Non senti,  Signore?

di Luca Ghiselli

Non senti Tu, o Signore, i giorni miei 
cadere nel passato
siccome le pietruzze di corrente?
Che lunga vita dovrei avere mai
per costruir con esse il divenire?
L’ore son poche, scarsa è la giornata,
sempre giungono gli anni a tradimento;
faccio bilanci quando sento il tempo
trascorrer su di me come minaccia:
ma, vile, non so giungere al totale...

Dimmi, o Signore, dimmi dove vanno
le pietruzze portate dal torrente?
Forse all’estuario ci sei Tu?

(Diario, in F. Ulivi-M. Savini, Poesia religiosa italiana, Piemme 1994, p.675)

 

Oro, incenso e mirra

di Henning Goeden

Oro, incenso e mirra sono i doni che i Saggi d’Oriente portano al bambino nella mangiatoia (Mat. 2). I doni sono menzionati nella Bibbia innanzitutto in negativo, perché spesso servono per corrompere. Si dice sfavorevolmente dei figli di Samuele “erano avari, prendevano regali e pervertivano la giustizia” (1 Sam. 8,3). Anche le offerte rituali possono essere una forma di corruzione, per assicurarsi la grazia di Dio o degli dei.

I Saggi portano oro, incenso e mirra. Sono doni, che i conoscitori della storia dell’uscita d’Israele dall’Egitto hanno già sentito nominare, perché ricordano elementi del racconto della stipula del Patto sul Sinai. Nella descrizione della cosiddetta “ Tenda di convegno”(Esodo 25-31) sono menzionati oro, incenso e mirra. Con l’oro si devono ricoprire l’Arca del Patto e gli arredi del Tempio. Nell’Arca del Patto si trova la Legge di Dio e nella Legge è presente Dio stesso. Incenso si deve bruciare davanti all’Arca, per rafforzare la sua santità in quanto portatrice della Legge—è proibito usare l’incenso solo come piacere del naso! Con la Mirra, una resina d’albero, insieme alla Cannella, al Calmus (un muschio di palude), alla Cassia e all’olio d’oliva serve si fa un unguento, con il quale si spalmava l’Arca del Patto e l’altare dei profumi (su cui non si portava né fuoco, né cibo, né bevande!).

Oro, incenso e mirra hanno dunque non solo un alto valore materiale già di per sé, ma in più sottolineano, in quanto ornamenti dell’Arca, il significato della Legge, nella quale, secondo la convinzione del tempo, Dio dimostra la sua giustizia. Detto altrimenti: la giustizia di Dio consiste nel fatto che egli dà all’uomo diritto e legge per la vita. Ma cosa capisce l’uomo di diritto di vita? Il suo proprio, di solito. Contro quello altrui.

Al tempo di Gesù non c’erano meno attentati terroristici di quanti ce ne sono oggi.Giustizia sulla terra?!

Voglia Dio finalmente condurre alla salvezza questa vita grama! C’è come una nostalgia di compimento della vita che ci si attende dalla venuta di Dio. In Israele ogni attesa è diretta alla venuta del Messia. Questa attesa è accolta dal racconto dei tre Saggi, che portano i loro doni. L’oro rappresenta anche il sole, fonde della vita e simbolo di giustizia. Alcuni si ricorderanno del seminario col prof. Joerns e dell’”Inno al sole di Echnaton”, che riecheggia in alòcuni testi biblici (v. Salmo 104). L’incenso che sale è riferimento alla realtà altra di Dio, alla quale salgono le preghiere. E con quella mistura d’olio, alla quale appartiene anche la mirra, si fanno le “unzioni” (consacrazioni). Viene “unto” il re, secondo il rito egizio. Se un bambino riceve la mirra, significa: questo bambino è il Re! Perciò festeggiamo il Natale: la giustizia di Dio ora è arrivata sulla terra! Dio non ha abbandonato il mondo a vivere senza diritto e senza pace. Esiste il diritto ed esiste la giustizia, perché: il Re del mondo è venuto, il “Sole della gioia” - il suo cocchio è la mansuetudine, la sua corona regale è la santità, il suo scettro la misericordia. La sua promessa è che il cuore umana diventa il Tempio. Grazia contro ingiustizia, conforto nella paura, salvezza nella distruzione, vita nella morte.

“O porte, alzate i vostri frontoni, e voi porte eterne alzatevi!” Cara lettrice, caro lettore, non c’è bisogno dell’oro, dell’incenso e della mirra. Proprio a Natale si vede che:

Non tutto ciò che è ricoperto d’oro serve alla giustizia.
Non tutto ciò che profuma verso il cielo serve alla rivelazione.
Non ogni “unto” e “lustrato” serve come re.
E infine non ogni regalo viene dalla saggezza.

Non c’è bisogno sempre d’oro, incenso e mirra. Forse a Natale si può regalare: per-dono. Volontà di pace. Misericordia. Coraggio dolce, ma deciso. Un po’ di tempo, un po’ d’orecchio. Una parola discreta. Una mano d’aiuto.

Qualcuno si sentirà come un re per questi regali! Buon Anno Nuovo benedetto dal Signore!

Nota della redazione:

Incenso: sbucciando la corteccia dell’albero dell’incenso e incidendo il tronco si ricava una resina, che emana un odore dolciastro se la si riscalda o brucia.

Mirra: è la resina pallida, gialla di un arbusto che cresce in Somalia, in Etiopia e in Arabia.

 


Profughi

di Hans Ruedi Weber

 

Quando gli fu chiesto di contribuire al volume “Emmanuel”- La venuta di Gesù nella Bibbia e nell’arte (Claudiana 1986), l’artista ugandese Francis Sekitoleko dipinse una scena di vita quotidiana nell’Uganda di oggi (v. disegno sopra): una famiglia africana che si trasferisce dopo aver radunato le poche cose che ancora possiede dopo gli orrori della guerra e del saccheggio. La madre, il padre e un bambino sono sopravvissuti, ma solo per ora; ci possono essere banditi armati in agguato lì vicino. Essi porteranno via quel poco che questi piccoli profughi possiedono e potranno anche ucciderli.

Questo è il modo in cui milioni di profughi in Africa e in Asia, nel Medio Oriente, in America Centrale e del Sud, interpretano oggi la fuga in Egitto. E’ un’interpretazione esistenziale, che non ha bisogno di spiegazioni teologiche né di un’ermeneutica complicata per collegare il racconto biblico alla storia della loro vita. Essi lo capiscono con i loro piedi stanchi, la loro esistenza minacciata e la loro speranza vacillante.

Un poeta cattolico africano, Albert Abble, era alla ricerca di una Vergine nera:

Sto cercando un pittore africano
che mi faccia una Vergine nera,
una Vergine con un bel «keowa»,
quale indossavano le nostre madri...
Non è forse vero, Madre, che tu
sei la Madre anche dei neri,
una Madre nera, che porta
il bambino Gesù sulla schiena?

Nel dipinto di Sekitoleko noi vediamo la madre nera. Eppure, tra la poesia e il dipinto rimane una differenza fondamentale. Il poeta cattolico vede Maria divenuta Madre di tutti in seguito alla sua assunzione trionfale nei cieli, ma questa dottrina è posteriore e non ha alcuna base biblica.

Dalla tua assunzione, dal giorno glorioso
in cui trionfalmente fosti portata in cielo,
tu non hai più colore, o meglio, li hai tutti.

Invece Sekitoleko vede l’universalità di Maria, Giuseppe e Gesù nel fatto che essi condividono la condizione umana con tutte le sue incertezze e sofferenze. Il punto in cui tutti i colori e tutte le culture convergono è quello in cui Dio diventa un essere umano vulnerabile, l’Emmanuel come profugo.

Quando più tardi Gesù insegnava in Galilea, uno scriba molto colto si presentò a lui dicendo: «Maestro, io ti seguirò dovunque tu andrai». Gesù allora gli rispose (e lui, che già nella prima infanzia era stato profugo e in seguito visse lontano dal suo luogo natìo, aveva ben ragione di parlare così): «Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo hanno dei nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt. 8,20). Questa è una sfida fortissima per chi è bene installato in questo mondo. Quando, in seguito, un uomo ricco si trovò posto di fronte a questa esigenza radicale del discepolato e non poté aderirvi, i discepoli chiesero giustamente se una vita aleatoria come quella cui Gesù ci chiama fosse addirittura possibile. «Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: “Agli uomini questo è impossibile, ma a Dio ogni cosa è possibile’ ‘» (Mt. 19,24 ss.).

Il discepolato rimane un miracolo, una impossibilità umana, per i ricchi e per i poveri, per i forti e per i deboli, per coloro che vivono comodamente con tutti i beni che possiedono e per i profughi avviati su un cammino incerto. Eppure i poveri e i deboli e i profughi possono più facilmente riconoscere l’Emmanuel. Egli scelse di essere uno di loro e rivolse a loro un invito tutto particolare: Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo, e imparate da me, perché io sono mansueto e umile di cuore, e voi troverete riposo alle anime vostre; poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero (Mt. 11,28 ss.).

L’Emmanuel come profugo. Questa interpretazione della fuga in Egitto risulta «parlante» alla gente del nostro tempo. Non è la «fuga» intesa come una spedizione di conquista trionfale e sovrana (cfr. sopra p. 82), né il suo riferimento veterotestamentario con paralleli col patriarca Giuseppe, con Giacobbe/Israele e i racconti dell’infanzia di Mosè (cfr. sopra pp. 79 ss. e 85 ss.) che può dare al racconto di Matteo la sua particolare rilevanza per l’oggi; ma è l’Emmanuel riconosciuto come un profugo diretto verso cieli oscuri, come Sekitoleko lo illustra nel suo dipinto.

L’Emmanuel che viene come profeta sofferente, come il Messia sofferente del tutto inatteso: questo è lo scandalo e la buona novella dell’insegnamento di Matteo. Egli si preoccupa in modo molto particolare dei «piccoli», dei «minimi», come Matteo non si stanca di ripetere:

- «E chi avrà dato da bere soltanto un bicchier d ‘acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è un mio discepolo, io vi dico in verità che non perderà affatto il suo premio» (Mt. 10,42).

- «E chiunque riceve un bambino come questo nel nome mio, riceve me. Ma chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli che credono in me, meglio per lui sarebbe che gli fosse appesa al collo una macina da mulino e fosse gettato in fondo al mare» (Mt. 18,5 s.).

- «Così il Padre vostro che è nei cieli vuole che nessuno di questi piccoli perisca» (Mt. 18,14).

«In verità io vi dico che in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me»(Mt. 25,40.45).

L’Emmanuel come profugo parla agli emigranti politici di oggi. Nella loro fuga dalla dittatura militare, solo di tanto in tanto osano fermarsi e «cercano brevemente... il volto di colui che disse di essere la luce del mondo». In una lunga poesia, un grido dal profondo del cuore, lo scrittore messicano Raùl Macin interpreta in questo modo il destino dei rifugiati politici dell’America Latina. Che essi lo sappiano o no, Gesù, fin dalla sua prima infanzia, è in cammino a fianco di queste persone maltrattate:

Era l’alba di un giorno in cui la speranza trasformava tutto.
Era l’alba de/giorno in cui la vittoria non solo era sentita, ma anzi era /a, vicina,
poteva raggiungerla il popolo che non aveva smesso di lottare per essa. 
Era l’alba della nascita di una nazione 
quando gli stivali dei traditori cominciarono la loro opera di distruzione. 
Fu allora che la notte d’angoscia forzò coloro che avevano speranza 
a cercar rifugio in un tenebroso esilio. 
E così iniziò un pellegrinaggio che sembra non aver mai fine 
anche se i suoi limiti sono rabbia e nostalgia...

Passo dopo passo, fra ricordi, maledizioni e sogni
lasciando indietro la notte di tortura, l’ignominia e la sconfitta
il popolo de/pellegrinaggio latino-americanc cerca rifugio
nella certezza che tornerà.
 Passo dopo passo, talvolta con lentezza esasperata, 
i pellegrini avanzano ma/grado l’ingiustizia tenebrosa. 
Passo dopo passo
solo con brevi soste per cercar con ansia 
come colui che scruta l’invisibile cercando il volto 
di colui che disse di essere la luce del mondo. 
Passo dopo passo ricostruendo la speranza, 
passo dopo passo inventando la fede, 
passo dopo passo sognando la vittoria...

(da: Emmanuel pp.88-90)

 


Preghiera degli asini

( Autore Anonimo )

“Dacci, Signore, di mantenere i piedi sulla terra,
e le orecchie drizzate verso il cielo,
per non perdere nulla della tua Parola.
Dacci, Signore, una schiena coraggiosa,
per sopportare gli esseri umani più insopportabili.
Dacci, Signore, di camminare diritti,
disprezzando le carezze adulatorie
e schivando le frustate.
Dacci, Signore, di essere sordi alle ingiurie,
all’ingratitudine, è la sola sordità
cui aspiriamo.

Non ti chiediamo di evitare tutte le sciocchezze,
un asino farà sempre delle asinerie...
Dacci semplicemente, Signore, di non disperare mai
della tua misericordia così gratuita
per quegli asini così disgraziati che siamo,
a quanto dicono quei poveri esseri umani,
i quali però non hanno capito nulla
né degli asini né di Te,
che sei fuggito in Egitto con uno dei nostri fratelli,
e che hai fatto il tuo ingresso profetico
a Gerusalemme,
sulla schiena di uno di noi”.

(da F. Taubmann-M. Wagner, “A haute voix” Paris, 1998)

 

Il mio viaggio fra due culture

come non sperdersi ed essere se stesso

di Pedro F. Miguel*

Io appartengo a quella famiglia di animali i cui rappresentanti, quando arrivano qui in Italia, vengono chiamati “vu’ cumprà”. Il volto triste del pianeta: interi continenti della terra sembrano destinati, da sempre e per sempre, a ospitare gente in fuga, gente affamata, disperata, senza casa, senza riferimenti, senza passato, senza futuro.

Questa è, generalmente, l’identità che mi viene attribuita qui in Italia. Quasi una non-identità. Nella paranoica totalità che la civiltà delle immagini ci offre, l’eterno presente di interi popoli sembra una folle girandola chiusa nella circolarità del fato: carestie, inondazioni, guerre civili, siccità, corruzione, malattie senza speranza e senza nome. In Africa, in America Latina, in Asia non vi è calamità, di origine umana o naturale, che non assuma il volto del fato: una condanna alla sofferenza, che allinea epidemie e carestie, siccità e guerre.

Sono passati più di dieci anni, ma non riesco a togliermelo dalla mente. Il 4 maggio 1991 il dovere di cronaca impose ai redattori de “La Repubblica” di dare conto della terribile inondazione che aveva distrutto il Bangladesh, causando forse un milione di vittime. Una delle peggiori vicende, in termini di vite umane perdute, del secolo scorso. Ecco dunque a pag. 17 il “servizio”. Solo due colonne fitte, illustrate da tre fotografie di cui una particolarmente crudele: quella di un neonato che galleggia annegato accanto alla carcassa di un bufalo. Ma l’aspetto più terribile di quella pagina de “La Repubblica” è la grande fotografia centrale che pubblicizza una linea di prodotti cosmetici per uomo. “I piaceri della pelle” dice il claim scolpito sulla vellutata pelle bianca di un essere umano, che trova anche il tempo e la voglia di occuparsi in modo così feticista del proprio corpo.

“I piaceri della pelle”, proprio a ridosso della negazione totale di ogni piacere, di ogni gioia: la morte per annegamento di un neonato, asiatico, sottosviluppato, immeritevole, a quanto pare, di godere degli stessi privilegi di quella levigata faccia bianca. “I piaceri della pelle” sono riservati a chi si arricchisce sulla miseria altrui. Questo ho pensato. Sì, certo, fame, sete, carestie, inondazioni, epidemie, disastri possono accadere ovunque, in Africa come altrove, in Asia come altrove. Il gemito dei popoli oppressi non germoglia solo da essi. Il loro coro di dolore, la mia non-identità, vanno interpretati alla luce della loro, della mia, della nostra condizione di impoveriti, ormai cronica, e squilibrata a favore di una stretta minoranza della popolazione mondiale: quella che gode dei “piaceri della pelle”.

Oggi il gemito degli oppressi, popoli o individui dispersi nella diaspora planetaria, è sempre più il silenzio delle loro identità: nello scontro titanico con l’Identità omologante del pensiero occidentale, il dolore diventa incomunicabile, e quindi sterile. Infatti accade che la sofferenza di queste miriadi di persone nasca dal non poter neppure attribuire alle proprie radici la condizione di oppressione e di miseria. In realtà molte sofferenze planetarie sono spiegabili esclusivamente con lo squilibrio della situazione esistente. Ma la minoranza ricca, nella sua grandissima parte, nega questo squilibrio, anzi, ne parla come di una variabile funzionale all’intero sistema. Se quindi l’Identità Omologante Occidentale nega lo squilibrio e nega le proprie responsabilità nello squilibrio, abbandona al fatalismo e all’incertezza tutti coloro che di quegli squilibri sono le vittime. Lo scontro con l’Alterità Omologante si risolve nel silenzio della propria identità, e in questo modo anche il dolore diventa inesprimibile, perché inesprimibili sono le cause, indicibili sembrano le radici di questo dolore, germogliato dall’impoverimento spirituale ed economico. I meccanismi di questa progressiva spoliazione, anche del significato del proprio dolore, sono sottili ma efficacissimi. Non vi è apparente collegamento tra una carestia in Africa e un aumento della produttività industriale in Germania, non vi è quindi apparente collegamento fra il dolore di chi è oppresso da quella carestia e il benessere di chi guarda la carestia attraverso il proprio televisore. In tal modo chi viene oppresso dalla fame non riconosce il proprio “nemico”, che gli ha procurato la fame arricchendosi. Non riconosce quindi nemmeno la propria alterità rispetto a quel “nemico”, il proprio essere totalmente altro rispetto al “nemico”, non si riconosce più perché non vede e non riconosce la propria identità di oppresso. Ecco che dunque l’identità tace, e la propria sofferenza, ormai inesprimibile, non comunica l’alternativa di cui potrebbe essere ricca. Diviene sterile, poiché non trasmette la necessità del cambiamento, necessità alimentata dall’identità che si riconosce come oppressa. L’identità oppressa oggi è soprattutto dolore. Il dolore di questa oppressione è soprattutto il silenzio della propria identità. Ai popoli oppressi dall’impoverimento e dalla spoliazione culturale viene negata anche la possibilità di resistere al proprio disfacimento. L’identità omologante occidentale, infatti, si presenta e si comporta da riferimento planetario: in questi quaranta anni abbondanti che sono seguiti alla fine del colonialismo per l’Africa e per l’Asia e all’inserimento nelle logiche statunitensi o sovietiche delle ex colonie (con conseguente crollo di ogni parvenza di stato alla fine del comunismo russo), il processo di omologazione è stato sempre più veloce e sempre più devastante. In alcuni casi, come l’Angola o nel Sud-Est asiatico, il processo ha accompagnato un continuo stato di guerra e guerriglia, che ha letteralmente impedito ai popoli di respirare liberamente e meditare serenamente sul proprio destino. Dopo decenni di azione massiccia e coordinata su tutto il pianeta, l’Identità omologante ha completamente oscurato molte identità oppresse, non soltanto con il genocidio, come nel caso degli Indios dell’Amazzonia e di alcune etnie dell’Africa centrale, ma soprattutto con l’espropriazione culturale. Le comunità umane non ritrovano più nei propri referenti culturali, linguistici, economici e giuridici le possibilità di sanare le piaghe da cui sono afflitte, perché non riconoscono più nemmeno l’alterità del proprio dolore rispetto al benessere di chi sfrutta le loro risorse e cancella le loro vite.

Il vero codice universale dell’omologazione è la cultura del profitto: tutto deve diventare funzionale al profitto e ai processi economici che lo sottendono. Il mondo in realtà è un immenso mercato in cui le ragioni umanitarie, che si collegano direttamente con la solidarietà di specie, sono assolutamente secondarie rispetto alle ragioni del guadagno: anche la guerra in Iraq è stata codificata in termini di guadagno, sia per quanto riguarda le azioni belliche vere e proprie, sia per le azioni “umanitarie” organizzate dai governi alleati. Il suo prezzo, in miliardi di dollari, non è stato ancora definitivamente calcolato, mentre si sa giù quanti miliardi di dollari, fra danni, assicurazioni e quant’altro, è costata la tragedia delle Twin Towers, l’11 settembre del 2001.

L’omologazione giunge al punto di privare le comunità oppresse dello specchio della loro sofferenza: non devono più ritrovarsi, neanche nel dolore; devono essere assimilate al finto benessere occidentale, devono diventare mute rispetto alla loro condizione di oppressione. Lo scontro è duplice: tra una cultura dominante e omologante, ansiosa di rendere funzionali, produttivi, commercialmente vantaggiosi i rapporti fra gli uomini e le culture del non profitto e della non proprietà, centrate sull’arricchimento delle relazioni interpersonali e intercomunitarie, da un lato.

Dall’altro, tra Identità dominante e omologante, come tautologica ragione della propria unicità esistente e le identità dei dominati, in cui vige, come nel caso della mia etnia, i Bantu kimbundu, un’identità di specie, policentrica rete di equilibri, vibrante nella piena armonia comunitaria.

Non vi è mai stato un tribunale della storia in cui i vinti, i conquistati, i dominati, abbiano potuto far valere le loro ragioni, se non nella subordinazione alle esigenze di mercato e di profitto dei vincitori, dei colonialisti, dei conquistatori. La fine del colonialismo non ha riportato i paesi allo statu quo ante, che sarebbe stato impossibile, ma non ha nemmeno consentito a quei popoli di riprendersi ciò che era stato loro sottratto, in termini sia culturali sia di risorse economiche.

Il punto fondamentale sembra ruotare intorno al principio di identità: non è la stessa cosa formularlo secondo i parametri occidentali, che oggi sono quelli dominanti, e secondo i parametri di altre culture, che oggi subiscono il silenzio. Un silenzio che rischia di diventare mutismo se a tacere sarà il dolore, il dolore della propria identità cancellata, non riconosciuta, perché omologata ai principi dominanti. La strada è ancora lunga: l’importante è chiamarsi e rispondersi: per non perdersi e disperdersi in questo strano mare che ci tocca attraversare. Un recupero del dolore, della propria sofferenza, può significare riconoscere quella stessa sofferenza come causa di annientamento, ma anche come primo nucleo della propria identità recuperata. Un recupero del dolore comunitario può significare innanzi tutto un recupero della dimensione comunitaria della propria esistenza, non inserita nei rigidi meccanismi del profitto. Il recupero del dolore diventa recupero di una propria identità e il dolore diventa dolore di identità. Il dolore della propria identità, la voce, il pianto di una identità che torna dagli abissi dell’inconscio e vuole recuperare il suo posto legittimo, insieme a tutte le altre identità. Correndo verso l’omologazione planetaria, infatti, verso l’Unica Identità Omologonate, si corre verso lo spegnimento di tutte le identità diverse: non può esservi identità senza l’alterità di altre identità. Il gemito degli oppressi può avere un solo senso, oggi: quello del dolore della propria identità. In questo modo potrà essere udita la voce della vita comunitaria per tutti quei popoli che sono, che erano organizzati secondo forti referenti comunitari e interconnessi. Questa voce può riempire il vuoto che l’identità omologante occidentale sta tentando di riempire con se stessa.

Oggi il dolore dell’oppressione è incomunicabile, segna il tacitamento di una coscienza comunitaria. Esso deve diventare dolore della propria identità. Il silenzio dell’omologazione planetaria deve essere spezzato dal gemito di chi, come il popolo nel deserto, grida per la propria liberazione. Ma la liberazione passa attraverso il dolore, attraverso un recupero del proprio dolore di identità. Il dolore, recuperato come voce della propria identità negata, viene vissuto come sintomo di liberazione, non più sindrome muta e inespressa di schiavitù.

* Pedro F. Miguel è un sociologo angolano che vive a Bari; ha scritto libri e numerosi saggi per riviste; si occupa principalmente del confronto fra la spiritualità cristiana e le numerose spiritualità africane.

 

Ma il Crocifisso non è il Vangelo

di Enzo Mazzi

(già pubblicato da L’Unità del 2 nov. 2003)

 

Crocifisso sì crocifisso no è di certo il modo peggiore per affrontare il problema. «Il contenuto della laicità non può essere rimesso a una maggioranza», scrive Luciano Zannotti, professore di Diritto ecclesiastico all’Università di Firenze, in un saggio che si raccomanda per rigore e competenza («Il Crocifisso nelle aule scolastiche» ne Il Diritto ecclesiastico 2/1990). Figuriamoci se può esser rimesso al plebiscito o ai sondaggi. Già una volta («una volta» in senso embiematico) fu indetto un plebiscito su una questione di giustizia e risultò dirompente: «Chi volete che vi liberi: Barabba o Gesù? Chiese Pilato alla folla... ma i grandi sacerdoti e gli anziani persuasero il popolo a chiedere Barabba e a far perire Gesù» (Vangelo di Matteo).

Ma oggi non è accettabile che lo Stato di diritto, lo stato laico, si comporti come Pilato. Non può lavarsi le mani. Se una persona, un qualsiasi povero cristo, chiede giustizia di fronte a quella che lui sente come una prevaricazione religiosa e confessionale, di fronte cioè all’esibizione del crocifisso, gli organismi dello Stato non possono mettere su un piatto della bilancia la solitudine di quel povero cristo e sull’altro piatto il peso della «stragrande maggioranza» accomunata da una appartenenza religiosa. Devono decidere in base ad altri criteri, quelli del diritto uguale per tutti e quello dell’interesse pubblico. Questa è laicità. È ciò che ha fatto il giudice del Tribunale dell’Aquila. E lo ha spiegato bene nella sua ordinanza.

Finché la religione cattolica era l’unica religione dello Stato si poteva ancora sostenere che l’esibizione pubblica del crocifisso corrispondesse all’interesse pubblico. Ma oggi, dopo gli Accordi del 1984, la religione cattolica non è più la sola religione dello Stato. Quindi i simboli religiosi, tutti i simboli religiosi, anche quelli della spiritualità o della fede laica, hanno uguale dignità. Le leggi e chi le interpreta devono adeguarsi di diritto e di fatto. E infatti non è un caso che chi interviene con un minimo di consapevolezza in favore del crocifisso, dal Presidente della Repubblica al Papa ai politici più accorti, o più codim nel ripetere le parole d’ordine, non dice che il crocifisso è un simbolo religioso di una confessione privilegiata la quale a differenza delle altre avrebbe il diritto di esibire le proprie icone nei luoghi pubblici. Non commettono questo errore. Cosa dicono allora? Che il crocifisso è un simbolo di valore universale e un segno che fa parte dell’identità nazionale, simbolo di solidarietà nella sofferenza, di sacrificio della propria vita per la giustizia, di speranza e di amore, che vale per tutti i cittadini indipendentemente dall’appartenenza religiosa; vale per i cristiani come per gli ebrei per i musulmani e per gli stessi atei. La sofferenza di Gesù appartiene a tutte le vittime della storia. E il crocifisso è come una seconda bandiera nazionale.

È nella sostanza lo stesso discorso che giustifica l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica. In quelle ore non si fa il catechismo, ci dicono, ma si insegnano i valori universali insiti nel cattolicesimo. Si è capito però che l’insegnamento di una religione particolare nella scuola pubblica andava a ledere il diritto uguale per tutti, uguale per l’uno come per i molti, era una ferita della laicità. E si è trovato ìl rimedio con la «alternativa»: chi non vuole «l’insegnamento cattolico dei valori universali» ha la possibilità di fare altre cose in luoghi diversi da quello in cui si svolge l’insegnamento religioso cattolico. In alcune scuole si cerca di far funzionare l’alternativa in modo non discriminante. Per certi alunni e in certe scuole invece è un dramma. Di fatto la scelta non c’è. Ma almeno è salvo il principio. Un domani il principio sì può ovunque spogliano della foglia di fico e riempirlo di contenuti.

Ma con la questione del crocifisso come si mette? Dov’è l’alternativa? Ad essere logici e coerenti si dovrebbero approntare aule col crocifisso e aule alternative, senza crocifisso o con le immagini care ad altre spiritualità e religioni, a scelta. Ma anche carceri, caserme, ospedali, tribunali, sedi istituzionali, alcune col crocifisso e altre senza. Il giudice dell’Aquila ha voluto evitare questa assurdità e l’ha detto. La colpa degli esiti negativi della sua ordinanza, che ci sono, non è sua. Ma del legislatore che non ha approntato alternative. E siamo al tifo da stadio per il crocifisso pubblico o contro.

C’è però un’altra questione. Riguarda il significato del crocifisso. È proprio vero che ha un valore universale e che è la bandiera dell’identità italiana? Che tutti i cittadini, di qualsiasi religione o credo, possono e devono accettare? Ma allora com’è che Costantino ha messo la croce sui suoi labari e in quel segno ha ucciso e in quel segno ha vinto? Com’è che da quel momento la croce è trionfo e vittoria? Vittoria su chi? Sugli oppressori? Oppure vittoria degli oppressori di sempre sugli oppressi di sempre? È vero che poi Costantino in omaggio alla croce ha abolito la crocifissione. Non però la sostanza del supplizio. Ha continuato a sacrificare innocenti con altri strumenti avvalendosi della protezione della croce. Si potrebbe continuare sul filo della storia, dalla croce indossata dai crociati alla croce brandita dai conquistatori alla croce usata per accendere i roghi di eretici e streghe, fino alla croce sui simboli di partito e alla croce che s’insinua negli attuali arsenali militari.

E come la mettiamo con la croce come sacrificio perenne? Partecipazione al sacrificio di Cristo, agnello sgozzato che toglie i peccati del mondo, emblema di una umanità sacrificata sempre e per sempre, fino alla fine della storia, per la salvezza nell’al di là, senza speranza reale di una possibile redenzione storica, senza vera fiducia nell’impegno umano per una fine storica del sacrificio. La croce quindi come rassegnazione, consolazione, protezione e invito alla carità. Lo so bene che la croce ha alimentato anche la speranza del riscatto storico degli oppressi, la loro lotta e le loro rivoluzioni. Ma per lo più ciò è stato considerato una eresia.

In realtà ogni volta che il cristianesimo si è aperto e legato ai movimenti storici che puntavano al riscatto dei poveri e degli oppressi,

qui in terra e non solo in cielo, ha messo da parte la croce e ha riscoperto il Vangelo delle beatitudini e della frusta contro i mercanti di sacrifici del Tempio. Non per nulla meno croce e più Vangelo valeva anche nella scuola di Barbiana da dove don Milani aveva tolto il crocifisso. Meno croce e più Vangelo valeva per un cattolico come Mario Gozzini, il senatore della legge sulla carcerazione, il quale nel 1988 scrisse proprio sull’Unità due forti articoli di critica verso i difensori dell’ostensione pubblica della croce. E vale oggi per tante esperienze di fede cristiana aperte al globalismo dei diritti e alla pace, vale per le comunità di base, vale per tante oscure parrocchie e associazioni, vale per i valdesi. Il problema è che il sistema dei media non ne dà notizia.

Le suggestioni di Gozzini sarebbero da rileggere oggi, tanto sono attuali. Egli da fine politico e da buon legislatore fa la proposta di «uno strumento che impegnasse il presidente del Consiglio a studiare e compiere i passi opportuni per ottenere, dalla Conferenza episcopale, l’assenso a togliere di mezzo un segno diventato, quantomeno, equivoco... Ci vorrà tempo e pazienza -conclude Gozzìni - ma ho speranza che alla fine la ragione e l’autentica coscienza cristiana (quella che bada a Cristo più che ai patrimoni storici) avranno la meglio». Con un governo come quello che ci ritroviamo ce ne vorrà di tempo e di pazienza! Ma non sarebbe il caso e il momento che l’iniziativa partisse invece proprio dai nostri vescovi? Perché non fanno un atto di umiltà unilaterale, non rinunziano al crocifisso pubblico e non riportano l’icona della salvezza trascendente nell’ ambito proprio della fede trascendente? A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio.

 


PERCHÉ GLI UOMINI NON VIVONO PIÙ

CON GLI ANIMALI

di Francesco Amato

Lo sai perché?

All’origine dei tempi gli uomini e gli animali erano tutti membri d’una sola famiglia. Il loro padre, Ekumakuku, aveva sposato parecchie donne che, nel corso degli anni, partorirono esseri di ogni specie di cui una piccola parte fu chiamata umana e la maggior parte animale. Essi vivevano tutti insieme, come fratelli e sorelle, senza litigare.

Ma, col passare degli anni, la situazione andava sempre più peggiorando. Nel cuore degli umani nacque la gelosia la quale cominciò a turbare lentamente la pace. Diffidenza e mancanza di fiducia diedero origine a due dan: quello degli umani e quello degli animali. Gli uomini non volevano più vivere in compagnia degli animali; nel loro cuore l’odio prese il posto dell’amore.

Gli uomini cominciarono a parlare male degli animali, disprezzandoli; non solo, li accusavano spesso di provocare danni. Gli animali non accettarono il comportamento degli umani, respinsero le loro accuse infondate e cominciarono a litigare. Col passare dei giorni nacque una disputa molto vivace, durante la quale l’uomo prese la parola per sostenere la superiorità degli umani; gli animali dovevano sottostare ai loro ordini, ma essi non accettarono il principio di superiorità, perché tutti erano figli dello stesso padre, Ekumakuku; quindi, bisognava vivere insieme nel rispetto reciproco, come all’origine dei tempi. Sentendo ciò, l’uomo cominciò ad insultarli.

Dopo avere sentito ingiurie e tanti insulti, si fece avanti il cervo che, per difendere la sua gente, rispose all’uomo con calma a nome di tutti gli animali d’ogni specie. «Oh, quanto siete orgogliosi, umani! Che cosa avete più di noi, animali? Siamo tutti fratelli e sorelle, figli dello stesso padre, Ekumakuku. Se voi avete due gambe e due braccia, noi abbiamo quattro zampe e stiamo bene sulla terra, mentre voi ora cominciate a barcollare. Chi è rimasto con due zampe ha saputo procurarsi le ali per volare e godersi la libertà.»

«Cervo e voi tutti che mi ascoltate, voi siete bestie, cioé carne da mangiare. Io ho dunque il diritto di uccidervi e mangiarvi con un contorno di maccabo condito con olio di palma. Anche ora se ne ho voglia. Mi avete capito?» Sentendo queste parole minacciose, da fare rizzare il pelo, il cervo si drizzò sulle zampe posteriori per calmare questo uomo, invitandolo a ragionare. Mentre il cervo parlava con calma in difesa del suo dan, l’uomo si avvicinò e gli diede un colpo di bastone sulla testa, uccidendolo.

Terrorizzati da questo gesto criminale, quei pochi animali che stavano accanto al cervo fuggirono per non subire la stessa sorte. L’uomo assassino, esultante di gioia, si affrettò a spellare il cervo e, dopo averlo tagliato a pezzi, distribuì la carne agli umani, i quali mangiarono ora cantando ora saltellando. Dopo questo orrendo spettacolo, gli animali molto indignati cominciarono a lottare contro gli umani; ma, non avendo avuto nessun successo, essi furono costretti a rifugiarsi nella foresta. Un giorno il maschio della pantera ebbe il coraggio di ritornare nel paese degli umani, quasi per sfidarli; mentre attraversava una strada, vide una donna, fece un balzo in avanti e l’afferrò, costringendola a seguirlo nella foresta. Quando gli umani sentirono le grida disperate della donna, lasciarono tutto e andarono di corsa in suo aiuto; perlustrarono tutta la zona circostante, ma della povera donna non videro nessuna traccia; dovettero rassegnarsi.

Dopo lunghe ricerche, gli umani appresero che la donna non era stata uccisa e divorata. No, era viva! Gli animali non vollero ucciderla perché, secondo il loro modo di pensare, «una donna non muore in guerra». Dunque, essi la diedero in sposa al capo del villaggio delle scimmie; da questo matrimonio nacquero lo scimpanzé e il cinocefalo.

Mamma Ngo Pom Rhode così concludeva: «Figli miei, l’uomo è l’animale più feroce e più cinico della terra. Non c’è pace dove c’è odio. Amiamo la natura e tutti gli esseri viventi! Miei cari, se non c’è giustizia, verità, amore e libertà, non ci sarà mai pace. Questi sono i valori fondamentali che dobbiamo coltivare giorno dopo giorno. Non dimenticatelo.»

(tratto dal libro di recente pubblicazione “Voci dalla foresta vergine”, MEF Firenze, p.201 s.)

 

Possono gli uomini essere consacrati?

di Rosemary Ruether Radford

 

Un sinodo di vescove dai quattro canti della terra e un intero consesso di Madri Superiore si è riunito recentemente nella città santa di Roma, per prendere in considerazione l'annosa questione della consacrazione degli uomini. La Santa Madre ha ricevuto molti lacrimevoli appelli dal sesso forte, rivendicanti una diretta chiamata da Dio Stessa. Sua Santità ha fermamente risposto a questi appelli affermando che la chiamata deve essere andata ad un numero sbagliato. La nostra Santa Madre in cielo non avrebbe mai chiamato al ministero persone così chiaramente squalificate per ragioni di genere. Ma gli uomini hanno rifiutato di prendere il No come risposta. Buttando via scope e spazzoloni, no, scusate, picche e fucili, hanno dichiarato che mai più avrebbero continuato a lavorare per la chiesa fino a quando non ci sarebbe stata uguaglianza per i riti.

Hanno inviato petizioni alla Santa Madre piene di argomentazioni a favore della consacrazione degli uomini, sia teologiche che pratiche. Malgrado, naturalmente, non si possano citare esempi presi da Gesù stesso, l'incarnazione della Santa Sapienza, dato che è evidente che Gesù non ha ordinato alcun uomo a sacerdote (del resto neanche donne). Sua Santità, infine, ha deciso di convocare insieme le Madri Superiore di tutta la chiesa, con un certo numero delle più qualificate "peritae" che hanno trascorso tutta la vita a studiare le peculiari caratteristiche del genere maschile, da una distanza di sicurezza, naturalmente. Esse sperano di esser pervenute a una risposta definitiva una volta per tutte sulla "vexata quaestio" della consacrazione maschile.

Dopo lungo e accurato studio, durante il quale le Sante Madri si sono fatte tante risate a proposito degli uomini e delle loro manie, è stato stilato un documento finale, che definisce le ragioni per cui gli uomini non possono esser consacrati. Il decreto, come proclamato da Sua Santità e da tutte le altre sante, è scaturito dai seggi stessi della Sapienza, con viva soddisfazione per il proprio lavoro. Il decreto "Ad Hominem" ha stabilito, con soddisfazione, speriamo, per i secoli a venire, le autorevoli ragioni del loro viscerale pregiudizio. La prima parte del decreto ha stabilito un buon numero di ragioni a partire dalla natura biologica e psicologica degli uomini che li squalifica per il sacerdozio. Si è detto innanzitutto che gli uomini sono troppo violenti e troppo emotivi per essere sacerdoti. Chiunque abbia visto gruppi di uomini che assistono a una partita di calcio, o hockey sul ghiaccio o di cricket, per non parlare di assemblee politiche, ha potuto rendersi conto delle loro superficiali tendenze a risolvere i conflitti a cazzotti. Ordinare tali creature sarebbe rischiare spiacevoli risse davanti all'altare. La maschile propensione alla violenza certamente li squalifica nella rappresentazione dell'Una che incarna la grazia e la pace. La rude e pesante cornice fisica del maschio lo denota chiaramente per i lavori pesanti della società, scavo di pozzi, riparazione di tetti e cose simili. I compiti più fini e spirituali sono stati creati dalla nostra Madre nei cieli per gli spiriti e i corpi più raffinati, femminili.

Questa separazione di ruoli è evidente nella Scrittura dove degli uomini si dice che sono stati creati dalla polvere, mentre le donne sono state create da carne umana. Inoltre le donne sono state create per ultime, denotandole chiaramente a coronamento della creazione. E' stato anche suggerito da una Madre Superiora che Adamo era una bozza grezza, essendo Eva la più raffinata e completa versione della natura umana. Le Madri hanno riso a lungo su questo e alcune hanno deciso di farne un adesivo per paraurti. Ci si è resi conto che gli uomini sono anche necessari per la difesa militare. Il posto di un uomo è nell'esercito, ha dichiarato una delle "peritae", e tutte le Sante Madri si sono trovate d'accordo. Inoltre gli uomini sarebbero apparsi ridicoli vestiti di rosso e merletti. I paramenti sacri sono chiaramente destinati alle donne.

Profonde questioni di natura teologica sono state ugualmente affrontate. Una perita ha preparato un lungo documento, che prova a partire dall'ordine simbolico, che gli uomini non possono essere consacrati. La divisione dell'umanità in maschi e femmine è un profondo mistero che simbolizza la relazione del trascendente e dell'immanente, dello spirituale e del materiale. Le donne rappresentano il regno spirituale, gli uomini quello materiale. Il materiale deve essere regolato dallo spirituale, esattamente come la Santa Sapienza presiede al cosmo e al suo mantenimento.

Inoltre, siccome la chiesa è femminile, quelli che la rappresentano devono essere anch'esse donne. Ci dovrebbe essere una rassomiglianza fisica fra il sacerdote e la chiesa come Santa Madre. Ovviamente questo significa che tutti i sacerdoti dovrebbero essere donne mature. La chiesa è detta la sposa di Cristo e le spose sono donne. Il sacerdote come rappresentante della chiesa in relazione al Cristo, rappresenta la sposa di Cristo. Dunque solo le donne possono essere sacerdoti. Infine è stato notato che la maggior parte delle persone che vanno in chiesa sono donne. Gli uomini tendono a rimanere fuori dalla porta della chiesa a spettegolare o parlare di sport. Avere un uomo all'altare può distrarre le donne dalle preghiere. E' stato solennemente notato che gli uomini possono essere sessualmente attraenti per alcune donne. Per le donne ascoltare uomini che predicano e si muovono pesantemente intorno all'altare può indurre a far cadere i loro pensieri dall'alto alle basse sfere. Si spera che tante chiare ragioni, sia teologiche che pratiche, contro la consacrazione degli uomini, sistemino tutta la materia. L'impertinenza maschile sarà messa a tacere e gli uomini sono invitati a tornare al loro posto.

Roma locuta, causa finita.

 

Il naso tra i libri

DALL’INCUBO AL PERDONO: OLTRE IL DEAD MAN WALKING

Debbie Morris con Gregg Lewis, Dead Man Walking. Un cammino verso il perdono

pp. 259 – euro 15,00

Questo libro racconta finalmente la parte mancante della storia di vita vissuta che tutti conosciamo grazie al film di Tim Robbins, Dead Man Walking, che si concentra però sul rapporto tra il killer condannato a morte (Sean Penn) e suor Helen Prejean, interpretata da Susan Sarandon, Oscar come migliore attrice protagonista.

In questo libro-testimonianza prende invece la parola Debbie Morris, l’ex ragazzina che nel 1980 sopravvisse al sequestro e allo stupro riuscendo a convincere i rapitori a rilasciarla per poi diventare la testimone chiave del processo contro Robert Lee Willie.Con grande lucidità e senso della misura, Morris ripercorre le trenta ore di violenze e minacce, il dialogo interiore e le strategie di sopravvivenza di fronte al pericolo, quindi la lotta per affrontare i terribili ricordi e i sentimenti di paura, odio e rancore che la distruggono, ossia il lungo percorso per ricostruire la sua vita, oltre il dramma e fino alla pace e alla libertà che solo il perdono riesce a darle.

AUTO CONTRO CAMION, DICIANNOVENNE IN PROGNOSI RISERVATA

Andrea Moretti, Tornare a vivere. L’esperienza di un incidente quasi mortale, prefazione di Mariella Zoppi Spini

pp. 260 – euro 12,50

A vincere il XVIII Premio Pieve – Banca Toscana per il “Miglior Diario dell’Anno” 2002 è stato Andrea Moretti, ragazzo “pieno di speranze e di voglia di vivere” che a diciannove anni resta coinvolto in un pauroso incidente stradale che lo lascia invalido al 50%.In queste pagine Moretti racconta i tre anni di dure sofferenze e riflessioni per “tornare a vivere”, per ridare senso a un’esistenza radicalmente mutata dal dramma: un percorso di crescita consapevole attraverso la sofferenza.

“Una ricostruzione attraverso il linguaggio, quella che compie il giovane vincitore di questa edizione [del Premio Pieve], che ricompone pezzi della propria esistenza rielaborando, passo passo, la memoria del linguaggio, del cibo, della sua intera vita che gli è stata riconsegnata in mano. Deve tornare a vivere senza fretta ma con una maggiore consapevolezza. La stessa che permette al linguaggio di mutare e di trasformarsi come il suo corpo, violentato dall’incidente. La rinascita ed il rispetto per il dono della vita. Due elementi che fanno di questo testo semplice e diretto, giovane e spontaneo, un prezioso elemento”.

 

L’INDIGNAZIONE PER LE GUERRE INGIUSTE DI UN NON-PACIFISTA

 

Jürgen Todenhöfer, Chi piange per Abdul e Tanaya? L’errore della crociata contro il terrorismo, introduzione di Oscar Luigi Scalfaro

“Nostro tempo” n. 81– pp. 208 – euro 14,50

 

Manager di successo nella lista nera dei terroristi della RAF, l’ex deputato Todenhöfer scende nuovamente in campo quando, dopo l’attentato alle Torri gemelle, in Afghanistan cominciano a cadere bombe su esseri umani innocenti.

Dall’Hindukush afghano e da Baghdad, nel timore che il futuro dell’umanità rischi l’annientamento nel rogo delle guerre ingiuste, Todenhöfer sostiene durezza contro il terrorismo ma giustizia verso il mondo islamico.

Una requisitoria appassionata contro le guerre insensate che mette sul banco degli imputati l’America di Bush.

“Jürgen Todenhöfer è un cristiano e ci crede davvero.È giornalista, scrittore efficace. Vuole scrivere la verità. La verità di ciò che ha visto, ha voluto vedere, constatare, toccare con mano, non può, non sa tacerla. Vuole essere testimone, sente il dovere morale di doverne essere testimone, ad ogni costo. Nella sua forte e limpida verità, vi è un No forte e limpido alla guerra.Non è un no assoluto; non è un pacifista. Lo afferma con orgoglio come chi rifugge dall’esserlo, poiché non apprezza chi lo è”.

 

LA SERIE “BIBBIAPUZZLE”: “LIBRI” PER GIOCARE

 

Silvia Gastaldi e Claire Musatti, BibbiaPuzzle, a cura del Servizio Istruzione Educazione della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia

euro 4,50 Coedizione Claudiana–Elledici

 

Dopo il successo del dizionario biblico illustrato Navigare nella Bibbia, tradotto in 17 paesi, de Il popolo della Bibbia. Vita e costumi (vincitore del Children’s Book Award 2002 della Catholic Press Association di Stati Uniti e Canada) nonché di Una Bibbia tanti giochi, tutti tradotti in svariate lingue, Claudiana lancia una collana di libri per bambini di età compresa tra i 3 e i 5 anni: “BibbiaPuzzle”.

Libretti cartonati con illustrazioni a vivaci colori di Silvia Gastaldi e testi di Claire Musatti, i “BibbiaPuzzle” si caratterizzano per lo stretto intreccio tra gioco e lettura che permette di avvicinare molto presto i bambini alla Bibbia.

La grafica, le illustrazioni e la possibilità di comporre e ricostruire le diverse parti del volume ne fanno uno strumento particolarmente idoneo al gioco, ossia appunto la ricostruzione delle figure e delle storie presentate combinando in modo opportuno le pagine cartonate.

Più “difficile” di quanto si pensi anche per gli adulti: provare per credere!!

Calendario di gennaio

 

martedì 6 agape presso la Chiesa Apostolica (prenotarsi presso il past. Affuso)

martedì 13 Dopo Lavoro Teologico presso la Claudiana sul libro di F. Ferrario (capitolo su La Chiesa)

mercoledì 14 Consiglio dei pastori e dei responsabili a v. Manzoni con pranzo offerto dal Centro Sociale Evangelico (grazie!).

giovedì 15 in v. Manzoni 19 alle ore 18.30: Conferenza del Rav Joseph Levi su “La responsabilità di ognuno per la pace”

venerdì 16 presso il Centro “La Pira” in v. dei Pescioni Conferenza Dibattito su “Gesù visto dagli Islamici”.

sabato 17 in v. Manzoni per il Centro Culturale Protestante “P.M: Vermigli” 3° incontro sul tema del Male “Il male individuale: come sofferenza fisica e come violazione dei diritti” Relazioni di Daniele Scaglione (Roma, responsabile di Amnesty International) e Valdo Ricca, della Clinica Psichiatrica dell’Università di Firenze.

domenica 18 inizio della Settimana Ecumenica con culto alle 18 in Via Micheli. Altre iniziative importanti sono:

lunedì 19 proiezione del film “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano” con dibattito allo Stensen ;

mercoledì 21 alle 19 incontro dei giovani presso la Chiesa Americana con cena comune;

giovedì 22 culto ecumenico con messaggi presso la chiesa cattolica della “Sacra Famiglia” in v. Gioberti 33 alle 18;

sabato 24 infine la conclusione con una Veglia ecumenica di preghiere per la pace presso la Chiesa Battista, Borgo Ognissanti 6.

martedì 27 Corso per Predicatori Locali alle ore 21 in v. Manzoni 2° lez. di B. Rostagno: Come si articola un sermone.