un voto: farsi monaco.

Fin dall'inizio dei suoi studi teologici, Lutero è come ossessionato da un pensiero: la salvezza personale. Può Dio perdonarlo? Come esserne certi?

Si può certo, oggi, come taluno ha fatto, accusare Lutero di egocentrismo psicopatico e ossessivo. Rimane il fatto che può conoscere la profonda gioia di liberazione dell'Evangelo soltanto chi ha realizzato in pieno la gravità della Legge, chi ha tremato di fronte al giudizio di Dio.

E' importante comprendere questo perché è la base di quella che sarà la "teologia della croce", il centro del pensiero luterano, che vedremo fra poco.

La lotta di Lutero durò dieci anni

Bisogna vivere santamente per guadagnare il cielo. Questo l'assioma che lo tortura in questi anni. Troppo profondo conoscitore di sé stesso per accontentarsi di una pietà esteriore e di una condotta irreprensibile, il giovane monaco è tormentato dalla triste realtà del suo peccato interiore, che - con termine paolinico - chiama "la sua concupiscenza".

Non si tratta ovviamente di pensieri di ordine sessuale (non dimentichiamo che Lutero si sposerà ben 8 anni dopo l'affissione delle 95 tesi) bensì della dolorosa costatazione che l'egoismo, l'orgoglio, la ribellione a Dio sono realtà radicate nell'animo umano, che nessuna macerazione fisica può cancellare.

 

La battaglia di Lutero

Dio è per lui essenzialmente il giudice, un sovrano esigente e temibile. Il Cristo stesso è "Colui che verrà a giudicare i vivi ed i morti". Bisogna cercare di soddisfare con le opere questo Dio esigente.

"Mi si rizzavano i capelli quando pensavo al giudizio universale... Abbiamo creduto di dover placare la collera divina con le nostre opere meritando attraverso esse il cielo, ma non siamo riusciti a niente... Tutta la mia vita non era altro che digiuni, veglie, preghiere, sudori. Ma, sotto la copertura di questa santità e della fiducia nella mia giustizia, io nutrivo una perpetua diffidenza, dei dubbi, una paura, una voglia di odiare e bestemmiare Dio..."

"Mi sono martirizzato con la preghiera, il digiuno, le veglie, il freddo. Sono quasi morto per il freddo. ...Ero il persecutore e il carnefice della mia carne" (2).

Quale teologia viene insegnata a Lutero per calmare il suo dramma? La scolastica di Occam, interpretata e riassunta da Gabriel Biel.

Dio è essenzialmente volontà e spesso volontà arbitraria. Le cose sono buone solo nella misura in cui Dio le considera tali. E' la sua decisione che fissa il bene e il male. L'uomo deve prepararsi alla grazia. Fare il bene è il nostro compito. Guai a chi non compie quest'opera. Tuttavia il dono della grazia deve intervenire per assumere questa buona volontà umana.

E' facile immaginare che una simile teologia non poteva soddisfare l'animo assetato di assoluto di Lutero. Non solo, ma lo gettasse nella disperazione, nella piena e totale incertezza della sua personale elezione da parte di Dio.

Quando si vuole Dio, conoscere se stessi è una abominazione. La disperazione morale di Lutero per la sua imperfezione si trasformava in disperazione religiosa, la disperazione della sua separazione da Dio.

 

La scoperta di Lutero

Quando con esattezza sia avvenuta la grande rivelazione nella vita di Lutero, non possiamo dirlo. E' stata come un'alba nordica che poco per volta ha inondato della sua luce la mente e l'animo di Lutero.

Quello che è certo è che non è stata una luce cervellotica o filosofica, bensì una luce proveniente dalla meditazione ed esegesi umile, sottomessa alla Parola di Dio. E' proprio studiando Romani, Galati, Ebrei e i Salmi, che Lutero ha capito.

La crisi risolutiva si svolge intorno al significato del termine "la giustizia di Dio" sul quale Lutero medita a lungo durante la preparazione delle sue lezioni. "La giustizia di Dio è rivelata nell'Evangelo, com'è scritto: il giusto vivrà per fede" (Rom.1,17).

Lutero incomincia a comprendere che la Giustizia di Dio significa qui la giustizia che Dio dona e per la quale il giusto vive, se ha fede. E' la giustizia per mezzo della quale Dio, nella sua misericordia, ci giustifica per mezzo della fede.

Scrive Lutero: "Improvvisamente mi sentivo rinascere e mi sembrò di esser entrato attraverso porte largamente aperte nel Paradiso stesso. Da quel momento la Scrittura intiera prese agli occhi miei un aspetto nuovo". Man mano che questa idea prende corpo e si precisa, Lutero la riscopre negli altri libri della Scrittura, in molti Padri della chiesa (particolarmente Agostino) e in breve tempo colleghi e allievi di Wittemberg ne vengono conquistati.

E' un rovesciamento totale di tutte le sue convinzioni precedenti. Non può esserci penitenza sufficiente, perché il peccato è infinito. Non possiamo meritare il perdono, come alcun altro dono di Dio. Possiamo solo riceverlo: esso è gratuito. Al posto di uno sforzo (del resto impossibile) sovrumano per arrivare ad amare Dio, ci viene chiesta un'umile fiducia, un totale abbandono nell'amore di Dio, il quale veramente ci ama.

Partito da una concezione di un Dio implacabilmente giusto, che reclama santità assoluta ("Siate santi poiché io sono santo!"), Lutero era giunto quasi alla disperazione nel constatare la sua impotenza morale. Egli ride quasi furiosamente di tutti quei filosofi e teologi che affermano la possibilità di compiere la legge. Dov'è il libero arbitrio? Se fosse veramente libero, quest'arbitrio segreto dei nostri atti, potrebbe sradicare l'egoismo mostruoso che è in noi. Ma non può.

Ecco allora il problema senza soluzione umana: come può l'uomo peccatore, incurabilmente peccatore, per sempre peccatore sulla terra, come può sussistere davanti a Dio e vivere e sperare?

 

La giustizia imputata

La risposta viene dalla Parola di Dio: "E' Dio che giustifica l'empio". Giustificare = dikaioo = dichiarare giusto. Dio imputa all'uomo che ha fede la giustizia della Croce, la giustizia di Cristo. Non una giustizia attiva costituita dalle opere dell'uomo, ma una giustizia passiva per cui Dio non vede più il peccatore quale esso è, ma come coperto della giustizia che Egli ha elargito. L'uomo è dichiarato giusto al cospetto di Dio, pur rimanendo ancora in realtà peccatore. Simul iustus et peccator!

Gli scolastici, come abbiamo visto, affermavano che per rendere la grazia efficace occorre da parte umana una certa disposizione, una preparazione.

Ma Lutero afferma: "L'amore di Dio non trova nulla di amabile in noi, ma se lo crea... L'amore di Dio che diventa vivo nell'uomo ama ciò che è peccaminoso, cattivo, pazzo, debole, per renderlo giusto, buono, savio, forte e così si spande e crea il bene. I peccatori sono belli perché sono amati e non sono amati perché sono belli..."

Le qualità naturali dell'uomo sono capaci soltanto della giustizia della carne, giustizia che non soltanto non è un presupposto o una condizione per ottenere la giustizia di Dio, ma che anzi dev'essere distrutta, divelta, dispersa.

"Noi siamo giusti per la sola reputazione divina. Ma la sua reputazione non è in noi, né in nostro potere; dunque neppure la nostra giustizia è in noi ed in nostro potere".

"Infatti ha la giustizia non colui che possiede la virtù, anzi egli è del tutto peccatore e ingiusto, ma colui che per la confessione della propria ingiustizia e per la supplicazione della giustizia di Dio è da Dio reputato giusto nel suo cospetto".

L'imputazione della giustizia di Dio: ecco il grande messaggio liberatore dell'Evangelo! Non v'è più posto per le opere meritorie, per l'amor sui, per la considerazione del nostro lavoro; non più un do ut des, ma libera risposta dell'uomo all'amore di Dio, che tutto ha già dato: perdono, giustificazione, pace, gioia, vita eterna in Cristo.

Dio ci imputa l'opera del suo Figliuolo: d'ora innanzi l'umanità è considerata dal Creatore sotto il segno della Croce. Questa è la salvezza.

E' certo fare un torto a Lutero affermare - come alcuni hanno fatto - che egli abbia voluto esaltare il peccato umano. Il "pecca fortiter, sed crede fortius" della sua lettera a Melantone non vuole certo essere una esortazione al peccato. Al contrario, vuol essere un'esortazione alla sincerità, alla onesta di fronte a Dio.

Fino alla morte Lutero sarà addirittura affamato di santità. Ma non si possono compiere opere buone per meritare la salvezza. Lutero condanna e odia ne opere nella misura in cui queste tendono ad assicurarci una salvezza che può venire da Dio soltanto. La certezza della salvezza è unicamente un dono di Dio.

 

Le buone opere

Le opere compiute nello spirito del "do ut des" sono un veleno mortale per l'uomo, impedendogli di discernere il dono di Dio. Al contrario esse diventano legittime, indispensabili, direi inevitabili, care e preziose, quando sono suscitate dalla fede, quando sono fatte non per trarre un vantaggio, ma perché non si può non esprimere attraverso di esse il proprio amore al Signore. E si dimenticano nella misura in cui è il Signore che le compie attraverso di noi e per noi.

Basta leggere le pagine di quel memorabile libretto "La libertà del cristiano" scritto nei momenti più cruciali della sua lotta per conoscere la "glorificazione delle opere" (come dice Lutero stesso) senza le quali non c'è fede, senza le quali ogni nostra credenza non è che menzogna.

"Non sono le buone opere che fanno l'uomo buono, ma è l'uomo buono che fa le opere buone". Ciò significa anche un approfondimento, nel corso degli anni, della nozione di dikaioo. E' sempre un dichiarare giusto da parte di Dio, mai un rendere giusti. Tuttavia il fine di questa giustizia è pur sempre la santificazione. Per cui la giustizia imputata diventa - almeno in piccola parte finché siamo su questa terra - una giustizia che si realizza, che spinge il credente verso le opere di giustizia. Non mai come una qualità nostra intrinseca, che ci appartenga, bensì come un'opera di Dio in noi.

Il peccatore giustificato - dice Lutero - è ad un tempo infermo e sano. E' infermo in verità, ma sano per la certa promessa del medico, cui crede e che lo considera già sano, perché è certo che lo sanerà, perché ha cominciato a sanarlo e non gli ha imputato l'infermità a

morte. Nello stesso modo Cristo, il nostro Samaritano, ha accolto l'uomo mezzo morto, lo ha ricevuto nel suo albergo per curarlo e ha cominciato a guarirlo, promettendogli una perfetta guarigione per la vita eterna; e non gli imputa il peccato, cioè la concupiscenza per la morte; ma gli proibisce nel frattempo di fare o di tralasciare nella speranza della salute quanto possa ostacolare quella guarigione ed accrescere il peccato cioè la concupiscenza.

 

Il giusto vivrà per fede

E' dunque interamente giusto? No: è ad un tempo peccatore e giusto; peccatore nella realtà, ma giusto per il giudizio favorevole e la promessa di Dio. La situazione del credente perciò è quella di chi è salvato in speranza e attende la sua redenzione. Egli è sempre giusto e sempre peccatore e dev'essere quindi sempre penitente; la sua giustizia dipende dal giudizio che Dio pronuncia su di lui, che - in Cristo - è il giudizio favorevole del perdono.

La giustizia imputata rimane uno dei tratti particolari della teologia di Lutero, per cui non è possibile sottrarsi alla sua dialettica di peccato e di grazia e fermarsi unicamente su una affermazione senza sentire ad un tempo il suo contrario. La visione che Lutero ha di Dio è nel tempo completamente mutata: Dio non è più il "Dio irato" dell'Antico Testamento, ma in Cristo è il Dio pieno d'amore, è puro amore, una fornace ardente d'amore.

L'ira di Dio è assunta in sé dal Cristo e lascia il posto ad un amore sconfinato, degno di tutta la fede, che non è più soltanto la fides theologica, ma diventa completa fiducia, totale abbandono. Ne fanno fede i suoi inni, le sue poesie e in particolare quella preghiera scritta durante la notte di attesa alla Dieta di Worms (1521):

"Oh! Dio... oh! Dio... oh, mio Dio!... Tienimi vicino a Te contro la ragione e la saggezza del mondo. Fallo, tu che puoi! Tu solo puoi farlo! Io non agisco per una causa che riguarda me, ma per la tua causa. Chi sono io? Che potrei fare, io, di fronte ai potenti signori di questo mondo? Quando potrò avere dei giorni tranquilli senza problemi? E' in gioco la tua causa, Signore, la tua causa giusta, eterna. Sostienimi, o Dio fedele, Eterno! Io non confido in nessun uomo.

 

Tutto è vanità, la carne è carne, ed è mortale. O Dio, Dio! Non mi ascolti? Mio Dio, sei tu morto? No, tu non puoi morire, Tu ti nascondi soltanto. Non è forse vero che non ho mai pensato di levarmi contro così possenti signori? Oh, Dio! Vienimi in aiuto nel nome del tuo diletto Figliuolo Gesù Cristo, mia forza, mio scudo, fortificami col tuo Santo Spirito.

 

Signore, dove risiedi? Mio Dio, dove sei? Vieni, vieni, io sono pronto a dare la mia vita come un agnello. Poiché questa causa è giusta, è la tua, e non voglio separarmi da Te per l'eternità. Questo ho deciso in tuo nome, il mondo non potrà forzare la mia coscienza quand'anche fosse pieno di diavoli. E se il mio corpo, la tua creazione, l'opera delle tue mani, perirà, la mia anima è tua, ti appartiene, dimorerà eternamente con Te. - Amen - O Dio, sostienimi! Amen" (3)

 

L'indomani potrà dichiarare di fronte a Carlo V e a tutti i grandi:

"A meno che non mi si convinca con testimonianze scritturali o con una ragione di evidenza (poiché io non credo né al Papa, né ai Concili soltanto: ripetutamente hanno errato, troppo spesso si sono contraddetti essi stessi) io sono vincolato dai testi che ho portato; la mia coscienza è prigioniera della Parola di Dio. Ritrattare qualunque cosa io non posso, né voglio. Poiché agire contro la propria coscienza non è senza pericolo, né onesto. Che Dio mi aiuti!".

La teologia della Croce

Non è possibile comprendere Lutero senza esaminare con una certa accuratezza quella che egli chiama la "TEOLOGIA DELLA CROCE", che è il centro di tutto il suo pensiero e dalla quale scaturiscono come conseguenze logiche tutte le sue altre concezioni teologiche.

La Teologia della Croce ha preso corpo e si è rivelata nella famosa "Disputa di Heidelberg" del 26 Aprile 1518. E' in questa disputa che per la prima volta Lutero manifesta pubblicamente e decisamente la sua originalità e la sua opposizione alla teologia imperante, la quale tentava di capire Dio in termini di pensiero logico, ragionando dal visibile verso l'invisibile, deducendo l'esistenza di Dio dalla realtà del creato.

Ma - si domanda Lutero - è proprio a Dio che si giunge per una simile strada? O soltanto ad una causa ultima, ad una forza anonima che ha messo in movimento tutto il resto? Causa e forza sono neutre: esse possono produrre bene e male. Inoltre è una semplificazione illecita voler vedere Dio attraverso le splendide e buone manifestazioni del cosmo, dimenticando le sofferenze, le distruzioni e la morte con la loro problematica.

Questa è una teologia della gloria che porta inevitabilmente alla delusione a meno di chiudere orecchie e occhi di fronte alla miseria del mondo e a molte altre cose che non sono certo in accordo con la gloria di Dio.

E' la teologia della croce che ci indica la strada giusta: vedere Dio anzitutto e soprattutto nella sofferenza. Noi possiamo essere sicuri dell'amore di Dio soltanto nella Croce. Solo quando siamo riusciti a scoprire l'amore di Dio nelle sofferenze, allora lo possiamo anche vedere altrove, nelle tracce che lascia nella creazione. Soltanto quando lo abbiamo trovato nelle tenebre siamo certi che non ci appoggiamo su di una illusione o su un sogno vano. E' necessario passare di lì, perché l'uomo, al quale si rivolge la creazione, è l'uomo decaduto, ribelle, peccaminoso, caratterizzato dall'amor sui, dal cor incurvatum in se, dalla volontà di affermare se stesso in tutti i campi, anche e soprattutto in quello religioso, tanto che pure in esso vuol servirsi di Dio e godere di se stesso.

Questo amore di sé è la concupiscenza che permea tutte le azioni umane. E' a quest'uomo che la rivelazione è rivolta e per non folgorare l'uomo peccatore e corrotto con il fuoco della sua santità, Dio è costretto a rivelarsi in modo indiretto, sotto la forma e la specie dell'uomo, cioè sotto una forma che è contraria alla vera natura di Dio: sub contraria specie.

Nella "Disputa", Lutero ci ricorda come Mosé non ebbe la possibilità di vedere la gloria di Dio, ma fu obbligato a rimanere in una fessura della roccia mentre la gloria di Dio passava (Es.33). Mosé poté vedere Dio soltanto di schiena, perché "L'uomo non può vedere Dio e vivere".

 

Il Dio nascosto

Così per noi, Dio si rivela sempre e soltanto in modo indiretto. Per non distruggere l'uomo, Dio - per rivelarsi - ha bisogno di coprirsi, di velarsi. Si ricopre con ciò che v'è di più contrario alla sua natura divina: con la nostra umanità, debolezza e sofferenza, in Cristo. E' il mistero dell'incarnazione: Dio nell'abbassamento e nell'ignominia della croce. Che cosa c'è di più contrario alla sua natura gloriosa e divina della nostra umanità crocifissa? Eppure alla domanda di Filippo: "Mostraci il Padre e ci basta", Gesù risponde: "Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Gv.14).

In questa paradossale manifestazione di sé Dio si rivela, ma nel tempo stesso si occulta. Nell'umiliazione della croce lo splendore

delle sue perfezioni si ricopre di un velo: ma il velo è la condizione perché possa essere percepito dallo sguardo della fede. La fede conosce soltanto un Dio occulto e lo conosce appunto perché Egli acconsente a lasciarsi vedere così, quasi di scorcio, di schiena, in questo complesso di miserie umane che di lui sembrano la più palmare negazione e di cui la croce di Cristo è il punto culminante, Deus absconditus, tamen revelatus...

"Il nostro bene è nascosto, e così ben nascosto, che è nascosto sotto il suo contrario. Così la nostra vita è nascosta sotto la morte, l'amore di Dio per noi sotto l'odio contro di noi, la sovranità sotto l'ignominia, la salvezza sotto la corruzione, la regalità sotto la miseria, il cielo sotto l'inferno, la sapienza sotto la follia, la giustizia sotto il peccato, la forza sotto la debolezza. E in generale ogni nostro "Sì" nei riguardi di ogni bene, sotto il "No", affinché la fede abbia spazio in Dio, il quale è la negativa essenza, giustizia, sapienza, di cui non si può prendere possesso o a cui non si può pervenire se non mediante la negazione di tutte le nostre posizioni".

 

L’Opus Alienum

Lutero trova la chiave di questo mistero in un passo di Isaia: "Alienum est opus eius, ut operetur opus suum" (28, 21: in it. "per fare la sua opera singolare, un lavoro inaudito"). I castighi di Dio, dunque, le catastrofi che Egli attira sul suo popolo ribelle, non sono la sua opera propria, l'espressione diretta della sua natura e della sua volontà misericordiosa; sono un'opera non direttamente voluta, "eius opus alienum". Dio non si compiace in essa ma attraverso quell'opera non voluta in se stessa, Dio compie la sua opera propria di amore e di misericordia.

"Dio perde per salvare, danna secondo la carne per glorificare lo Spirito suo... Dio, quando abbandona più completamente, accoglie, e quando condanna più gravemente, salva".

Questo concetto dell' opus alienum introduceva nell'idea di Dio un'apparente contraddizione. Dio è amore, ma per adempiere la sua opera d'amore ha bisogno di compiere atti che sembrano piuttosto ispirati all'odio che all'amore. Lutero si rifà al concetto paolino dell'"ira di Dio" del tutto abbandonato dalla teologia del tempo. L'ira di Dio è un aspetto del suo amore, è l' "opus alienum" attraverso il quale si compie l'opera propria di Dio, la sua volontà salutare.

Dio agisce con durezza, con punizioni e tormenti al fine di spezzare la volontà peccaminosa ed eternamente concupiscente dell'uomo, e questa severa azione di giudizio appare estranea alla sua natura che è amore, come un'opera non sua, eppure Egli fa ciò al fine di redimere e salvare. Così nella storia di Giuseppe ebreo, l'impura moglie di Potifar e il tiranno sembrano favoriti nei confronti del giusto Giuseppe che è in carcere. La via per riconoscere Dio sotto questa specie contraria è la fede, che è "dimostrazione di cose che non si vedono".

Sotto l'aspetto di ciò che umanamente parlando v'è di più misero e doloroso, la fede cerca e scopre in Dio e l'opera sua. In questa forma Egli appare essenzialmente nel Cristo sofferente. In lui il credente può conoscere la misericordia di Dio, la Sua azione salvifica e riconciliatrice. Non il Dio dei filosofi, ma il Dio che ama e che si ricopre dell'umiltà scandalosa dell'umano.

 

La consolazione della teologia della Croce

Pochi teologi hanno saputo descrivere con accenti tanto profondi e toccanti le realtà della croce e delle sofferenze espiatrici del Cristo, nel quale tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti.

"Ogni ascensione onde pervenire alla conoscenza di Dio è perigliosa, eccetto quella dell'umiltà di Cristo. Non cerchiamo Dio altrove, benché sia ovunque presente, non è in alcun sito così vicino a noi come nell'umanità del Salvatore, e la sua presenza non può essere percepita altrove. Nelle sue grandi opere non possiamo contemplare altro che la grandezza della sua potenza, della sua sapienza e della sua giustizia e tutte

le sue opere hanno un aspetto spaventevole. Ma qui la sua dolce misericordia ed il suo amore si offrono agli sguardi. Ed è indispensabile essere prima fortificati dalla conoscenza della sua misericordia e del suo amore, per poter sopportare senza sfiduciarsi la visione delle opere della sua potenza e della sua sapienza.

... Questo è il trono della misericordia davanti al quale nessuno può essere colto dal terrore, anzi ogni anima atterrita trova la consolazione suprema. Qui si rivela la vera natura di Dio che è bontà e dolcezza...

 

Tale è la croce di Cristo, ed ecco la croce dei cristiani:

"L'Evangelo distrugge le cose che sono, confonde le forti, confonde la sapienza e riduce gli uomini al nulla, all'infermità, alla pazzia perché insegua l'umiltà e la croce. Questa regola della croce è aborrita da coloro a cui piacciono le cose terrene e i loro vantaggi, e dicono "Questa parola è dura". Infatti non è strano che sia odiosissima la parola di Cristo a coloro che amano qualche essere, la sapienza, la potenza davanti a sé e davanti agli uomini e si considerano come i primi".

 

Quello che vuole la teologia della croce è detto in modo succinto e molto chiaro all'inizio del corso sui Romani

 

"Il sommario di questa epistola è distruggere, sradicare, annientare ogni sapienza e giustizia della carne, per quanto possa apparire rispettabile agli occhi della gente e ai nostri propri occhi e per quanto sia esercitata sinceramente e di cuore; e per contro piantare, stabilire, potenziare il peccato, per quanto poco sia cosciente e per quanto questa incoscienza possa valere a sua scusa".

Non possiamo addentrarci in tutti gli sviluppi che la teologia della Croce assume in Lutero. Si può tuttavia ricordare come praticamente tutte le dottrine cristiane secondo Lutero hanno il loro riferimento chiaro alla teologia della Croce e da essa dipendono. Così:

La rivelazione di Dio;

La realtà dell'uomo;

L'Evangelo come crisi di ogni religione;

La giustificazione per fede;

La Chiesa;

l'attesa escatologica

 

La teologia della Gloria

Con questa intuizione, Lutero si oppone a tutto ciò che egli chiama la "Teologia della gloria" e che è l'opposto del vero messaggio evangelico. Che cos'è la teologia della gloria?

E' anzitutto la teologia speculativa che pensa di poter giungere ad una conoscenza di Dio muovendo - come abbiamo visto - dalle opere della creazione e da esse risalendo attraverso la visione intellettuale agli attributi e alle perfezioni invisibili di Dio, giunge a definirlo come l'aristotelico "Summum Bonum".

Tutta la teologia naturale che dalla considerazione religiosa del creato pretende arrivare a Dio non è che teologia della gloria, non evangelica. E' la teologia che non conosce lo scandalo della croce, ma si regola secondo i principi della ragione e dell'etica.

Parimenti la Religione, come attività umana carnale, non è che teologia della gloria quando è in fondo affermazione di sé da parte dell'uomo.

 

La religione dell’uomo

Religione è per Lutero ciò che v'è di più alto nell'affermazione spirituale che l'uomo fa di se stesso, è il vertice dell'azione del suo spirito, del suo umanesimo. E' sapienza e giustizia della carne intendendo in termine non nel senso greco dualistico, ma nel senso paolinico. Perciò commentando Paolo, Lutero predica il giudizio non di ciò che di basso e di turpe è nell'uomo, ma di ciò che rappresenta la conquista spirituale dell'uomo che con la sua religiosità pensa di poter giustificare ed elevare se stesso di fronte a Dio.

Questa religione dell'uomo (sublimazione della concupiscenza) va distrutta, sradicata, annientata dall'Evangelo del Cristo crocifisso. Se questo Evangelo è il messaggio della sconfinata misericordia di Dio, è pure giudizio divorante su ogni affermazione positiva della religiosità umana.

Questa visione dell'uomo e della sua religiosità come peccato nel giudizio del Vangelo può apparire angosciosa e disperante. Viceversa Lutero afferma che è proprio il Vangelo che ha tutta la consolazione che viene dalla grazia di Dio. Ascoltiamolo ancora:

"E' certo che l'uomo deve del tutto disperare di se stesso per essere atto a ricevere la grazia di Cristo".

"Parlare in tal modo non significa precipitare le anime nella disperazione, ma umiliarle e spingerle a ricercare la grazia del Cristo".

"Quando Dio fa sentire agli uomini il Suo amore, Egli ama dei peccatori, degli uomini malvagi, stolti e deboli, con l'intenzione di renderli giusti, buoni, sani e forti: Egli si espande in loro e dona loro il Suo bene...

Gli uomini non amano i peccatori, ma Cristo li ha cercati. Ecco l'amore della croce, nato dalla croce, che non va dove troverebbe gioia, ma dove può fare del bene a un peccatore o a un disgraziato".

 

La Chiesa secondo la teologia della Croce

Un'ultima breve parola sulla concezione della Chiesa quale deriva dalla teologia della Croce. La Chiesa è la comunione di coloro che credono in Cristo. Ma poiché è la fede reale, vivente in Cristo che determina se uno appartiene alla Chiesa, chi può tracciare una linea di confine assolutamente definita? Non si può dire chi appartiene alla Chiesa. Si può viceversa dire che cosa la chiesa non é. Essa non è dove si pensa che la verità esteriore può venir ridotta direttamente e concretamente in forme fisse e inalterabili qui sulla terra.

Nessuna istituzione nella Chiesa è in possesso della verità per virtù del suo ufficio, ma ogni istituzione deve essere responsabile di fronte all'evangelo e provare la sua validità nei confronti di esso, che è la sola verità.

Non è l'ufficio che decide, ma l'insegnamento: "Colui che insegna l'Evangelo è papa e discepoli del Cristo; colui che non lo insegna è Giuda e traditore di Cristo".

Il rogo sul quale Lutero brucia il codice canonico (insieme con la Bolla papale) il 20 dicembre 1520 è indicativo a questo riguardo. Esso pone fine al concetto medievale di legge ecclesiastica.. Ancora una volta non si tratta di una necessità rivoluzionaria, bensì di una conseguenza della sua teologia della Croce. Poiché il concetto di legge spirituale pretende di vincolare il divino ad una forma di chiesa terrena, definita, visibile e quindi si pretende che questa legge spirituale sia rispettata come superiore alla legge del mondo.

Anche questo è un tentativo di possedere Dio direttamente, di forzare ciò che è eterno nella forma di un istituto visibile. Ciò è in contraddizione col Vangelo.

Se Cristo dovette accettare di essere inchiodato sulla croce per rendere possibile credere nell'amore di Dio, a maggior ragione la Chiesa non deve desiderare di ottenere ascolto per mezzo dell'autorità di un magistero infallibile di insegnamento e non può pretendere per se stessa ed il suo insegnamento un diritto sovrannaturale.

Cristo non è nella chiesa quando questa dispiega il suo splendore e la sua potenza e cerca di affermare la sua posizione per mezzo di diritti politici o divini. Cristo piuttosto dimora nel suo insegnamento e nei suoi discepoli che Egli guida nella sofferenza. Infatti quando Lutero enumera le caratteristiche della vera Chiesa include sempre, insieme con il retto uso della Parola e dei sacramenti, la fraternità, l'amore, la croce e la sofferenza.

"Ecco: Cristo divenne debole sulla croce, e tuttavia quivi egli portò a termine l'opera sua più potente e sconfisse il peccato, la morte, il mondo, l'inferno, il diavolo ed ogni male. Per coloro che credono, la Croce di Cristo è la certezza che l'opera di Dio realmente inizia dove, dal punto di vista umano, ogni cosa nella vita dell'individuo, della chiesa o del mondo è perduta".

 

 

Viole

 

"Quanti bombardamenti e mitragliamenti mi sono presa! E non riuscivo mai a fare tutto il tragitto in treno, c'era sempre da camminare. Magari era stato buttato giù un ponte, e allora bisognava fare chilometri e chilometri a piedi per cercare un mezzo di fortuna.

Una volta mentre facevo uno di questi viaggi, capita un bombardamento e un mitragliamento spaventoso. Mi butto giù dal treno, così come viene, e finisco in un prato. Mi buttavo sempre a terra col mio corpo sopra la valigia dal doppio fondo. C'erano documenti, cose importanti che dovevo portare al Comando di Longo. Così - dicevo - colpiscono me, ma almeno salvo quello. Mi butto nel prato. Era primavera e nel prato c'erano delle viole, delle viole! E io... talmente mi piace la natura... mi faccio un bel mazzetto, durante tutto il bombardamento. E poi arrivo sul treno. Tutti mi han guardata così... Perché io me ne arrivo lì, con le mie viole, tutta contenta. Si rischiava la morte, però c'era talmente la gioia di vivere! Delle volte io leggo che i compagni erano tetri. Non è vero. Eravamo sereni. Anzi, eravamo proprio felici, perché sapevamo che facevamo una cosa molto importante."

(Teresa Cirio, in "la Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi", a cura di A.M. Bruzzone e R. Farina, Ed. Bollati Boringhieri 2003)

...a voi, raccoglitori e raccoglitrici di viole nelle primavere che stiamo vivendo, vi voglio bene!

Elisabetta Ribet

Valore e senso del limite

(dal 5° Forum della Cultura Protestante in Italia:

Ecumene 20-21 settembre 2003)

di Raffaele Florio

 

A Ecumene, il 20 e 21 settembre scorso, si è tenuto il V Forum della cultura protestante in Italia, promosso dal Centro culturale valdese di Torre Pellice.

Sul tema “Valore e senso del limite: libertà, identità, sviluppo” il Presidente del Centro, Paolo Ribet, ha introdotto il Forum, con la considerazione che parlare di limiti nel mondo odierno può fare paura, tuttavia riconoscerli può liberarci dall’ansia e aiutarci a superarli.

Michele Rostan, esperto in sociologia economica, affrontando il tema dello sviluppo, ha ricordato in primo luogo che questo sta portando ad effetti devastanti sulla natura e sulla società, spesso irreversibili; inoltre questi effetti sono, a differenza che nel passato, sopranazionali e colpiscono tutte le classi sociali. Sono, quindi, necessari limiti al modello di sviluppo capitalistico. Oggi dipendiamo da una molteplicità di sistemi esperti, fatti da macchine e competenze ( p.es. i mercati finanziari, il sistema delle comunicazioni, il sistema sanitario), a cui ci affidiamo senza conoscerne il funzionamento: questa provvista di fiducia acritica è un altro limite allo sviluppo. Un terzo limite è la flessibilità del lavoro, tipica dei diversi modelli di capitalismo contemporaneo: essa ha una contraddizione intrinseca tra bisogno quantitativo di lavoro (flessibilità esterna) e organizzazione del lavoro (flessibilità interna). Le Chiese sono partecipi a queste problematiche (ambientalismo, globalizzazione economica,ecc.), ma ancora troppo poco attente verso le scienze sociali in generale e spesso con proposte tendenti a forme integralistiche ( no al denaro, no al mercato). In conclusione, secondo Rostan, l’alternativa finora sperimentata, quella del socialismo reale, è

fallita; tuttavia il modello capitalistico, allo stato attuale, non ha prospettive se non di autodistruzione. E’possibile un altro mondo? La domanda è posta e la ricerca è in corso.

Biagio De Giovanni, nel suo intervento sull’approccio politico, è partito da un’ analisi della nascita dello Stato moderno. La forma-Stato nasce dal caos e si organizza dentro una forma, che gli dà ordinamento : attraverso la mediazione, che costituzionalizza l’esistente, e dentro uno spazio, un territorio costituzionalizzato; l’Europa è stata, p.es., uno spazio costituzionalizzato. Oggi la politica ha rotto i confini della statualità, attraverso il globalismo: il limite scompare e vince l’illimite (critica alla sovranità, rappresentazione demoniaca del potere, ritorno della biopolitica come immediatezza del vivere); e questo produce due conseguenze, da una parte il fondamentalismo ( col corollario del terrorismo), dall’altra l’ individualismo esasperato. In conclusione De Giovanni, mentre ritiene impossibile un cosmopolitismo transgiuridico, come sembrano proporre i movimenti antiglobalizzazione, afferma che occorre, invece, fare uno sforzo per ricostituire l’ordine politico oltre la statualità, ma nella sua permanenza; e questo è possibile ridisegnando gli spazi della politica, disordinati dopo l”89; è quello che si sta tentando, per quanto riguarda l’Europa, attraverso la Costituzione europea.

Passando dalla realtà socio-politica all’ identità del singolo Francesca Spano è intervenuta sull’approccio psicanalitico al limite. Rifacendosi agli studi di Kohut sul narcisismo (ma anche di Melanie Klein e altri) ha spiegato che tutti noi abbiamo diversi sé, ma uno è centrale e cioè il sé nucleare, che si evidenzia nel narcisismo arcaico primario del bambino; il confronto con la madre e successivamente con gli altri lo porta alla frustrazione e alla consapevolezza del senso del limite, la sua onnipotenza viene proiettata prima sulla madre, in seguito attraverso la costruzione di valori e ideali; contemporaneamente, però, vive la difficoltà ad accettare questo: ne consegue la sensazione di persecuzione, che nei casi estremi diventa “rabbia narcisistica”.

Quale contributo può offrire la psicoanalisi sul senso del limite? La Spano, nell’affermare che tutti tendiamo alla espansione massima dell’Io, vede ciò anche nel Cristianesimo, che sembrerebbe in antitesi al narcisismo (vedi l’amore per il prossimo); esso, invece, esalta l’Io mediante l’individuazione e la proiezione verso una figura paterna: Dio padre, i santi, le opere, le sue etiche. Anche nella nostra storia di Protestanti e nella vita comunitaria possiamo riconoscere questa tendenza all’espansione dell’Io: p.es. attraverso l’attivismo esagerato, il sentimento diffuso di un sé collettivo, l’esasperazione delle figure persecutorie (“i cattolici!”).

Daniele Garrone, nell’affrontare l’approccio teologico al tema, è partito dalla citazione di due passi dell’Antico Testamento: Genesi 1-11 ( l’albero della conoscenza del bene e del male) e Esodo 19-24 ( il Patto sul Sinai). Sul primo passo, dice Garrone, bisogna uscire dalla interpretazione cristiana ( l’immortalità della umanità vanificata dal peccato originale,) e leggerlo in chiave antropologica. La Bibbia ebraica, infatti, non conosce il peccato: il problema è, invece, il male radicale e la coazione a ripeterlo; l’albero rappresenta la conoscenza del bene, ma anche del male, cioè del tutto; anche nel progresso il bene è inscindibile dal male. Dio ha dato all’uomo un grande spazio di libertà e di dignità, ma gli ha anche segnato un limite, che è disciplina. L’uomo ha voluto uscire da questo limite, da creatura ha voluto e vuole farsi creatore; e questo gli è costato e gli costa fatica, sofferenza. Esodo 19-24 ci parla del Patto tra Dio e Mosè sul monte Sinai. Il Decalogo si rivolge a una determinata società di contadini maschi: gli altri ne sono fuori. A questa società il Decalogo concede grandi spazi di libertà in cui il senso viene esaltato da tutta una serie di limitazioni.

Per Massimo Cacciari, ospite esterno al Forum, la libertà è infinita: crea la mediazione e allo stesso tempo ne sfugge; la mediazione, d’altronde, non è mai conclusiva, ma è in uno stato di costruzione permanente: questa è la contraddizione. Il limite è qualcosa di esterno a noi: esso o definisce la nostra libertà o costringe alla trasgressione. Aristotele parla di “topos” , luogo, spazio che contiene; ma il topos non è oggettivo, è un prodotto della nostra intenzionalità; e non è possibile immaginare che abbia un limite, un confine, tranne quello che gli viene dato dai nostri sensi. Quando l’essere “tocca” il limite si verifica la relazione con l’altro e questo genera la mia identità; quindi il limite dell’identità è la relazione; nel contatto relazionale le figure diventano tre: io, l’altro, la nostra distinzione. Questo vale anche per il Dio dei cristiani: Dio è, ma è in quanto relazione.

Le conferenze sono state intervallate da un nutrito dibattito che ha offerto spunti ulteriori alle riflessioni quali, per fare qualche esempio, il limite in bioetica e nella ricerca scientifica, la validità del modello di Europa in costruzione, la possibilità di un nuovo contratto sociale che parta dal basso, il rischio di una democrazia autoritaria.

In conclusione è stata ritenuta valida l’impostazione a tema dei Forum; tuttavia è stato rilevato che il tempo disponibile è troppo scarso: quest’anno, infatti, la discussione per gruppi è mancata. E’ stata anche suggerita la pubblicazione delle relazioni e degli interventi più significativi.

Per il prossimo Forum del 2004 è stato suggerito il tema “Giustizia e Diritto”.

 

 

“Nobel negato”?

Sul mancato Nobel al Papa si è aperta una polemica che ha riguardato in particolare “La Nazione”: in un violento articolo a firma del gionalista Paolo Francia si definiva il Papa “vittima di un’offensiva lobbistica dei luterani”, come se prima si fosse fatto credere scontato che avrebbe ricevuto il premio e poi lo si fosse bruciato all’arrivo. L’articolo è comparso su La Nazione dell’11 Ottobre scorso e inizia con le parole: “Una vergogna!”. Si taccia il Comitato per l’assegnazione del premio di “lobby luterana radical-chic” e via di questo passo... Un gruppo di pastori di Firenze, delle chiese Valdese, Metodista, Luterana e Battista, ha inviato la seguente lettera al Direttore. La lettera non è ancora stata pubblicata! Altre lettere sono state inviate dal past. M. Affuso, da pastori avventisti, dal prof. M. Ricca per il Centro “P.M.Vermigli”

 

Firenze, 16 ottobre 2003

 

Egregio Signor Direttore,

come protestanti abituati al dialogo ecumenico, in ottimi rapporti con molti cattolici, ci saremmo aspettati uno stile diverso nelle reazioni del mondo cattolico all’assegnazione del premio Nobel per la pace. Il fatto che il premio non sia stato assegnato a Giovanni Paolo II ha suscitato invece reazioni rabbiose e scomposte, come quelle del Suo collaboratore Paolo Francia (La Nazione, 11 ottobre 2003). Ci si è messi così allo stesso livello dei tifosi che protestano per una pretesa ingiusta sconfitta della loro squadra. È proprio questo atteggiamento a essere poco rispettoso verso la figura del papa.

Si ha tutto il diritto di pensare che sarebbe stato più giusto assegnare il premio a Giovanni Paolo II. Ma è fuori luogo parlare a questo proposito di “Nobel negato” e di “offensiva lobbistica dei luterani. Non esiste una “lobby luterana”. Il premio è stato assegnato all’iraniana Shirin Ebadi, e questo è nella linea di molte altre assegnazioni, che hanno messo in luce l’attività di persone meritevoli di essere conosciute a motivo del loro concreto lavoro per la pace. Non si può stravolgere il senso di questa assegnazione attribuendola a spirito di parte e tentando di screditare l’istituzione che l’ha decisa; non è giusto e non è corretto. Non è ammissibile parlare di un civilissimo paese europeo come la Norvegia definendolo: “povero Paese scandinavo”. Come se non bastasse, ce la si è presa addirittura con la Chiesa Luterana, rispolverando vecchi arnesi polemici che credevamo francamente sepolti per sempre dal Concilio Vaticano II, dimenticando o ignorando che la Chiesa Cattolica intrattiene da decenni rapporti di dialogo con la Chiesa Luterana, come dimostra tra l’altro la firma, avvenuta nel 1999, della “Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione”, cioè sul punto di maggiore dissenso tra cattolici e luterani.

Con la Chiesa Luterana, che ha una sua sede anche a Firenze, vogliamo dunque esprimere tutto il nostro disagio di fronte a questo attacco ingiusto e immotivato, che non fa certo onore a una città universale come Firenze, dove l’apertura al dialogo e al confronto fra le culture avrebbe potuto dar luogo a commenti di ben altro respiro.

Grati per la pubblicazione, Le porgiamo il nostro cordiale saluto

(seguono le firme dei pastori: H. Goeden, R.Volpe, B. Rostagno, G. Sciclone)

 

 

 

Il naso tra i libri

 

Philip Yancey, La Bibbia che Gesu’ leggeva. L’Antico Testamento «Piccola biblioteca teologica » n. 61 – pp. 199 – E. 17,50

Questo libro di Philip Yancey aiuta a superare la tendenza – piuttosto diffusa tra i cristiani – a evitare i testi dell’Antico Testamento che alla mentalita’ moderna appaiono trascurabili, sconcertanti o addirittura offensivi.

Esaminando pagine scomode e spesso criptiche di alcuni libri veterotestamentari – Giobbe, Deuteronomio, Salmi, Ecclesiaste e testi profetici – Yancey evidenzia come i racconti di straordinaria immediatezza che vi sono contenuti ben si riconducano alla vita odierna. In essi, infatti, il rapporto tra Dio e il suo popolo si delinea sullo sfondo di un’esperienza umana intesa in tutte le sue molteplici articolazioni.

Leggere l’Antico Testamento significa riflettere sulle questioni che hanno maggiormente tormentato gli antichi redattori, significa giungere a una nuova comprensione del Dio di Israele e del nostro, nonche’ della vicenda di Gesu’.

Insomma, significa integrare gli spazi vuoti di una visione solo neotestamentaria della divinita’ e dar voce alla nostra intera esistenza umana.

 

Paul Tillich, Teologia sistematica III

«Sola scriptura» n. 19 – pp. 346 – euro 29,00

In questo terzo e penultimo volume della sua grande Teologia sistematica, intitolato «La vita e lo Spirito», Paul Tillich affronta il problema del significato della vita, dell’attivita’ umana e delle sue ambiguita’. Ampio spazio e’ dedicato inoltre alla dottrina dello Spirito, all’attivita’ delle chiese e ai simboli trinitari.

Ogni processo della vita porta in se’ il suo contrario, il che spinge l’essere umano alla ricerca di un’esistenza non ambigua sotto l’influenza della Presenza spirituale che vince le negativita’ della religione, della cultura e della morale. I simboli che anticipano la Vita eterna presentano la risposta al problema della vita.

Quello di Tillich, che auspica una «unita’ multidimensionale della vita», e’ uno dei tentativi piu’ profondi e completi di rendere conto concretamente della complessita’ dell’attivita’ umana.

«Il vero intento di Paul Tillich e il risultato che vuole ottenere e’ di mostrare che la verita’ totale dell’esistenza umana puo’ essere afferrata solo grazie a un incontro e, in ultima analisi, a una unione tra fede personale e comprensione razionale. In questo volume egli interpreta la fede cristiana della mente umana del XX secolo con tale capacita’ di penetrazione che l’auto-comprensione, sia della cultura secolare sia delle chiese cristiane, ne risulta approfondita e chiarificata».

(Daniel D. Williams, “Review of Religion”)

 

Giorgio Girardet, Il matrimonio

«Le spighe» n. 5 – pp. 80 – euro 4,00

Che cosa ne e’ oggi del pilastro dell’ordine sociale messo radicalmente in discussione nella seconda meta’ del secolo scorso? Che cosa ne e’ di un’istituzione che nell’odierna societa’ occidentale convive – resistendo statisticamente – con una grande varieta’ di forme e comportamenti relazionali?

Interiorizzata la rivoluzione sessuale, il matrimonio sembra trovarsi in un periodo di transizione in cui, nonostante le crisi, si muove in direzione di un nuova dignita’, recuperando a poco a poco elementi di stabilita’ e durata.

Il matrimonio sembra affermarsi come luogo di umanita’ condivisa in progettualita’ e realizzazioni, come terreno di incontro con gli altri, nel rispetto dei mutati rapporti tra i sessi e delle nuove dinamiche famigliari nonche’ nella prospettiva di nuovi modelli e comportamenti.

Una lettura protestante del matrimonio, specifico capitolo di una nuova etica.

 

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