EPPURE SOFFIA

di Pierangelo Bertoli

 

E l’acqua si riempie di schiuma, il cielo di fumi

lebbra distrugge la vita nei fiumi

Uccelli che volano a stento malati di morte

Il freddo interesse alla vita ha sbarrato le porte

Un’isola intera ha trovato nel mare una tomba

Il falso progresso ha voluto provare una bomba

Poi pioggia che toglie la sete alla terra che è vita

invece le porta la morte perché è radioattiva.

 

Eppure il vento soffia ancora

Spruzza l’acqua alle navi sulla prora

E sussurra canzoni tra le foglie

Bacia i fiori, li bacia e non li coglie

 

Un giorno il denaro ha scoperto la guerra mondiale

Ha dato il suo putrido segno all’istinto bestiale

Ha ucciso, bruciato, distrutto in un triste rosario

E tutta la terra si è avvolta di un nero sudario

E presto la chiave nascosta dì nuovi segreti

Così copriranno di fango persino i pianeti

Vorranno inquinare le stelle, la guerra tra i soli

I crimini contro la vita li chiamano errori

 

Eppure il vento soffia ancora

Spruzza l’acqua alle navi sulla prora

E sussurra canzoni tra le foglie

Bacia i fiori, li bacia e non li coglie

Eppure sfiora le campagne

Accarezza sui fianchi le montagne

E scompiglia le donne tra i capelli

Corre a gara in volo con gli uccelli

 

Eppure il vento soffia ancora!!

 

C'è un tempo per ogni cosa...

di Henning Goeden

 

Il primo segno dell’incipiente primavera davanti alla mia finestra è stato un piccolo messaggero piumato: un pettirosso leggero, veloce, chiacchierino, tutto alucce frementi e passettini sconsiderati. Un visitatore spensierato a prima vista, ad uno sguardo più attento un messaggero di serenità. Tutto avviene a suo tempo, la mattina presto il canto, la sera il cicaleccio al tramonto del sole - quasi come una preghiera.

Forse Gesù aveva davanti agli occhi questo quadro quando ha detto: "Guardate gli uccelli del cielo - non seminano, non mietono eppure il nostro Padre celeste li nutrisce!" Non è soltanto una parola contro le sollecitudini ansiose e per valorizzare la gioia della vita, c'è dentro un insegnamento di serenità e di fiducia:

 

La mia vita è protetta

alla sera e al mattino

non devo correr con affanno,

son protetto come un uccellino.

mi metto nelle Tue mani senza danno.

 

Nel Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna c'è un mosaico con due colombe posate sull'orlo di un bacino. Una sta bevendo, l'altra sorveglia intorno a sé, quasi facesse la guardia alla sorella.

Stare in guardia è necessario nel nostro mondo. La colomba che beve può farlo in pace perché qualcuno veglia per lei; ma anche quella di sinistra sa che poi sarà il suo turno di prendersi ciò che le serve per vivere, perché poi ci penserà l'altra a proteggerla. Anche noi siamo protetti e possiamo assumerci il servizio di guardia per i nostri fratelli e per le nostre sorelle. Noi riceviamo l'acqua della vita come un dono e perciò possiamo passarla agli altri che ne hanno bisogno.

 

C'è un tempo per ogni cosa: un tempo per nascere e uno per morire; un tempo per lamentarsi e uno per danzare; un tempo per parlare e uno per tacere; un tempo per litigare ed uno per far pace..." E' tempo di parlare, parlare per la pace. La colomba è anche un simbolo della pace. Ed è un simbolo dello Spirito di Dio.

 

Il nostro tempo è nelle nostre mani. O meglio: nelle Tue mani.

 

 

Z W I N G L I

e   g l i   a n a b a t t i s t i ,

i l   d i a l o g o   m a n c a t o

di Gino Conte

 

In dicembre (e mi scuso per aver fatto attendere il seguito agli eventuali interessati) avevamo lasciato Ulrich Zwingli ormai riformatore affermato a Zurigo, e con un’eco anche oltre, nella Svizzera alemannica, però anche alle prese con un’opposizione interna, ‘di sinistra’ secondo alcuni: quella anabattista. E, si noti, dell’anabattismo più puro, non intriso di esaltazioni apocalittiche aggressive come sarà nel movimento contadino animato dalla predicazione di Thomas Müntzer e più tardi nella folle avventura del ‘regno anabattista’ di Münster; e questo sia detto anche se non tutti gli anabattisti erano dei miti agnelli e ci fu chi, come Simon Stumpf, auspicava che si facesse la pelle a tutti i preti… Vale la pena soffermarci ancora un poco su questo confronto-scontro fra Anabattismo e Riforma nella freschezza delle loro origini. Qui Paolo Ricca, che dedica particolare attenzione al Riformatore di Zurigo, ha dato un contributo assai utile e bello con la prolusione all’anno accademico della nostra Facoltà nell’ottobre 1984, apparso poi nel n. 1/1985 di “Protestantesimo”: Zwingli e gli anabattisti. Il dialogo che non c’è stato. E penso che sia interessante e utile per noi riprendere il succo del suo saggio.

* * * *

Sono molto incisive le pagine iniziali in cui Ricca giudica l’infausto ‘ecumenismo’ che unisce persecutoriamente contro l’anabattismo cattolici e protestanti ferocemente avversi fra loro, sebbene la violenza sia stata incomparabilmente minore da parte protestante. Anche se nel 16° secolo lo scontro non poteva non avere pure risvolti civili e politici (ma in fondo, non è sempre così?), erano in gioco due visioni spirituali, due teologie. In fondo, il confronto c’è stato, ma non c’è stato dialogo, bensì due monologhi: “Zwingli e gli anabattisti si sono parlati molto ma si sono ascoltati poco”. Ricca nota che Zwingli applicava agli anabattisti questa parola apostolica “Sono usciti di fra noi ma non erano dei nostri” (I Giov.2,19), ma osserva: “La citazione è per molti versi calzante, ma è incompleta: gli anabattisti, dopo essere ‘usciti’ dalle fila dei riformati, sono stati arrestati, processati, banditi, giustiziati. Il loro non è stato un esodo pacifico. Ed è qui che è accaduto qualcosa di irrimediabile non solo moralmente ma spiritualmente. Nelle acque del lago di Zurigo, dove Felix Mantz venne annegato il 5 gennaio 1527, o nelle fiamme del rogo di Rottenburg dove il mite Michael Sattler fu arso vivo il 20 maggio dello stesso anno, non morivano solo due dei migliori leaders dell’anabattismo, moriva anche qualcosa della Riforma. Moriva qualche cosa del sola Scriptura : la speranza di una chiesa che non possiede e non impugna altra arma che la sacra Scrittura né altra spada che quella dello Spirito. Quelle acque e quelle fiamme [anche se furono poche unità le esecuzioni in Zurigo, tenendo però conto dell’esodo di anabattisti ormai fuori legge] segnano un limite della Riforma, in quanto documentano come, nel modo di porsi nei confronti della dissidenza e, al limite, dell’eresia, la Riforma non ha riformato o non ha riformato fino in fondo. Ha seguito la tradizione, ampiamente collaudata dalla ‘grande Chiesa’, della persecuzione dell’eretico come nemico della fede e minaccia politico-sociale”.

Ricca delinea le caratteristiche della comunità anabattista, che appunto nasce in casa riformata; ha una triplice impronta: laica, biblica, fraterna (così si chiamavano fra loro: “fratelli”); ha un carattere sociologicamente composito, reclutando membri in tutti gli strati della popolazione; infine, secondo gli studi recenti, almeno all’origine non era separatista ma piuttosto un fenomeno di ‘congregazionalismo riformato’. Almeno inizialmente, un dialogo era forse possibile; tuttavia si può affermare che anabattismo e Riforma si sono scontrati, con il surplus della violenza dell’epoca e della passione, perché non si sono capiti, ma altrettanto perché si sono capiti benissimo e divergevano radicalmente sul modo di considerare il corpus christianum, il rapporto fra comunità cristiana e comunità civile. Poi Ricca mette a confronto, con raro sforzo di serena obiettività, le “ragioni” degli uni e degli altri, dando loro la parola.

La parola agli anabattisti

Questi non parlano più della Riforma dal di dentro, ma dal di fuori, in modo esclusivamente critico-polemico; accusano i Riformatori di non essere andati fino in fondo, ma di cedere a compromessi fra la Parola e la tradizione umana (in particolare per non avere liquidato il sistema di decime e tributi, senza affidarsi alla libera offerta); criticano il riproporsi di un establishment riformato, favorendo anzi imponendo un cristianesimo di massa, che diventa facilmente di facciata, fruitore di una grazia a buon mercato; contestano alla ‘autorità’ lo jus reformandi : l’Evangelo non va imposto per legge, tanto meno con la spada; no, dunque, alla scomunica e al bando, intesi naturalmente nella loro rilevanza civile. La comunità anabattista, che si costituisce su base volontaria, è santa, separata, non mondanizzata, non integrata nel corpus christianum. O almeno così si vuole. Si illude?

La parola a Zwingli

La polemica talvolta scende in basso, si fa calunniosa: tutti ne usavano. Comunque queste sono le critiche fondamentali mosse agli avversari: anzitutto proprio a questa ‘separatezza’; Zwingli, fra i più ‘civici’ e politici dei Riformatori, rivendica un rapporto non separato in modo manicheo fra chiesa e mondo (si ricordi la sua lotta contro il mercenariato ma soprattutto la sua passione per la faticosamente nascente confederazione elvetica, e l’atteggiamento di leale collaborazione con le autorità zurighesi e di ‘promozione’ popolare non solo spirituale, dalla scuola latina già fondata a Glarus all’alfabetizzazione diffusa insieme alla predicazione e allo studio biblico): la frontiera fra bene e male non passa fra chiesa e mondo, ma passa dentro di noi, e il mondo non deve essere semplicemente demonizzato. Zwingli rivaluta dunque fortemente lo Stato, in questo, parallelo a Lutero, anche se per lui lo stato non è quello dei prìncipi tardo-feudali, ma quello dell’incipiente democrazia di libere città e cantoni, certo ancora retti da una oligarchia borghese. E’ vero, dice Zwingli, l’Evangelo, Cristo non hanno bisogno dello Stato, ma i cristiani sì! E quello che egli vuole, quello per cui lotta, e morirà, non è la Riforma della chiesa di Zurigo, ma la Riforma di Zurigo, e se possibile della Svizzera.

Così Paolo Ricca si sforza di “illustrare le ragioni di chi, pensiamo, aveva torto e i torti di chi ci sembra avesse ragione”: i quali “rendono però insieme questa testimonianza: il cristianesimo è per entrambi qualcosa per cui val la pena non solo vivere ma anche morire”. E senza appiattirsi gli uni sugli altri, l’uno (gli uni, Zwingli non è solo) e gli altri avrebbero potuto ricevere dall’altro, dall’antagonista almeno un invito alla riflessione: Zwingli circa le ambiguità della ‘situazione costantiniana’ e il fatto che la riforma, anche della chiesa, non può soltanto scendere dall’alto, tanto meno assicurata dallo Stato, ma deve anche costruirsi dal basso, dal singolo e dalla comunità locale personalmente convinti ed impegnati. Gli anabattisti “avrebbero potuto (e dovuto) imparare da Zwingli almeno una cosa: l’Evangelo, la chiesa, il cristiano sono per il mondo, per la città, per gli altri. Il grande comandamento cristiano non è separarsi ma, al contrario, immergersi… nella storia!”

* * *

Rifacendomi ampiamente al citato saggio di P.Ricca ho voluto dare ampio spazio a questo avvincente e anche doloroso confronto/scontro, non solo perché è giusto riflettere pure su carenze e colpe dei Riformatori, ma anche perché è evidente come, nel mutare delle situazioni, la posta in gioco allora rimane attuale, e le domande (le accuse!) che si rivolsero allora reciprocamente gli antagonisti, più duellanti che dialoganti, anche se grazie a Dio in clima più disteso (ma anche più fiacco e smorto?) ce le possiamo e forse dobbiamo rivolgere anche noi, oggi. E’ sempre attuale e animato il confronto sul battesimo, in realtà fra ecclesiologie diverse, e sulla responsabilità civile e politica del cristiano e della chiesa, senza indulgere all’integralismo clericale, sul modo di considerare il ‘mondo’ e di atteggiarsi in esso. Pur rimanendo, noi, convintamente riformati e grati ai Riformatori. In proposito mi pare che anche il nostro teologo ritenga che l’anabattismo –da non confondersi con il battismo, decisamente riformato, come attestano le sue confessioni di fede, fra le più recenti, e belle, quella dei battisti italiani- non sia da definirsi, come molti hanno fatto, l’ala sinistra della Riforma, ma che nella Riforma gli anabattisti tengano solo un piede, anche perché, oggettivamente, le loro istanze sono state in blocco respinte e, se essi erano già in parte fuori, sono stati buttati fuori del tutto, e non in bel modo. Forse si può dire che rappresentarono e nelle loro attuali espressioni rappresentano una nuova, diversa manifestazione confessionale e confessante del cristianesimo.

Sulla opera matura, e sulla fine tragica, di Zwingli, con l’ospitalità di “Diaspora”, torneremo prossimamente.

Messaggi sul tema “Un tesoro in vasi di terra” Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani 2003

di Davide Buttitta (Chiesa Valdese) 

Si apre oggi una intensa settimana di dialogo e di ecumenismo. Si tratta di appuntamenti importanti che impegnano profondamente le persone che vi partecipano, questi incontri sono comunque delle sfide che non sono soltanto importanti per il loro valore simbolico, ma perché, per almeno una volta, per una settimana all’anno, ci poniamo il problema della nostra infedeltà a una delle tante preghiere che il nostro Signore ci chiede di esaudire, di essere uniti.

Questa settimana va vissuta con la coscienza che ogni volta che ci incontriamo dobbiamo percorrere una tappa, per quanto piccola sia , non importa, verso la meta il pieno riconoscimento reciproco delle confessioni cristiane nella prospettiva della cosiddetta unità nella diversità.

L’unità però non è certo un concetto astratto, ci si unisce se abbiamo qualcosa da fare insieme. Faccio un esempio, avete mai incontrato un amico che avete perso di vista per molto tempo? Magari alla fermata del tram ? Lo si abbraccia, siamo contenti di rivederlo, ci scambiamo il numero di telefono, ci salutiamo, ci ripromettiamo di risentirci, poi non lo facciamo.

Non è che non vogliamo bene a quella persona, ci è successo semplicemente che la vita ci ha portato su due direzioni diverse e l’amicizia che si coltiva con la condivisione di progetti comuni, di percorsi di vita da percorrere insieme è diventata per la lontananza il ricordo affettuoso e caro di quello che fu.

Dice un noto teologo Paolo Ricca: La preghiera per l’unità è l’aggrapparsi alla promessa dell’unità, cioè a Dio stesso, perché l’unità è essere uniti a LUI.

Allora cosa sono le cose da fare insieme per essere sempre più uniti a lui ?

Quest’anno il tema della settimana è “Un tesoro in vasi di terra” (2 Corinzi 4,7). Il Tesoro come è facilmente comprensibile è ovviamente l’Evangelo, i vasi di terra siamo noi, singoli, le chiese, l’apostolo Paolo. Fragili, delicati, quando siamo sfondati veniamo buttati via; a questi vasi, roba di poco conto, è annunciata la Parola, il Signore si preoccupa di NOI e Lui si fida di Noi.

Ci dice siate forti, voi che siete deboli, perché io vi do la forza per annunciare l’Evangelo. Rileggo un paio di versetti della lettera di Paolo: “Noi portiamo in noi stessi questo tesoro come in vasi di terra, perché sia chiaro che questa straordinaria potenza viene da Dio e non da noi. Siamo oppressi, ma non schiacciati; sconvolti, ma non disperati. Siamo perseguitati, ma non abbandonati; colpiti , ma non distrutti.”

Che gioia immensa è sapere tutto ciò. Ma, c’è un ma.

Ieri venti di odio assassino hanno fatto svolazzare e poi infrangere sulle nostre case due aerei, due uccelli meccanici costruiti dagli uomini, uccidendo migliaia di altri uomini, oggi venti di guerra fanno svolazzare altri uccelli meccanici carichi di bombe sulle nostre teste, oggi , mentre migliaia di uomini si stanno ammazzando in guerre e in azioni terroristiche in tutto il mondo, noi ancora una volta siamo chiamati a testimoniare l’evangelo, il nostro signor Gesù.

Sì, siamo oppressi, sconvolti, perseguitati , come i fratelli del Pakistan, come i fratelli dell’Etiopia che vedono morire di fame i loro piccoli; sì, siamo sconvolti e ci sentiamo deboli e incerti. Ma ora ci viene ricordato dall’apostolo Paolo quello che in cuor nostro già abbiamo più volte ascoltato. Di fronte a questi scenari di guerra, dove i padri e le madri sotterrano i figli, dove la grande nemica, la morte, sorride soddisfatta, noi tutti abbiamo il compito di annunciare quello che Iddio ha fatto cantare agli angeli la notte, quando ha inviato suo figlio fra di noi

Pace in terra agli uomini di buona volontà. ( i traduttori della bibbia storceranno il naso su questa traduzione, ma è quella che tutti conoscono). Questa parola oggi suona male, nessuno canta più queste parole…..le lasciamo ai bambini sotto l’albero di Natale o vicino al presepe…

Pensiamo che siano troppo difficili da far risuonare ora, oggi, fra di noi e intorno a noi, queste parole e le tante simili , contenute nel Nuovo Testamento, così semplici che ci dicono di annunziare la pace. Siamo diventati così realisti o paurosi che non diamo ascolto all’utopia di Dio, ma alla logica del mondo, razionale, fredda, scientifica, che ci dice che non vi è altra soluzione per ogni contesa che la morte, la vendetta, la sopraffazione, il sangue versato. Questa è la terribile logica umana che per ogni contesa fra gli uomini la soluzione è uccidere uomini.

Ma ancora una volta un insegnamento diverso ci arriva, questa volta viene da oltre oceano. Già da alcuni mesi le nostre chiese sorelle americane , riunite nel Consiglio Nazionale delle Chiese degli Stati Uniti, composto da 36 denominazioni cristiane di tradizione protestante, anglicana e ortodossa, di fronte alla ipotesi non tanto remota di una nuova guerra in Iraq, hanno avuto il coraggio di opporsi alla ragion di stato, al parlamento americano, al presidente degli Stati Uniti, anche ad una opinione pubblica ancora profondamente scossa dal vile attentato di New York.

Pur nell’estrema debolezza delle nostre organizzazioni questi fratelli e sorelle sono riusciti, sapendo perfettamente di andare contro i potenti della terra che ragionano in termini di forza, a ricordarci che la guerra non può essere l’unica soluzione per le divergenze internazionali o per spegnere le migliaia di focolai di guerra e di terrorismo che covano nel mondo.

Altrettanto forti messaggi dello stesso tenore sono venuti dal Vescovo di Roma, il Papa, e dall’Arcivescovo di Canterbury, il capo della chiesa anglicana e piano piano da migliaia di organizzazioni cristiane di tutto il mondo.

Anche qui a Firenze qualcosa si è mosso, il 10 novembre , l’ultimo giorno del Social Forum , alcune realtà ecclesiali fiorentine cristiane , fra le quali molte organizzazioni giovanili cattoliche, hanno organizzato un incontro denominato “Pace per la Pace” nella Piazza dell’Isolotto, in quell’incontro abbiamo voluto testimoniare che dei cristiani con storie diverse, e profonde divergenze intellettuali, culturali e politiche, con un passato di lotte e guerre fra le loro denominazioni, stavano rimovendo questi rancori e incomprensioni, riscoprendo la fiducia fra di loro per testimoniare il principe della

Pace.

Questi percorsi, che fratelli e sorelle di tutto il mondo stanno promovendo, per respingere la logica della guerra, vanno proseguiti.Questa settimana, proprio per non diventare un rito che può perdere significato, può diventare un momento importante di testimonianza comune per la pace anche qui a Firenze.

Anche se siamo vasi di coccio, deboli e insignificanti, anche se altri con motivazioni molto meno nobili oggi urlano pace, ma fanno di fatto solo quelle manifestazioni contro le guerre dove sono presenti gli Stati Uniti, dimenticandosi poi la parola pace quando vi sono altri contendenti nei conflitti.

Anche se noi non saremo compresi e verremo tacciati di essere di destra o di sinistra a noi questo non deve importare, a noi come cristiani spetta il compito comune di chiedere con tutte le poche forze che abbiamo ai potenti della terra di cercare sempre e comunque soluzioni pacifiche ai conflitti.

La pace non è di destra, né di sinistra, non è palestinese o israeliana, non è irachena o americana, è l’unica condizione dove non si uccidono fratelli e sorelle, donne, vecchi, bambini che hanno la sola colpa di essere nati nel paese sbagliato.

Riprendiamo la dichiarazione di pochi giorni fa del presidente del Consiglio delle Chiese degli USA, il pastore metodista Bob Edgar, che ha rilasciato al rientro da una missione svoltasi in Iraq con una delegazione di pastori della Chiesa di Cristo Unita, della Chiesa Metodista, Presbiteriana ed Episcopale.:

“una guerra preventiva è immorale e illegale. Teologicamente illegittima e viola profondamente i nostri convincimenti e i nostri principi cristiani. Come discepoli di Gesù Cristo, il Principe della Pace, noi siamo consapevoli che questa guerra è assolutamente antitetica ai suoi insegnamenti. Gesù ha insegnato la pace, la giustizia, la speranza e la riconciliazione ed ha respinto la vendetta, la guerra la morte e la violenza.”

 Fratelli e sorelle, preghiamo per la pace, nella nostra cameretta, nella nostra comunità, quando ci troviamo riconciliati insieme, costringiamo a pregare per la pace chi non ha più fiducia nel principe della Pace. Signore dacci la tua forza. Amen.

 

 

 

Messaggio del past. H. Goeden (Chiesa Luterana)

 

La base comune della nostra fede cristiana è nella Sacra Scrittura, Antico e Nuovo Testamento, perciò la parola guida di tutte le settimane di preghiera viene presa dalla Bibbia. In questo modo si sottolinea questa nostra comunione di base della fede. La Sacra Scrittura appartiene a noi tutti, ci unisce.

Per quest'anno una commissione preparatoria interconfessionale argentina ha scelto come base dell'annuncio di questa settimana questa espressione dell'apostolo Paolo.

Care sorelle e fratelli,

Qui è mostrato chiaramente un problema basilare per l'ecumene. Si mostra nella domanda su chi o su cosa noi possiamo contare. Chi ci dice la verità, chi ci mostra il cammino per raggiungerla? Dietro questa domanda si nasconde la supposizione che il messaggio ed il messaggero debbano avere dei punti in comune, che addirittura si confondano l'uno con l'altro. Con questa domanda si confrontò anche l'apostolo Paolo: gli si chiedeva con quale diritto facesse l'apostolo ed il missionario. Glielo si chiedeva spesso e questo per due ragioni.

Per prima cosa egli non apparteneva alla cerchia illuminata dei dodici discepoli di Gesù e non era stato testimone oculare della vita e della morte di Gesù. Come poteva pretendere che gli venisse riconosciuta una tale grossa autorità, come egli stesso richiedeva? Questo l'argomento formale che restò a lungo senza risposta.

In secondo luogo - probabilmente la cosa più importante durante la sua vita intera - c'era la domanda oggettiva: tu parli di gloria e di grandezza, di ricchezza e di pienezza, e tu stesso sei una figura pietosa. Con te non si possono fondare nazioni, che ti aspetti da noi? Che contiamo su di te? Contenuto e forma in te non vanno d'accordo.

 

Quale è la risposta dell'apostolo Paolo? Egli indica il Cristo. Rimanda l'orgogliosa comunità di Corinto, fissata sull'aspetto esteriore, a Lui, base dell'annuncio, della fede e dell'unità dei cristiani. Non si tratta di Paolo, di Apollo o di Pietro, come aveva già scritto nella sua prima lettera alla comunità. Si tratta di Cristo, in Lui si manifesterà la gloria di Dio, non in noi. Tramite Lui Dio opera, noi siamo, nel migliore dei casi strumenti nelle sue mani, di più non possiamo pretendere.

La verità e l'unità dei cristiani non si basano sui discepoli, sugli

apostoli, sui padri della chiesa, ma solo in Gesù Cristo. La gloria

della chiesa è, secondo Paolo, una gloria in vasi di terra. Chi si

ripromette da questa gloria risposte definitive alle vere domande che la vita pone, non troverà mai una risposta perché essa stessa, e con lei anche le risposte, saranno sempre per lo meno ambigue. La gloria di Dio, invece, quella che appare in Gesù Cristo, quella deve rifulgere nei nostri cuori.

Il cristiano diventa cristiano attraverso il suo rapporto col Cristo.

Dove il Cristo non ha un ruolo centrale non si può parlare di fede cristiana, solo in Cristo riconosciamo la gloria di Dio, Chi guarda a

Wittenberg, a Roma a Costantinopoli, a Washington, a New York o a Bagdad non deve dimenticare che la salvezza non viene da lì. Da lì può essere al massimo annunciata: la chiesa ed i suoi rappresentanti, non si tratta di loro. Lì non c'è nulla di basilare, teoricamente.

Ma sembra che fino ad oggi non sia cambiato nulla, i corinzi sono in mezzo a noi. Ed anche oggi, la cosa importante per loro non è la verità della fede, ma la verità esteriore, quella che si può mostrare in giro con orgoglio. Quella verità che ci proviene ben adorna e si accorda col nostro modo di vedere. Quella che chiede le cose che mi appaiono illuminanti e non le cose che sono illuminate da Dio. Ma questa non è per nulla la gloria di Dio.

La gloria di Dio è diventata uomo fra gli uomini. Si è lasciata

rifiutare, si è lasciata insultare ed uccidere in maniera vergognosa. La gloria di Dio è l'esatto contrario delle idee umane su grandezza e

gloria. Anche per questo la croce è diventata il segno di riconoscimento dei cristiani. Non c'è al mondo nessun segno di vittoria che sia più vergognoso di questo. Sotto questo segno, sotto la sua egida, Paolo ha condotto il suo apostolato. E' il segno che si addice alla chiesa una, santa, universale ed apostolica - e dunque a tutte le confessioni - ancora oggi.

L'unità della chiesa non viene fatta da noi. Non ci sarà né l'unità

della chiesa cattolica, né quella della chiesa ortodossa, né quella

delle chiese della Riforma; l'unità della chiesa va creduta. E nel

crederci essa si rende presente in modo concreto. Perché noi crediamo possiamo ancora oggi parlare gli uni con gli altri. E diciamo al mondo: la verità si è fatta uomo, vive in mezzo a noi ed ha un nome: Cristo - a Lui sia onore e lode, gloria e ringraziamento in eterno.

Amen

 

Messaggio del past. M. Marziale (Chiesa Riformata)

 

“Noi dunque non ci scoraggiamo” (2 Corinzi 4,16).

 

L’apostolo Paolo c’invita questa sera a non scoraggiarci. Ci chiediamo se è possibile accogliere l’invito, se non a cuor leggero, considerato il tempo in cui viviamo. Il secolo appena conclusosi è stato caratterizzato da molteplici forme d’oppressione: politica, sociale, culturale ed economica; ed ha lasciato a quello appena iniziato, problemi irrisolti di pace, di giustizia,. di salvaguardia del creato, di controllo della tecnica, di terrorismo.

A questi problemi se ne possono aggiungere altri, magari minori, ma che ci toccano più da vicino nella vita di tutti i giorni, quali ad esempio: il disagio ambientale, l’insicurezza stradale, la disfunzione dei servizi, la presenza, per alcuni assai ingombrante, di immigrati. Sì, proprio loro, che sono l’oggetto della riflessione del documento preparatorio di questa Settimana di Preghiera.

Venendo al cammino ecumenico per l’unità dei cristiani, ci domandiamo se è possibile accogliere l’invito di Paolo a non scoraggiarci, senza qualche esitazione? Pur riconoscendo che un percorso ecumenico è stato già fatto, e che alcune iniziative comuni sono bene avviate in campo nazionale, si nota ancora nella base, tra i credenti più desiderosi, una certa insoddisfazione.

Insoddisfazione dovuta alla lentezza con la quale procede il cammino ecumenico e agli ostacoli ancora esistenti, che impediscono alle Chiese di avere una reale comunione, nella condivisione dei doni di ciascuna e nell’uso comune delle risorse di tutte, per aiutare l’umanità a risolvere i grossi problemi cui abbiamo accennato.

A ciò, si aggiunga la consapevolezza diffusa, della grande sproporzione che esiste tra il numero e l'entità dei problemi da risolvere da una parte, e la limitatezza delle risorse possedute dall’altra. Per tutti questi motivi, c’è sufficiente ragione di essere piuttosto scoraggiati, anziché incoraggiati. Tutto questo, però, a vista umana.

Il credente invece ha una visuale diversa, dalla quale affrontare e risolvere i problemi. E’ la visuale che consente all’Apostolo Paolo, in mezzo ad un mare di problemi, d’ogni genere, di dire con forza: “Noi dunque non ci scoraggiamo”. Come mai l’apostolo può esprimersi in questa maniera? così paradossalmente? Tutto sta nel ‘dunque’. Si può vincere lo scoraggiamento nelle situazioni più terribili della vita, perché quel ‘dunque’ rimanda ad altro. A che cosa?

Rimanda a quel “tesoro” che portiamo in noi “come in vasi di terra”. Il tesoro è Cristo, morto e risorto, sul cui volto rifulge la gloria di Dio, la luce della nuova creazione, che ha origine dalla risurrezione. Tutto questo è chiamato da Paolo “Evangelo”, che, scrivendo ai credenti di Roma, non esita a definire “potenza di Dio”.

Cosciente di essere in Cristo, quindi di poter attingere la potenza di Dio, consapevole di essere tuttavia un ‘vaso di terra’, Paolo afferma, quasi con baldanza, che egli può ogni cosa in Cristo, che lo fortifica; ed afferma che quando è debole, proprio allora è forte, perché la potenza di Dio si rivela pienamente nella debolezza degli uomini.

Anche noi, come singoli credenti, come Chiese e come popolo cristiano, nella fede in Cristo, possiamo usufruire della potenza di Dio per vincere lo scoraggiamento ed acquisire quella visuale e quelle forze nuove, che consentono di affrontare con speranza i nostri problemi, piccoli e grandi, nelle Chiese e nella società.

L’apostolo Paolo esorta giustamente, oggi, le Chiese ad essere coraggiose e perseveranti nel cammino ecumenico e nella loro missione nel mondo, perché lo Spinto di Dio è con loro, per illuminarle e renderle capaci di operare insieme, nella condivisione. E questo può avere un grande significato paradigmatico!

Non va trascurato, infatti, l’influsso positivo che un efficace ecumenismo può avere sulla vita di molte persone e d’intere popolazioni. Chiese diverse, che nonostante le loro differenze sostanziali, dimostrassero di essere unite e di sapere affrontare e risolvere, con spirito di libertà e giustizia, i propri problemi; e nello stesso tempo dimostrassero vivo interesse per i bisogni più impellenti della società, sarebbero di grande esempio e d’enorme incoraggiamento per molte istituzioni e per molte persone, animate di spinto di volontariato, ma bisognose di punti di riferimento.

L’apostolo Paolo, dall’alto di una esperienza di vita realmente vissuta, fa bene questa sera ad esortare anche noi ad avere coraggio, affinché con maggiore perseveranza continuiamo a dare il nostro contributo, anche se piccolo, sia pure di presenza, alle attività ecumeniche che si svolgono dentro e fuori le nostre comunità.

Ma poiché abbiamo ben compreso, che tutto questo può avvenire solo se Dio ci precede con la sua azione, e che anche l’unità visibile è dono dello Spinto, facciamo nostra ancora una volta, la preghiera che Gesù Cristo elevò al Padre, prima di morire, e chiediamo anche noi: Signore, fa che siamo uno, affinché il nostro mondo creda.

Messaggio di Christina Sloan (Scienza Cristiana)

 

II Cor 4:10 "Portiamo sempre in noi la morte di Gesù, perché si manifesti in noi anche la sua vita."

 

I versetti 26 e 27 di Genesi 1, presentano l'uomo ad immagine e somiglianza di Dio, avente dominio su tutta la terra, cioè la vera immagine di Cristo. In II Timoteo questa identità è in parte definita: "tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza". Questi e altri frutti dello Spirito sono i colori della Luce divina che tutti dovremmo esprimere. "Voi siete la luce del mondo" Cristo dice. E seguendoLo avremo "la luce della vita".

Dio Padre e Sorgente dell'universo è un Sole che emana Se Stesso quale Luce, o il Cristo. E ogni cristiano è un raggio di questa Luce. Così Cristo Gesù "manifesta in noi la sua vita" "a somiglianza di Dio". Ma Paolo dice: "portiamo sempre in noi la morte di Gesù" e ciò ricorda altre parole della Bibbia (Trad. di Re Giacomo): "io muoio quotidianamente". Se il cristiano segue il Signore Gesù, cosa dovrebbe morire quotidianamente? Ciò che Paolo intende per "nostri falli e peccati": egoismi, passioni, cioé la mortale natura del primo Adamo. Ogni cristiano deve "combattere (nel pensiero e nel cuore) la battaglia della fede" contro l'errore, con la grazia divina, che tende a riportare tutti alla luce "perché si manifesti in noi anche la sua vita", mediante "la mente che era pure in Cristo Gesù".

Paolo lo chiarisce così (I° Cor 15): "Il primo uomo, tratto dalla terra, è terreno; il secondo uomo è dal cielo. E come abbiam portato l'immagine del terreno, così porteremo anche l'immagine del celeste. Or questo dico, fratelli, che carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio; né la corruzione può ereditare la incorruttibilità." Ma Dio, creando l'uomo a Sua somiglianza, gli conferì "dominio...su tutta la terra". E questo significa che l'uomo in Cristo ha dominio su tutti i falli e peccati di Adamo "il primo uomo, tratto dalla terra, (che) è terreno".

Inoltre Genesi 1 ci chiama a custodire, curare e proteggere, tutto il creato di Dio e, come il Rabbino disse giovedì, a riportare il creato nel Regno perfetto ed armonioso di Dio, il Bene.

L'unità fra i cristiani è un 'effetto' e non una 'causa'. Ciò che ogni cristiano deve fare, individualmente e collettivamente, è tornare all'unità col Padre, nel Figlio, tramite lo Spirito Santo o Divino Consolatore. Più i raggi di luce si avvicinano al sole, più si uniscono fra loro, per diventare poi "una sola cosa": luce. Questo ritorno all'unità divina tra Dio e l'uomo, è inevitabile grazie al Redentore risorto e asceso e al Consolatore già venuto.

 

Messaggio della cap. Lidia Bruno (Eserc. d. Salvezza)

 

L’apostolo Paolo è una persona straordinaria con una determinazione spirituale – non c’è niente che lo ferma va sempre fino in fondo alle cose. In questo brano di 2 Cor. rivela quella che considera la sua esperienza più profonda: quella di aver conosciuto Cristo.

Il desiderio di conoscerlo sempre di più porta l’apostolo ad una vita di consacrazione fino a poter dire: ‘non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me’. La morte di Cristo opera in me, mi porta a morire a me stesso e nella misura in cui muore a se stesso la vita di Cristo si spande in lui – dove aumenta la luce il buio deve diminuire.

Cristo ha rinunciato alla gloria che aveva presso al Padre nella gloria celeste, il servitore non è maggiore del suo signore né il discepolo maggiore del suo maestro, quindi la sua missione non può attuarsi che nello schema di Cristo stesso, è nella misura in cui il discepolo ha la mente del maestro, di Cristo, che può entrare in quella straordinaria comunione con il Signore.

Paolo considera la conoscenza di Cristo come un dono straordinario, questa conoscenza che lo porta ad avere la vita eterna: un tesoro il cui valore è inestimabile; un tesoro portato in vasi di terra, portato nella fragilità umana ma ciò che conta con le cose preziose non è il contenitore ma il contenuto. Più tardi Paolo esorta Timoteo a combattere il buon combattimento della fede.

Combattere: una parola fuori moda – spesso non siamo pronti a fare dei sacrifici. Ancora oggi se vogliamo appartenere a Cristo, se vogliamo conoscere Cristo dobbiamo vivere una vita di consacrazione. Poter dire: non più io ma Cristo, non è una semplice battaglia è un combattimento quotidiano ma ce la possiamo fare anche noi perché Dio è fedele e ha promesso di essere con noi.

‘Chi mi libererà…’: questo è il grido di Paolo nella lettera ai Romani e ci dà anche la risposta : ‘Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo’. Lui lo può e lo vuole fare anche per noi

4 MAGGIO 1943

di Sara Bottini Sansone

 

Non ho un ricordo limpido della mia infanzia, ma ho chiare le immagini della mia vita familiare. Le difficoltà di diversa natura, dovute principalmente alla situazione socio—economica del nostro popolo in quel tempo, avevano forgiato la mia piccola famiglia ad una vita severa. 11 babbo, operaio prima, calzolaio in proprio dopo, era un po' burbero, ma di gran cuore e di sana bontà;la mamma, di carattere dolce e sereno, appariva quasi sottomessa a tutto pur di conservare in pieno l’armonia familiare; Mario era il mio fratello maggiore e aveva quattordici anni più di me; Ugo era più vicino alla mia età e aveva con me più confidenza. La famiglia andava avanti col magro guadagno del babbo, saggiamente amministrato dalla mamma che lo arrotondava facendo qualche lavoretto da sarta, in forma privata. Sono nata nel 1934 e, malgrado ogni sforzo, i miei ricordi di fanciulla si affacciano alla mia mente molto sfumati, quasi avvolti in un fitto banco di nebbia. Di un fatto, però, tragico, repentino, tremendo, che ci colpì tutti nel profondo dell’anima, mi è rimasto impresso,come un marchio a fuoco, il ricordo. Erano gli anni della seconda guerra mondiale e di quei tremendi anni non ricordo molto, tranne le immagini riportate sui giornali di allora, le visioni di qualche cinegiornale, quando mi portavano a vedere un film per bambini. Ma ricordo meglio i duri giorni dell’ “emergenza” al passaggio del fronte in Firenze e negli orecchi ho impresso lontano l’urlo della sirena, le affannose corse verso i rifugi. antiaerei, le paure delle bombe, e, poi, gli spari per le strade, tanti soldati prima con una divisa, poi con un’altra, diecine di morti sul selciato, la fila delle donne e dei bambini per la distribuzione dell’acqua, di qualche genere alimentare, la fame di ogni sera quando non era stato “trovato” nulla da mangiare.

 

Invece, indelebile, è rimasto il ricordo di un giorno: il 4 maggio 1943. Era primavera e già faceva caldo. Il babbo era già andato a “bottega” e la mamma rigovernava la cucina. Io giocavo con la

bambola. I compiti li avrei fatti ...dopo. Sì, perché a scuola non andavo molto volentieri. Avevo paura delle bombe, ma anche perché spesso la scuola chiudeva, per questa o quella ragione. Il silenzio di quel momento fu improvvisamente interrotto dallo squillo del campanello della porta d’ingresso. Come era mia abitudine di bambina curiosa, mi precipitai subito ad aprire e mi trovai di fronte un gigantesco (per me) soldato che aveva in mano una bustina gialla. Mi dissero, poi, che quel soldato era un carabiniere. Quella bustina gialla conteneva un telegramma del Ministero della Guerra e recava la triste notizia della morte di mio fratello Mario. Quel soldato chiese di entrare e, come meglio poteva, cominciò a riferire l’ordine ricevuto, cioè di portare la triste notizia. Ricordo la sua sincera commozione. Ma, ancor più, rivedo come se fosse al momento, la mamma che, terrea in volto, senza una parola si accascia su una sedia del salotto. Il telegramma diceva che Mario era caduto sul fronte tunisino il 29 marzo 1943. Dopo, per alcuni interminabili secondi, nella stanza ci fu un silenzio di morte seguito dal nostro pianto e dallo smarrimento. Poco dopo giunse il babbo, non ricordo da chi avvertito, e anche Ugo. Quei momenti furono da me vissuti come in un modo diverso, irreale. La guerra! Che significato aveva per me, piccola bambina? Quella parola, gli eventi dolorosi, erano continuamente presenti, ma io non li avevo mai compresi. Quel caldo giorno di primavera, come risvegliata da un sogno, cominciai a comprendere, a modo mio, la tragedia che incombeva su noi come su tutto il nostro popolo. Fino a quel giorno, per me, era naturale che si vivesse in angustie e pericoli, perché così mi sono affacciata alla vita non appena ho cominciato a frequentare la scuola e ad avere le prime compagne di giochi.

 

Mario era stato assegnato ad un reparto di artiglieria. In un primo momento fu inviato a Nettunia, così si chiamava allora la città di Nettuno, vicino Roma. Ma1grado la lontananza e la guerra, i miei genitori furono contenti del suo trasferimento in quella città dove abitavano il fratello e le sorelle del babbo, che proveniva proprio da quella zona del Lazio. Per qualche tempo rimase di stanza in quella città, ma poco dopo fu inviato al fronte a Tripoli, in Africa Settentrionale, dove, come ho appreso successivamente, le sorti del nostro esercito non erano proprio fortunate e giorno per giorno aumentavano le sconfitte. Con il suo reparto, Mario si dirigeva verso Tunisi in ritirata quando, nei pressi della stessa città, perse la sua giovane vita.

La mamma, per sua natura, era di poche parole. Soffriva tremendamente sin dal primo giorno della partenza del figlio, ma non lo dava a vedere. Mio fratello inviava bellissime lettere quasi giornalmente, in particolare alla sua mamma. Erano lettere cariche di speranza e di immenso affetto per lei. Spesso allegava per me una letterina e mi inviava dei soldi, appositamente risparmiati, per comprarmi un vestitino o un piccolo regalo. Mi fu raccontato che Mario cercava di trovare nel servizio militare, malgrado la guerra, il lato migliore che per lui era girare per il mondo, vedere nuovi paesi, incontrare nuovi popoli.In lui c’era lo stesso desiderio di tutti i giovani d’ogni tempo, che vogliono spaziare per conoscere, per apprendere, per vivere più intensamente. Odiava la guerra, ma non ne voleva parlare nelle sue lettere, che invece erano cariche di affetto e d’amore per tutta l’umanità. Mia madre è morta novantenne. In tutta la sua lunga vita ha conservato una grande forza d'animo, ma è rimasta profondamente ferita nello spirito per la tragica fine del suo figliolo. A modo suo, fino alla tomba, ha sempre espresso un sentimento di odio accanito per le armi, la guerra, gli eserciti. Non sopportava nemmeno la proiezione di un film di guerra alla televisione e non le piaceva sentire parlare di storie di guerra.

Quel 4 maggio 1943 portò nella mia casa una immensa tristezza, che ha influito sulla nostra vita, che ancora oggi nel mio cuore non si è del tutto cancellata.

Nel mondo, nella mia Firenze, prima e ancor più dopo quel nostro triste giorno, chissà quanti tragici, tremendi eventi hanno vissuto migliaia e migliaia di altre mamme, altre sore11e. Ma, per il mio ricordo, quel momento è impresso come un marchio a fuoco, nella mia anima. Rammento che, in quel momento, cercavo con forza e le trovavo nel mio cuore di bambina, tutte le parole che conoscevo per consolare la mamma. Ma lei non mi ascoltava, non capiva! Dentro

di sé ha conservato fino alla fine la sua rabbia verso la guerra, anche quando, nonna e bisnonna, ai suoi nipoti, presentava la malvagità della guerra, che le aveva tolto una parte importante del suo essere mamma.

Ora, dopo cinquantaquattro anni, riguardo a quel giorno, che più si allontana ( ma che non voglio cancellare), per raccontarlo ancora ai miei due figli, ai nipoti, perché ancor di più imparino ad aborrire la guerra, il più grande peccato degli uomini.

Per quel poco che mi è stato possibile, ho cercato di contribuire in seno alla mia famiglia alla crescita, sempre più ampia, della cultura di pace, di solidarietà, di umanità vera. Sono felice di aver visto i miei figli in prima fila per la lotta contro le guerre, per la pace e la giustizia per tutto il inondo. Sono stati obiettori di coscienza, ben motivati, e anche un mio nipote, il più grande, ha dato il suo pieno contributo al servizio civile.

Ogni volta che con la mamma si andava al ricordo dei giorni di guerra, insieme si conveniva che gli uomini, dopo ogni carneficina bellica, si sono sempre riproposti di non ricadere più nel grande peccato. I miei genitori si sposarono pochi mesi dopo la prima grande guerra mondiale, quella del 1915/18, nell’euforia grande di un incubo dissolto. Vent’anni dopo (tutti gli uomini si erano dimenticati dei loro proponimenti ?) , un altro tremendo conflitto travolse il mondo intero.

Oggi, in oltre cinquanta parti della terra, si muore ancora di guerre inutili, tremende, fratricide.

Sarà possibile — un giorno — che il nostro mondo trovi veramente la pace, la serena convivenza, la solidarietà e la giustizia uguale per tutti? -

Lo voglio fortemente sperare! Per questo scrivo questa mia piccola, modesta memoria: per i miei “ragazzi”, per tutti i giovani che attraversano spensierati le strade della terra.

 

 

 

Calendario di marzo

merc. 5 ore 21 veglia di preghiera per la pace in Piazza Ognissanti, presso la Fraternità Monastica di Gesù, alle ore 21.

giov. 6 ore 21 prove del Coro in v. Manzoni

ven. 7 ore 18 presso la Chiesa Luterana, Lungarno Torrigiani 11, Giornata di Preghiera Ecumenica Mondiale delle Donne con liturgia preparata dalle donne libanesi.

sab. 8– dom. 9 al Gould dalle 9 in poi Convegno delle Opere sul tema “Politica sociale e diaconia in tempi di devolution”. Il convegno nazionale terminerà con il pranzo di domenica; però il X Circuito terrà nel pomeriggio di domenica un suo convegno a partire dalle 14.30 in ottemperanza al mandato sinodale, con interventi di Caterina Dupré e Gabriele De Cecco.

mer. 12 alle 21 Preghiera per la Pace presso l’Esercito della Salvezza, Via Aretina 91.

gio. 13 alle 18 Veglia di preghiera per la Pace presso i locali di Scienza Cristiana, Via dei Servi 38.

sab. 15 alle 16 in via Manzoni, pomeriggio di festa dei bambini delle nostre Scuole Domenicali, con merenda, giochi ecc.

mar. 18 alle 19.30 presso la Claudiana Dopo-Lavoro-Teologico sul libro di Fulvio Ferrario, Libertà di Credere.

sab. 22 alle 17.30 nella chiesa di Via Micheli concerto del soprano Kian Kim, con lieder e musiche operistiche.

gio. 27 alle 21 in v. Manzoni prove del Coro.

sab. 29 alle 17 in v. Manzoni Conferenza-Dibattito del Centro “P.M.Vermigli” sul tema “Maschile-Femminile: come parlare di Dio” con interventi dei pastori Raffaele Volpe e Gianna Sciclone.