Salmo 55

di Silvia Giacomoni

 

Tremo, sono nel pantano:
Dio, dammi la mano
dammi le ali di un cormorano
fammi volare lontano.
Qui non posso restare,

la città è invivibile:
imbrogli e discordia.
Non posso restare,
la città è insopportabile:
insulti e minacce.

E non ho contro un nemico,
ma un ex carissimo amico:
tradimento e disprezzo.
Io Ti prego e piango
per chiederti aiuto
contro questo che parla
parole bugiarde
con bocca di burro:
ma in cuore ha la guerra
e spade bastarde.

Io piango e Ti prego:
Tu fermali, bloccali,
Tu tagliali fuori.
Mi fido di Te.

 

(La Nuova Bibbia Salani, Milano 2004, p. 498)

Per l’anniversario della Riforma

Essi erano deboli e divennero forti…

Ebrei 11, passim

di Gabriele Lala*

 

Nel corso di quasi cinque secoli le Chiese evangeliche non hanno mai potuto cessare di riflettere sulla Riforma, di sottolineare il profondo legame che ad essa le unisce, e di sforzarsi di concepire se stesse appunto come chiese di quella Riforma. Questo ripensamento non è stato sempre pacifico, anzi talora ha urtato contro lo spirito dell’epoca ed ha prodotto crisi e contrasti, ma è avvenuto. E non v’è alcuno, nell’ambito del Protestantesimo, che abbia pensato di edificare la Chiesa prescindendo da Lutero e da Calvino.

Ciò avviene anche oggi, ma, proprio in occasione di questo anniversario, occorre porci un quesito essenziale: Quale contenuto, quale forza d’attrazione aveva la Riforma, tale da conferirle questa perenne validità?

Certo, pesa la durevole forza simbolica delle figure e degli eventi costituenti il momento di fondazione di una chiesa. Ma, in realtà, nella Riforma viene fondata di nuovo la chiesa nell’ambito della chiesa stessa. Ma cosa conferisce tale dignità di fondazione alla Riforma?

La risposta è tutt’altro che facile. Taluno cerca di dimostrare che la Riforma è stata resa memorabile a causa del suo contenuto culturale, politico, nazionale. Certo, tale contenuto esiste, ma da questo punto di vista la Riforma potrebbe apparire discutibile. Infatti, tedeschi e francesi sarebbero certo in difficoltà nel valorizzare rispettivamente Lutero e Calvino dal punto di vista della loro storia nazionale.

E così pure chi, seguendo la strada resa celebre da Thomas Carlyle, volesse esaltare la Riforma mettendo in evidenza le grandi personalità, eroiche e creative, delle sue figure di maggiore spicco. Perché è ben noto che i riformatori non furono specificatamente né poeti, né filosofi, né autocrati, ma furono di sicuro, a modo loro, grandi personalità, esseri di volontà e di azione di statura eccezionale. Ma questo essere grandi personalità non giustifica il fatto che essi rifondarono la Chiesa, e rappresentano tuttora un’istanza decisiva nella Chiesa.

Neppure si andrebbe lontano descrivendo l’epoca della Riforma come l’epoca dell’affermazione dell’interiorità e della religiosità. In realtà, nella Riforma, tutto fu ovunque molto esteriore, ed i riformatori del resto, hanno ragionato e discusso, fatto scelte politiche e realizzato comportamenti in misura assai maggiore di quanto non possano pensare gli appassionati della religione e della metafisica del cuore.

E neanche considerando, come sta lentamente accadendo in campo cattolico, specie con Lutero, i riformatori come esseri ricchi di pietà e di misticismo (quasi, diremmo, come autentici “santi” in senso cattolico), saremmo in grado di spiegare come essi siano divenuti i padri della nostra Chiesa Evangelica.

Più vicini al nocciolo della questione si è andati quando, nei secoli scorsi, si individuarono la grandezza ed i frutti dei Riformatori semplicemente nel fatto che essi hanno riaffermato delle verità cristiane, quasi del tutto dimenticate nella Chiesa, e che, in tal modo, essi hanno rifondata la Chiesa.

Quali sono queste verità? La sovranità della Parola di Dio; la maestà sovrana del Dio Creatore; Gesù Cristo quale riconciliatore dell’uomo peccatore; la forza della fede in questo Cristo; la libertà del cristiano nel mondo; l’esigenza che la vera chiesa sia debitamente umile e debitamente ardita.

In verità, se potessimo chiedere ai Riformatori quale significato essi abbiano attribuito al loro intento ed alla loro opera, essi ci risponderebbero, nella massima semplicità, che ciò che stava loro a cuore era il retto insegnamento di queste verità, e con ciò stesso la retta obbedienza, la retta via, la retta forma della Chiesa; ovvero, negativamente, la sua giusta liberazione dal papato, considerato come una forma di culto, di diritto, di morale ecclesiastica inconciliabile con quella retta dottrina.

Vi è quindi Chiesa Evangelica, nel senso datole dalla Riforma, là e soltanto là dove si tende al retto insegnamento delle verità cristiane; dove l’intera vita della chiesa è tesa a quest’unico compito.

Certo, queste verità non furono del tutto ignote al Medioevo cristiano; anche la Chiesa Cattolica odierna riconosce loro una certa validità. Ma i Riformatori le hanno insegnate in modo retto e puro, il che non è avvenuto nel Cattolicesimo.

Con queste verità, insomma, non si può fare come si vuole, non si può indifferentemente attribuire loro un significato qualsiasi, ponendole in un qualsiasi contesto. Altrimenti, non sono più quelle verità. Ecco ciò che, nell’epoca della Riforma, ha fondato la Chiesa; migliaia e migliaia di cristiani furono convinti di udire all’improvviso annunciare quelle verità nell’unico significato autentico e nell’unica forma corretta, e che, quindi, questo significato e questa forma s’imponevano in modo esclusivo. All’improvviso, come da molti secoli non era più avvenuto, queste verità riapparivano in tutta la loro forza, normativa e salvifica.

E ciò che ha conferito alla Riforma un’importanza così decisiva e determinante per ogni epoca della Chiesa evangelica è il ricordo dell’elemento straordinario che allora fu ascoltato nella predicazione della chiesa e che in quel momento impresse su quell’elemento il suggello della verità.

Il mistero di tale elemento straordinario fu allora ed è oggi il mistero della Riforma.

Si ha dunque il diritto di richiamarsi alla Riforma, di sentirsi intimamente uniti ad essa, quando, e soltanto quando, si conosce tale elemento straordinario. Anzi, non soltanto quando lo si conosce, ma quando esso continua a vivere nella predicazione, quando è tenuto in onore e reso fruttuoso, quando non è una fiaccola posta sotto il moggio, bensì una lampada sul candeliere, che fa luce a tutti quelli che sono in casa.

 

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Dopo la morte di Lutero e di Calvino molti dissero, senza esitazione, che essi erano stati profeti tra gli uomini, come Elia o come il Battista. Che ognuno di essi era stato un teologo la cui teologia gli era stata data a priori, cioè per rivelazione. Certo, ambedue i grandi riformatori, in vita, si erano duramente opposti a simili affermazioni, ma resta il fatto che potrebbe essere proprio questo l’elemento straordinario dell’insegnamento dei Riformatori: il fatto cioè che esso presenta punti di contatto ben precisi con l’insegnamento dei profeti e degli apostoli, non solo nel contenuto ma anche nella forma e nel significato.

Ma in che cosa è consistito il carattere profetico – apostolico della predicazione dei Riformatori?

La risposta può essere semplice: la parola ed il pensiero cristiani dei Riformatori furono, come quelli del profeta e degli apostoli, un pensiero ed una parola scaturiti da una decisione già presa, annuncio di tale decisione e delle responsabilità che ne scaturisce. Prendere una decisione significa aver fatto una scelta, significa, in sostanza, privarsi della propria libertà, legarsi ad una soluzione anziché ad un’altra.

I Riformatori furono fatti così, vincolati dalla loro decisione; avevano abbandonato la possibilità di alternative. Proprio per questo, il loro insegnamento ebbe una sola dimensione, un solo scopo, fu mosso da una sola passione. La decisione assunta e richiesta dai Riformatori altro non è che la decisione della fede cristiana. E’ una decisione che irrevocabilmente vincola chi l’accetta, perché colui che ha accettato la fede cristiana non ha più a disposizione un tempo in cui possa distogliersi dalla fede.

Del resto, Gesù dice: Voi non potete servire Dio e Mammona”. E noi non possiamo credere, e, rimanendo in questa fede, continuare ad essere liberi di non credere un’altra volta.

A tal punto, l’essere umano dichiara, con il profeta Geremia (20: 7): “Tu mi hai persuaso, o Eterno, e mi son lasciato persuadere; tu mi hai fatto forza ed hai vinto!”.

L’essere umano, afferrato da questa forza, è realmente convertito, ed il suo futuro è ormai orientato: solo la decisione per il Signore, nella fede cristiana, ha questo carattere assoluto. E tale carattere aveva la decisione dei Riformatori.

Certo, l’eredità della Riforma è pesante. E ci si può chiedere se tale eredità sia insopportabile perché esige una fede che, forse, non si è in grado di offrire, e non corrisponde al nostro interesse.

Chi vede le cose in tale luce, deve costruirsi una chiesa basata non, come per i Riformatori, su Gesù Cristo quale unico fondamento, bensì sul fondamento apparentemente più saldo, costituito dalla rivelazione e dalla ragione, da fede e scienza, dall’Evangelo e dagli interessi umani.

Ma, se vogliamo ancor oggi essere Chiesa della Riforma, se non ne vogliamo disperdere l’eredità, occorre che l’ispirazione che mosse la Riforma orienti ancor oggi la nostra vita ed il nostro comportamento nella società in cui viviamo.

Ricordiamo le parole di Lutero, tratte da una sua lettera del 1516: “Nella nostra epoca, la tentazione della presunzione arde nel cuore di molte persone, in particolare di quelle che cercano con tutte le loro forze di diventare buoni e giusti. Ignorando la giustizia di Dio, che ci è data abbondantemente e gratuitamente in Cristo, essi cercano di compiere da sé le buone opere, finché sono certi di comparire dinanzi a Dio adorni delle loro virtù e dei loro meriti. Ma questo è impossibile”.

Per il credente pentito cui sono stati rimessi i suoi peccati in Cristo, vale l’obbedienza della fede, le cui opere sono buone secondo il misericordioso giudizio di Dio. Alla luce della decisione assunta, altra bontà non può ricercare che non sia la bontà di Dio.

 

* predicatore locale di Livorno

RELAZIONE SINODO 2005

di Brunarosa Sabatini

 

 

INTRODUZIONE

 

Il sinodo di quest’anno, tenutosi dal 21 al 26 agosto 2005, è stato, a mio parere, un “sinodo piuttosto tecnico”. Con questo intendo dire che è stato occupato essenzialmente da discussioni di carattere economico amministrativo e, solo parzialmente, etico-religioso. Ciò d’altra parte ha favorito gli interventi di voci nuove, mentre sono stati più limitati quelli di personaggi storici.

Il momento più alto dal punto di vista dell’elaborazione teorica è stata la relazione della Commissione ad referendum sugli ospedali. Giorgio Tourn, il presidente, ha ripercorso la storia degli ospedali piemontesi, passando poi ad un discorso più generale sulla diaconia oggi, che si è concluso con una tesi di fondo molto stimolante ed attuale e che ha infatti suscitato un caldo dibattito : diaconia è diaconia e azienda è azienda.

Questa relazione ha colto il clima di fondo di questo sinodo e ne spiega il “carattere tecnico”.

 

PRINCIPALI ARGOMENTI TRATTATI

 

1) Vita delle chiese

Il primo giorno si è affrontato il problema della crisi della chiesa agitata da più parti al suo interno da incomprensioni e non sempre adeguatamente presente all’esterno.

Vari interventi hanno richiesto maggiore trasparenza nella gestione economica e più informazione a tutti i livelli. Si sono raccomandati a tal scopo il potenziamento e la cura dei siti esistenti, la razionalizzazione della stampa evangelica e dei commentari biblici e l’attenta valutazione e gestione degli interventi sulla stampa e le TV ecc. nazionali.

Si è poi parlato ampiamente della necessità di avere dei team di pastori ( o di pastori + laici), che gestiscano la cura pastorale di un territorio e non più di una singola città. E’ stata così approvata sotto forma di raccomandazione per i distretti la proposta di sperimentare sul campo- ove necessario e possibile- tale forma di cura pastorale.

 

2) Finanze

Il tema più dibattuto è stato quello della gestione dell’8 x mille. La quota a disposizione per il 2005 (che corrisponde alle contribuzioni del 2001) è di circa 5.250.000 euro, destinati per il 70% a progetti in Italia e per il restante 30% a quelli all’estero. Tale somma dovrebbe più che raddoppiare quando saranno disponibili anche le quote relative alle percentuali non espresse e allora i fondi saranno divisi a metà fra Italia ed estero.

Per quanto concerne la gestione 2005, le questioni più discusse sono state:

a) se fosse opportuno pensare a un rimborso spese per i pastori impegnati nella diaconia. A ciò per ora non sì è data una risposta definitiva, visto la delicatezza del tema, che mette in discussione un assunto irrinunciabile fino ad ora riguardo all’uso dell’8 x mille.

b) Se fosse possibile quest’anno dare un finanziamento straordinario agli ospedali di Genova e di Villa Betania a Napoli. Il sinodo si è espresso negativamente, non escludendo però interventi simili negli anni futuri.

 

3) CSD- Diaconia

Su questi temi il dibattito è stato molto animato ( anche grazie al contributo della chiesa di Firenze, bisogna dire). Il problema che è emerso, forse condiviso da più parti, è che le chiese si sentono distanti dalla CSD, che è vissuta spesso come un organismo lontano, troppo centralizzato e accentratore.

Il fatto è che ormai la CSD è una realtà con cui le chiese devono confrontarsi; sarebbe quindi opportuno, specialmente a Firenze, dove sta partendo il progetto della Diaconia valdese fiorentina, che le chiese si chiarissero sulle loro esigenze e aspettative.

 

4) Facoltà

E’ stato presentato il nuovo piano di studi della facoltà che, allineandosi al sistema nazionale, si articolerà su un percorso di tre anni (laurea breve per corso a distanza)e 3 + 2 (+ 1 all’estero?) per i pastori.

Si è discusso poi sulla formazione dei predicatori locali e sulla possibilità di creare percorsi formativi individualizzati che tengano presenti in partenza le competenze e conoscenze dei candidati e, in arrivo, le esigenze delle chiese.Ciò anche ai fini di regolarizzare i predicatori locali già attivi,ma privi di un riconoscimento ufficiale.

Da più interventi è stata infine sottolineata l’importanza della musica nella formazione pastorale; la richiesta è stata recepita dalla facoltà che organizzerà dei corsi intensivi ad hoc.

 

5) Ecclesiologia

A questo riguardo vorrei citare l’intervento del pastore Daniele Bouchard, che è stato illuminante per chiarire una realtà sempre più diffusa nelle nostre chiese, ovvero la presenza di extracomunitari. Egli ha ricordato che esistono due modi di essere chiesa di fronte allo straniero:

- essere chiesa insieme (ovvero l’interculturalità), un modo difficile che implica il cambiamento (coniugare ad es. la nostra liturgia più seria e teorica con lo stile più gioioso e ricco di musica, danza e canto di altre realtà)

- essere chiesa accanto (ovvero la multiculturalità), un modo più semplice senza veri scambi.

Anche questo potrebbe essere un argomento da trattare, insieme al resto del documento sull’ecclesiologia che è stato distribuito al sinodo e che ogni chiesa dovrà studiare..

 

6) Ecumenismo

Su questo tema il sinodo ha approvato due importanti documenti: il primo critica alcuni recenti atteggiamenti della gerarchia cattolica ( enfatizzazione del carattere ecumenico del papato, intervento nel dibattito referendario sulla legge 40, prassi delle indulgenze nella Giornata Mondiale della Gioventù) ; il secondo auspica invece che le difficoltà evidenziate non costituiscano un freno, ma anzi uno stimolo al dialogo e al confronto.

 

7) Globalizzazione

Il sinodo ha deciso di aderire alla Confessione di Accra sulla giustizia economica ed ecologica, il cui documento dovrà essere studiato in ogni chiesa.

 

8) La moderatura rosa

Concludo ricordando anch’io l’elezione a moderatora di Maria Bonafede. Tanto è stato detto e scritto su di lei: la prima donna a capo della chiesa valdese! Io vorrei però ricordare una frase che lei ha detto nel suo discorso di insediamento e che mi è molto piaciuta:- Mi avete eletto perchè sono Maria Bonafede. -

 

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La poesia e l'amore di Dio

di Alberto Caramella*

“Piansi al suo pianto. Poesie d’amore e no” è l’ultima fatica del poeta Paolo Fabbri. Si tratta di una silloge tessuta in temi vari e complessi come è stato notato dal prefatore Giorgio Luti e nella post-fazione di Giovanna Frene passa attraverso la personalità dell’autore e consiste in una nativa e sincera disposizione verso l’atto scrittorio che lo rende immediato e salvifico. Il modo di approccio ad un libro siffatto, dunque, deve essere esplicativo e deve fondarsi sulla impressione di un lettore attento per il tramite necessario della empatia tra chi legge e chi ha scritto. Mi si presenta prepotente un componimento parte in prosa e parte in poesia che prende le mosse da “il ricordo 1”. Questa commistione tra prosa e poesia, e viceversa tra poesia e prosa, mi è particolarmente congeniale perché fa parte del mio modo di vedere la scrittura utilizzando poeticamente la prosa e, con fruibilità la più chiara possibile, la poesia. Posso dunque affermare in empatia naturale che tala modalità espressiva è di grande importanza perché comporta il superamento degli steccati tra generi (romanzo, saggio, racconto da un lato e poesia lirica o etica dall’altro) per esprimere un contenuto continuamente vario e coerente. Modalità idonea ad avvicinare il lettore moderno alla comprensione di un testo che si riporta ad un intuito poetico originario ma riesce ad esprimerlo, nell’una e nell’altra veste secondo i casi, così come conviene alla penna, in guisa necessaria non voluta.

Il menzionato Ricordo Numero 1 (pag. 64) ci conduce a Ferrara meravigliosa città anche altrimenti testimoniata nel libro e immagina che sul cammino di un giovinotto magro malnutrito e di salute cagionevole da un carico di carte condotte al macero scappi un foglio doppio che la curiosità spinge a raccogliere. E’ un tema scolastico e sulla prima pagina è segnato in grande, con matita rossa, un bel dieci: segno di sicura felicità per il giovane i cui studi andavano non molto oltre le elementari. Titolo del tema, quanto mai accattivante, “Piansi al tuo pianto”. Lo svolgimento narra la partenza di un emigrante e finisce testualmente aggiungendo: “quel giovane era mio padre”. Dunque il giovanotto magro, il giovane che raccoglie, il passante occasionale erano insieme il padre dello scrittore e implicitamente lo scrittore stesso che vi si è immedesimato. La carica emotiva si sviluppa naturalmente nel canto propriamente poetico che è insieme lirico ed etico perché affonda nella memoria e nella storia. Siamo alla partenza di un emigrante. Non per mare come tanti che sono partiti da Genova. Ironia della sorte dalla stessa città dalla quale partì l’idea ed il progetto della scoperta dell’America che per il suo coraggio realizzò Cristoforo Colombo inaugurando senza saperlo l’età moderna. Il padre del poeta è in procinto di partire in treno dalla stazione di Ferrara e lo accompagnano i familiari: soprattutto la Madre. Il partente “pianse aperto il freno / abbracciando e baciando l’uno e l’altro / era gialla la stazione quel mattino / amore dolore confusi vicino”. Il padre allora emigrante si ripresenta sul finire di questo bel testo in prima persona “Un accorato calore mi pervase /allora compresi il vuoto dentro / lo sgomento la vita sola dura /compresi il dolore e l’amore / mi volsi e piansi / al suo pianto”: “la madre / pianse piano, poi a singulti forti / Era gialla la stazione quel mattino / amore, dolore ora fusi nel fumo/.

Siamo tutti partenti siamo tutti emigranti siamo sempre nella condizione di patire lo sgomento la vita sola e dura e tutti vogliosi di ritrovare il pianto di una madre. L’esperienza dell’uno riferita dal figlio si trasmette al padre e agli altri tutti e ne siamo coinvolti in comune poesia.

Desidero terminare questo per me così felice incontro leggendo la poesia

 

IO TU NOI

A Giancarlo Majorino

 

Quella stanza, folla, fumo                                 Quei chiarori oppressi
e tutto quel bla bla bla                                       per fare intimità
così molle, frigido                                             di algide movenze
come uno specchio inciso                                 accanto a voci stinte
che rifrange un io.                                            alitate con arte.

Toujours moi                                                    Toujours moi

Quelle risate buttate                                         Quell’urlo di dentro che mi
là di faccia in faccia                                         spinge fuori, su quel
come sfere ghiacciate                                       brillio di pietre lise
a gridare: sono qui!                                          storie smesse di passi
Sono io!                                                            segnanti, sognanti.

Toujours moi                                                   Quelque foi toi

Quelle caraffe colme di                                   La gente che scorre giù per
allegria mimata                                               le strade lasciato il
Quei bicchieri vuotati                                      lavoro, ruminando il
empiendo le budella                                        lavoro, pensando
e l’anima.                                                        la casa, gli amici…

Toujours moi.                                                 Quelque foi toi

Quei vestiti luccicanti                                    E’ l’ora in cui l’aria tende
attiranti, ma gli occhi                                   al grigio del tempo
spenti o lucenti di                                         sparso sopra ai palazzi.
un lucore malato, di                                     S’alzano i miti dalle
un sorriso mancato.                                     menti a giocare con le stelle

Toujours moi                                               Les autres en moi

 

In un bel sermone di Paolo Fabbri si trova la radice profonda della Sua Poesia e della Sua anima.

“L’amore per il prossimo non è un sentimento bensì uno stato dell’animo, lo stato dell’animo con cui il credente si rivolge a Dio aperto a ricevere il suo amore, pronto a far spazio a questo amore a farlo traboccare.”

“Per usare una metafora potremmo dire che dobbiamo respirare l’amore di Dio ed espirare l’amore per il prossimo. Il respiro ci è necessario per vivere, dobbiamo continuamente immettere aria nei nostri polmoni pena la morte e così dobbiamo, con la stessa continuità, esporci all’amore di Dio per esserne pervasi, intrisi, cambiati nel profondo. Quando noi cantiamo “Il mio Signore, fonte d’amore, per la sua grazia mi salvò” oppure “L’essere mio rigenera, o santo Redentore, e tutto in me santifica: spirito, mente e cuore”, ci rivolgiamo a Dio come prescrive il Gran Comandamento, in un atto che viene prima di qualsiasi altro.”

E conclude con l’Apostolo Paolo:

“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, se non ho amore non sono nulla; quando avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e avessi tutta la fede in modo da trasportare i monti, se non ho amore non sono nulla. E quando distribuissi tutte le mie facoltà per nutrire i poveri e quando dessi il mio corpo per essere arso, se non ho amore, ciò niente mi giova. Amen.

 

* Alberto Caramella, poeta e critico letterario. Intervento pronunciato alla Libreria Claudiana di Firenze in occasione della presentazione della raccolta di poesie di Paolo Fabbri, Piansi al suo pianto, Edizioni Polistampa 2005, € 8,00.

 

 

immagine novembre 2005

Chi ha paura del relativismo

di Mario Pireddu


Chi ha paura del relativismo ha paura della libertà e del confronto: Benedetto XVI. Quando il paternalismo può diventare disprezzo, e la verità della fede rivelata chiusura al dialogo e al cambiamento


“Pius andamus e pius iscoberimus, e miramus cosas non miradas mai” (proverbio sardo)



L¹omelia pronunciata da Ratzinger poco prima di cambiare nome in Benedetto XVI ha avuto l¹indubbio merito di chiarire la natura del rapporto attuale tra Chiesa Cattolica e secolarizzazione. Se questo Papa è stato eletto così rapidamente, è perché evidentemente tra i cardinali non ci sono enormi divergenze, al di là di qualche contrasto su singole questioni, per cui l¹ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede sembra incarnare pienamente ­ al di là di ogni formalità ­ la volontà delle gerarchie vaticane. E attraverso le sue parole la Chiesa indica il vero nemico dell¹umanità: il relativismo.


Non è una novità, lo aveva già fatto e lo farà in futuro. Quel che non convince e appare anzi quasi una contraddizione è però la motivazione di questa vigorosa condanna. Ha detto Ratzinger: ³Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie?. Il termine dittatura è connotato dal teologo in senso estremamente negativo. Per “dittatura” si intende comunemente un regime politico, ma anche ­ ed è questo il caso ­ un regime culturale. Per il dizionario De Mauro, il termine “dittatura” in senso politico fa riferimento a una forma di governo autoritario, caratterizzata dalla concentrazione del potere nelle sole mani di un solo uomo (o di un gruppo ristretto di persone), descrizione che a esser franchi ricorda più l¹organizzazione istituzionale degli stati teocratici piuttosto che quella delle democrazie occidentali. Inteso in senso culturale, il termine indica invece “forte influenza, dominio eccessivo e incontrastato in un qualsiasi settore della vita sociale o del pensiero umano”. Ma si può davvero definire “dittatura” un sistema culturale che di fatto prevede al suo interno ­ e soprattutto rispetta ­ la compresenza di diverse opinioni, diversi modi di vivere, diverse forme di credo? Il relativismo non è tanto una corrente di pensiero o una filosofia articolata, quanto un principio ispiratore. Più che la filosofia o la teologia, sono state le tragiche esperienze coloniali e l¹abbandono dell’imperialismo, insieme alla sociologia e all’antropologia, ad insegnarci il rispetto dell’Altro.

L¹antropologo americano Herskovits sosteneva che le manifestazioni culturali variano a seconda dello specifico ambito culturale in cui nascono, e che trovano in esso la loro giustificazione. Ciò significa che Cook commise uno sbaglio a ritenere “in errore” i Maohi di Tahiti perché non conoscevano Cristo. Lo stesso dicasi per Cortès e Pizarro. Come avrebbero potuto conoscere il messaggio cristiano gli abitanti del Nuovo Continente?

Storicamente, la presunta superiorità o “veridicità” del monoteismo rispetto ai culti pagani si è affermata sempre più, ed è oggi condivisa persino da chi non crede, quasi che nell’adorazione di un unico Dio ci sia un elemento di “verità” maggiore. Ai giorni nostri il messaggio di Cristo è arrivato in tutto il mondo, ma c’è ancora chi non vuole crederci. La reazione davanti all’altro non è per fortuna quella dei conquistadores spagnoli, giacché la violenza si è trasformata in paternalismo (anche se un certo fondamentalismo islamico ripropone in chiave diversa lo stesso problema), e il tentativo di controllo istituzionale segue percorsi più intricati.

Cinque secoli sono passati dalla scoperta delle Americhe, quattro dal rogo di Giordano Bruno, un secolo e mezzo dalla guerra tra l’esercito italiano e l’esercito di Pio IX, e tanto è cambiato da allora. Oggi in Europa si può essere musulmani, buddisti, induisti, persino atei e agnostici senza paura di finire bruciati in piazza. A chi si devono queste conquiste, è scritto nei libri di storia. Eppure ancora si denigra l’Illuminismo sino a definirlo “ideologia del male” al pari di nazismo e comunismo, come ha fatto Giovanni Paolo II in “Memoria e identità”, e ancora si lavora per l’imposizione di leggi che limitino la libertà personale dei cittadini. Ratzinger nella sua omelia ha condannato in un sol colpo marxismo e liberalismo, libertinismo e collettivismo, individualismo radicale e sincretismo, agnosticismo e ateismo, vaghi misticismi religiosi, “e così via”. È quell’ultima parte, quel “e così via” che rende il senso del disprezzo e del paternalismo verso chi non abbraccia la fede cattolica perché segue altri principi di vita.

Tutte “mode del pensiero”, tutti “fanciulli sballottati dalle onde”?. Peccato che alcune di quelle onde durino senza problemi da più di trecento anni, e alcune ­ come il materialismo e l’ateismo ­ da millenni. Ci sono “inganni” e “astuzie” precedenti l’anno zero, e “inganni e astuzie” più recenti. Ma se ogni altra idea, ogni altro pensiero che si discosti dal cattolicesimo viene chiamato “inganno”, come si può parlare di dialogo? Se il dialogo è, sempre per il De Mauro, “scambio di pensieri, idee, opinioni allo scopo di trovare un’intesa”, e dunque prevede che le parti in causa possano riconoscere degli elementi di verità nel pensiero altrui, sino a cambiare in parte il proprio, come si può sperare che ci possa essere vero dialogo con questa Chiesa? Mentre afferma che il dialogo è importante, Ratzinger ne ribadisce l’impossibilità.

L’altro ha comunque torto, giacché la Verità è solo da una parte. Stupisce che anche il filosofo tedesco Habermas, autodefinitosi “ateo metodico”, abbia scritto di recente che fu il minaccioso “non avrai altro Dio all’infuori di me” a regalare all’uomo “la libertà della riflessione”. La vera libertà non è piuttosto accettare l’esistenza di un Dio per convinzione e non per imposizione, di credere anche in altre divinità, o di rifiutare il concetto stesso di divinità? La compresenza e l’esistenza di tutte queste posizioni è vera libertà. Il ripudio definitivo dell’universalismo caratterizzante le pretese di verità incondizionate sarebbe per il filosofo “un piatto antiplatonismo diffuso da mode ispirate al tardo Heidegger e al tardo Wittgenstein, nel senso di un ripudio definitivo dell’universalismo”, una “tendenza regressiva del pensiero postmetafisico” contro la quale occorre ribellarsi. In questo modo, Habermas si schiera anche contro il ragionamento scientifico, che invece deve accettare il carattere provvisorio delle sue verità, che non sono mai assolute né incondizionate.

Nell¹ottobre del 2004, Ratzinger citò proprio le posizioni di Habermas (anche lui parla di “mode”) per dar forza al proprio discorso da prefetto di quel che una volta era il Sant’Uffizio. Ma se il banale accenno alle “mode” del pensiero può essere inteso come una superficiale lettura del mutamento sociale ­ tanto più spiacevole perché proveniente da uomini colti e dotti ­ pare allora che il centro della questione sia la paura del cambiamento.

Il mondo cambia, le società mutano, i bisogni e i desideri delle persone sono diversi, e la risposta alla paura del cambiamento è ancora una volta la chiusura in un mondo puramente dottrinale, una sorta di borgo medievale dalle mura altissime e sicure, impenetrabili. Giulio Giorello ha scritto sul Corriere della Sera che l¹esercizio dello spirito critico e la costruzione di un sapere fallibile e rivedibile vengono spacciati sovente come “assenza di responsabilità e cedimento a qualsiasi protervia”. È vero il contrario, scrive: “ciò che spirito critico e società aperta consentono è che qualunque punto di vista abbia i propri difensori pubblici; quello che esigono è che la difesa non si limiti a imposizioni o scomuniche, bensì porti delle ragioni. Questo è «relativismo»?”. Giorello chiude il suo ragionamento affermando che “non c¹è qui traccia alcuna di dittatura, perché il nucleo della tradizione liberale è la consapevolezza che fare tacere anche uno solo è un danno, ancor prima che per lui, per il resto della comunità?. Sembra di rileggere Voltaire, celebre “ideologo del male”. Il relativismo è ciò che consente a chiunque di essere libero ­ e rispettato ­ senza che questo limiti la libertà altrui (anche agli omosessuali di sposarsi, come in Spagna). Non è affatto “moda” o “immobilismo”, come sostengono alcuni.
Si può essere relativisti e battersi contro l’infibulazione. Al di là di
ogni pregiudizio filosofico, relativismo è sinonimo di libertà. Non possiamo essere contro la libertà degli agnostici e degli atei così come dei credenti. Non possiamo non dirci relativisti.

Tratto da: http://www.aprileonline.info/articolo.”Laicità e religione” per gentile segnalazione di Loretta Montemaggi


Prossimi appuntamenti

 

Sabato 5 novembre 2005, alla Libreria Claudiana, Borgo Ognissanti 14R, ore 17:00, il Centro Culturale Protestante "P.M.Vermigli" insieme all'Istituto Gramsci e al Circolo Fratelli Rosselli invitano alla conferenza-dibattito sul tema:

Laicità e Laicismo nel dibattito culturale contemporaneo.

Relazione del filosofo Sergio Moravia.

Conclude l'on.Valdo Spini. (info: 055.28.28.96)

 

 

Sabato 26 novembre 2005 – Libreria Claudiana, Borgo Ognissanti 14/R -ore 17:00 il Centro Culturale Protestante “P.M.Vermigli” invita alla tavola rotonda

Claudiana 1855-2005: 150 anni di presenza evangelica nella cultura italiana.

Interventi di Laura Novati, Alfredo Jacopozzi, Michele Ranchetti, Carlo Papini.

Modera Christian Holtz. (tel.055.28.28.96)

 

Incontri di Cantagallo

Presso casa Magni-Ballotti, Via Cantagallo 118 M

Prato—Tel. 0574 467697—ore 21

Venerdì 18 novembre: Solitudine, ovvero “Tra la eccezionale originalità di se stesso e le sue assurdità” (prof. Marco Ricca)

Venerdì 16 dicembre: Il Dono, ovvero “Il segno di sé nell’altro” (past. Mario Affuso)

Venerdì 13 gennaio: Il Male, ovvero “I contorni più temibili di noi stessi” (prof. Giacomo Grassi)

Venerdì 17 febbraio: Etica, ovvero “Io e l’altro, io per l’altro” (Dr. Angelo Pellegrini)

Venerdì 17 marzo: La pena di morte, ovvero “Chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte più di lui” (Gen. 4,15) “Nessuno uccida Caino” (Dr. Giulio Conticelli)

Venerdì 21 aprile: La Coscienza, ovvero “Tra scavo e nuova creazione” (prof. Gennazzani)

Venerdì 19 maggio: Bellezza, ovvero “La lettura migliore delle cose e di sé” (past. Mario Affuso)

Venerdì 16 giugno: Amicizia, ovvero “Nessuna distanza tra gli umani e tra i viventi” (prof. Manuela Sadun Paggi)

immagine novembre 2005

 

Il naso fra i libri

di Sara Pasqui Rivedi

 

Pianeta Donna

 

Introduzione

 

La Svizzera nell’immaginario collettivo è il paese della cioccolata, degli orologi e delle banche, raramente l’attenzione si volge alla cultura elvetica ed in modo specifico alla letteratura, invece questa piccola civilissima nazione vanta una tradizione letteraria di grande rilevanza anche se poco conosciuta. Infatti fra gli scrittori dell’800 possiamo citare Meyer Ferdinand Conrad, il pastore protestante Jeremias Gotthelf, Gotfried Keller che sono ritenuti i più significativi ed importanti autori di quel periodo. Mentre fra gli scrittori del 900 si distinguono Robert Walser , Max Frisch e Friedrich Dürrenmat, tutti e tre molto noti e molto apprezzati dalla critica mondiale. Ma nel firmamento letterario svizzero contemporaneo brilla di fulgida luce una nutrita schiera di scrittrici dalla quale ne emergono tre di cui vorrei tracciare i profili: Jeanne Hersch, Alice Ceresa e Agota Kristof.

 

Jeanne Hersch (1910 – 2000)

 

Nasce a Ginevra da una famiglia di intellettuali ebrei (madre polacca, padre lituano). Nel 1931 viene pubblicata la sua tesi di laurea su Le immagini nell’opera di Bergson, il filosofo già anziano e malato, dopo averla letta, esprime il desiderio di conoscere l’Autrice, da questo incontro scaturisce uno dei grandi temi del pensiero di J.H., il problema del tempo. Negli anni ’30, insieme ad Anna Arendt, studia ad Heidelberg sotto la guida di Karl Jaspers che si può considerare il suo vero maestro. Nel 1933 si reca a Friburgo per seguire i corsi di Heiddeger malgrado siano già proibite agli ebrei le iscrizioni presso le università tedesche. La studiosa, mentre in Heiddeger avverte la volontà di imporre le proprie idee, del pensiero di Jaspers coglie il grande respiro di libertà e sarà proprio la libertà il secondo grande tema del suo pensiero. Dal 1956 al 1977 insegna all’Università di Ginevra. Dedicherà tutta la sua vita ad elaborare una filosofia dei diritti dell’uomo. Nel 1966 il direttore generale dell’Unesco, René Maheu, le chiede di creare in seno a questa organizzazione una divisione di filosofia e J.H. si impegna per dar vita ad un’azione intellettuale e spirituale che educhi alla libertà realizzando il libro Il diritto di essere un uomo. Si tratta di una raccolta di testi che vogliono dimostrare come il concetto di diritti dell’uomo risponda ad un bisogno espresso e sentito in tutte le culture ed in tutte le epoche. J.H. muore nel giugno del 2000, proprio nell’anno in cui l’Università di Ginevra si apprestava a festeggiare i suoi novanta anni.

Autrice di numerose ed importanti opere filosofiche ci ha lasciato un solo romanzo che compose all’età di 32 anni, Temps alternés, in italiano tradotto non appropriatamente Primo amore. Composto nel 1942 racconta la storia dell’educazione sentimentale di una giovane donna. Scritto in una lingua perfetta e con una prosa unica nel suo genere è composto da numerosi capitoli in forma epistolare. L’argomento trattato con levità ed al tempo stesso con forza coinvolgente è l’amore casto e riservato di un’adolescente per un uomo maturo. In Italia solo recentemente sono state pubblicate due opere di J.H. La nascita di Eva. Saggi e racconti. da Interlinea (Novara, 2000) e Primo amore da Baldini Castaldi Dalai Editore (2005).

 

Alice Ceresa

 

Nasce a Basilea nel 1923 da genitori ticinesi, muore a Roma nel 2001 ed è sepolta nel cimitero acattolico alla Piramide Cestia. All’età di venti anni vince il premio Schiller con il racconto Gli altri scritto in italiano. Svolge per cinque anni attività giornalistica in Svizzera, nel 1950 si trasferisce a Roma dove collabora alla rivista Tempo presente di Ignazio Silone e con la Casa editrice Longanesi. È apprezzata dagli scrittori italiani Manganelli, Calvino, Natalia Ginzburg. Nel 1967 vince il premio Viareggio Opera Prima con La figlia prodiga, a ventitre anni di distanza dà alle stampe un secondo libro Bambine.

A.C. ha scritto molto e pubblicato pochissimo, oltre ai due romanzi precedentemente menzionati il breve racconto La morte del padre del 1979. Tutte le sue carte ed i manoscritti sono oggi conservati presso l’Archivio Svizzero di Letteratura a Berna. Secondo alcuni critici A.C. è da considerarsi la più grande e la più sconosciuta scrittrice del secondo dopoguerra, altri sostengono che è “scrittrice per scrittori”, in verità è stata scrittrice per se stessa, come sostiene Giovanni Pacchiano, considerando la ritrosia ed il rifiuto sempre manifestati di pubblicare i suoi lavori. La sua scrittura è originale, priva di qualsiasi elemento tradizionale come la descrizione dell’ambiente e del paesaggio. I protagonisti non hanno un nome e neppure una collocazione sociale specifica, si parla genericamente di figlie, madri, padri. Nei due brevi romanzi e nel racconto A.C. analizza i legami familiari rivelando il suo inesausto interesse per la condizione femminile e la convinzione ossessiva che l’istituzione familiare sia un elemento di coercizione. Questo atteggiamento così negativo senza dubbio ha radici lontane e profonde poiché il suo appassionato desiderio di scrivere, palesatosi già nei primi anni dell’adolescenza, fu fortemente ostacolato dal padre il quale, da bravo piccolo borghese, desiderava per la figlia un diploma ed un impiego stabile e sicuro.

La figlia prodiga doveva essere il primo volume di un trittico mai realizzato. In questo romanzo A.C. delinea e tratteggia la figura di una figlia chiamata prodiga perché “ingrata alla propria famiglia”. La sua forma di prodigalità consiste nella libertà di coscienza e di scelta di vita, dunque nessuna analogia con la parabola evangelica del Figlio prodigo. Bambine invece è il piccolo romanzo con cui la scrittrice dissacra la perfettibilità familiare. Con uno stile graffiante e al tempo stesso greve di humor amaro e sovente feroce descrive la vita di due sorelline soffocate dalle attenzioni eccessive dei genitori, l’unica via di salvezza e di riscatto per ambedue sarà la fuga. Accanto ai due romanzi si colloca il racconto La morte del padre in cui un funerale diventa il pretesto per radiografare cioè studiare in modo analitico i sentimenti dei vari membri di una famiglia di fronte alla morte del padre. Il linguaggio di A.C. è sempre sferzante, sarcastico, carico di una ironia amara ed evidenzia il suo netto rifiuto per ogni tipo di convenzione. Il fine che si propone è il raggiungimento della emancipazione e libertà della donna intesa come soggetto debole. Il pensiero della scrittrice anticipa una serie di studi sulla condizione femminile e sull’insieme delle norme regolatrici della famiglia quale istituzione sociale.

 

Agota Kristof

 

A.K. è nata in Ungheria nel 1935, durante l’insurrezione nazionale del 1956 e la conseguente occupazione sovietica fugge con il giovane marito e la figlioletta di appena quattro mesi, varca il confine tra Ungheria ed Austria, in seguito trova rifugio in Svizzera. Oggi è cittadina elvetica, vive nel Canton Neuchâtel, ha tre figli di cui due maschi nati dal secondo matrimonio con uno svizzero. È molto nota in Svizzera Romanda, sua terra di adozione, ed in Francia ed è ritenuta una delle scrittrici più significative ed intense degli ultimi tempi. Ha cominciato a scrivere all’età di 13 anni e quando fuggì dal proprio paese si portò appresso una serie di libri a lei particolarmente cari ed una raccolta di appunti. Mentre lavorava in un’officina di orologi continuava a scrivere malgrado gli orari massacranti e la famiglia cui accudire. Oggi vive della sua professione di scrittrice. Fra i suoi libri più noti ed apprezzati Il grande quaderno, La prova, la terza menzogna che Einaudi ha pubblicato con il titolo La trilogia di K . La trilogia ormai fa parte dei classici in lingua francese ed è stata tradotta in ben trentatrè lingue. La grandezza di A.K. si rivela in tutte le sue opere, siano romanzi o pièces teatrali, leggendo L’analfabeta, racconto autobiografico edito in Italia da Casagrande, se ne ha la conferma, la certezza poiché con 50 brevi, concise paginette riesce a raccontare la propria vita, gli avvenimenti tragici che l’hanno segnata fin dall’infanzia, le esperienze vissute e sofferte intensamente come l’abbandono, la solitudine, la tristezza, la rinuncia. Il libro è costituito da 11 capitoli che corrispondono ad altrettanti episodi della sua esistenza come l’infanzia felice accanto al padre ed alla madre, la scoperta meravigliosa di inventare storie e scriverle, l’angoscioso distacco dai fratelli e dalla madre, la monotona e grigia vita di collegio, infine la fuga e l’abbandono della patria e degli affetti, l’arrivo a Losanna e la sofferenza per lo sradicamento e la rinuncia della lingua madre. Nel libro definisce la Svizzera “il deserto” perché dal momento in cui ha toccato il suolo elvetico ed è iniziata l’assimilazione ha perduto la propria identità, l’appartenenza ad un popolo e soprattutto la lingua. Per questo la scrittura è diventata la sua ragione di essere, l’unico mezzo per sentirsi persona, ma è costretta a scrivere in francese, la lingua “nemica” ed è a causa di ciò che si autodefinisce “analfabeta”. Lo stile di scrittura di A.K. è asciutto, secco, essenziale, segnato da un umorismo amaro, nero e le sue opere non hanno mai un lieto fine né lasciano spazio a brevi momenti di serena distensione.

Leggendo i libri di questa scrittrice ormai così famosa da essere considerata di culto, si ha sovente la sensazione di ricevere una frustata in pieno viso o di essere colpiti all’improvviso da un pugno, ma non per l’eccessiva spietata durezza di espressioni, bensì per la sincerità senza veli ed ipocrisie con cui narra eventi, fatti, situazioni, stati d’animo. Il suo crudo realismo può turbare e risultare anche sgradevole ad una lettura frettolosa e superficiale, occorre soffermarsi ed esaminare attentamente i protagonisti ed i momenti storici in cui essi si muovono ed agiscono per poter accettare ed apprezzare un linguaggio così diretto ed immediato da essere spesso sconvolgente.

 

Dalla Libreria Claudiana di Firenze, le segnalazioni del mese:

 

Andrea Moneti, 1527. I Lanzichenecchi a Roma. Stampa Alternativa, Roma 2005, pp.297, €12,00

 

ROMANZO

6 maggio 1527: una frattura nella storia. L'esercito di Carlo V, trentamila uomini, mette a sacco Roma e la tiene per più di 9 mesi. Fra loro anche 12.000 mercenari lanzichenecchi. Il papa è tenuto prigioniero a Castel S.Angelo. Nella città devastata, tra la peste e la fame, la vita di ognuno è appesa ad un filo.

Nel romanzo di Moneti si intrecciano le vicende di Heinrich, luterano, capitano lanzichenecco, e di messer Stefano, medico alla corte del cardinale Della Valle. Due protagonisti, due mondi inconciliabili:la Riforma e Roma. Intorno a loro una serie di delitti e un'eresia che viene dal Nord. La più pericolosa, perché sa parlare al cuore degli uomini.

 

 

 

Jurgen Moltmann ed Elisabeth Moltmann-Wendel, Passione per Dio. Teologia a due voci, Claudiana, Roma 2005, pp.93, € 9,50

 

SAGGISTICA TEOLOGICA

Il libro raccoglie diversi interventi dei coniugi Wendel-Moltmann, due voci importanti della teologia protestante europea contemporanea. Elisabeth ci accompagna nei sentieri usuali della sua riflessione su Dio attraverso l'esplorazione dell'idea di corporeità (Vivere Dio fisicamente) e di amicizia (Amicizia: la categoria dimenticata per la fede della comunità cristiana). Ricordiamo a questo proposito un'altro titolo della Wendel-Moltmann: Destati amica mia, il ritorno dell'amicizia di Dio.

Jurgen Moltmann ritorna sulla sua opera più nota, Il Dio crocifisso, a più di 30 anni dalla sua prima edizione, collocando i suoi temi fondamentali (Dio è sensibile o insensibile? Per chi è morto Cristo?) nel quadro di una teologia della speranza in un tempo segnato da drammatiche tensioni.

Un libro che raccoglie due teologie della pace e della vita in un dialogo serrato e fruttuoso.

 

Il padre nostro a puntate

di Elsa Woods

 

Dacci oggi il nostro pane

 

Finalmente veniamo a noi! Tutta quella roba del Padre in cielo, la sua volontà, il suo regno, il suo nome, onestamente tante volte non la sento così forte come uno stomaco vuoto, un corpo stanco o freddo o qualsiasi desiderio di benessere materiale o psicologico mio. E così Gesù mi deve ancora una volta insegnare una inversione di pensiero: non prima io e poi Dio, ma prima Dio e poi io. Ma poi non pretende nemmeno una spiritualità a sé stante da noi: quando arriva alle richieste “per noi” comincia con il pane, ed il perdono e la libertà dal male vengono dopo.

Il pane… il pane è nostro non mio. In questa epoca di globalizzazione abbiamo il fenomeno che il pane potrebbe essere ridistribuito facilmente per tutto il globo, diventa sempre più pane mio per l’Occidente e sempre meno pane nostro per il globo. Anch’io mi trovo a una tavola bene apparecchiata con il Terzo Mondo sotto il tavolo a raccattare le briciole. Anche io non ho mai conosciuto la vera fame.

Sì, Dio è il datore del nostro pane, ma anche Satana ne sa qualcosa del pane, e non poco! Basta vedere un mondo con 800 milioni di affamati. Per me sono cifre già astronomiche che mi dicono meno delle percentuali. Li conosciamo tutti: quei 20-25% dei ricchi a tavola, che siamo noi, che divorano circa l’80% delle risorse della terra. Non è per caso che il primo approccio di Satana a Gesù si svolge intorno al pane. Con Gesù Satana ha avuto difficoltà, ma con noi molto meno, perché anche in questione di pane siamo come pecore. Sapete cosa succede quando si lascia un gregge di pecore per un giorno in un bel campo di erba medica? La sera è una strage: tutte letteralmente scoppiate. Le pecore non conoscono misura, come alcuni altri animali, fra i quali l’uomo. E così anch’io mi trovo a far parte di quel mondo che vive in abbondanza vergognosa e mi chiedo: Ma cosa prego quando prego per il mio pane?

Forse ci sono quattro cose che devo ricordarmi quando prego per il pane:

1. che sono quotidianamente dipendente dal mio datore di pane. Ricordati la manna, Elsa! Quotidianamente in Prov. 30,9 viene detto così bene: “Non darmi né povertà, né ricchezza, cibami del pane che mi è necessario, perché io, una volta sazio, non ti rinneghi e dica “Chi è il Signore” oppure, diventato povero, non rubi e profani il nome del mio Dio”.

2. Devo ricordarmi che sono responsabile verso di lui come amministratrice del pane che Dio mi da in abbondanza per darlo agli altri. Lo sappiamo bene: la moltiplicazione succede quando c’è condivisione. Devo rendere conto a lui quotidianamente di cosa mangio, di cosa e come do agli altri.

3. Devo ricordarmi che devo chiedere saggezza per riconoscere quello che è pane per me, cioè l’essenziale, quel cibo buono per la salute del corpo e dell’anima, e quello che è in sovrabbondanza o imitazione del pane, cioè cibo artefatto, dannoso e di troppo per il corpo e l’anima. Anche il gruppetto di credenti con cui cerco di vivere la mia fede è un po’ sbilanciato riguardo al pane. Siamo bravi a organizzare àgapi con cibo eccellente, e questo è bellissimo, ma siamo meno bravi a organizzare dei digiuni o una diaconia funzionante.

4. Devo ricordarmi di chiedere la forza per sapere applicare la misura. Non devo essere una pecora che mangia e mangia senza pensare, per poi scoppiare. In Olanda dove sono abbastanza espressivi per certe cose, hanno dichiarato l’obesità il nemico- numero- uno del popolo. E’ specialmente in questa epoca che abbiamo a che fare non solo con l’obesità, ma anche con altre malattie connesse col cibo, come anoressia e bulimia.

 

Vorrei riassumere tutto con una preghiera, che forse anche voi avete letto diverse volte:

“O Dio, dai pane a quelli che hanno fame, e a noi che abbiamo il pane dai fame di giustizia!”.

 

 

Consulta delle religioni

 

(In Toscana sta per nascere una Consulta Regionale delle Religioni; lunedì 24 ottobre c’è stato un primo incontro; ecco il documento iniziale e la bozza di regolamento)

 

Il senso della consulta.

In questi anni anche la società toscana è stata attraversata da tensioni religiose non piccole. La crescita significativa della comunità musulmana e di altre confessioni religiose ha posto a ciascuno non solo un dovere di accoglienza ma anche ha domandato una nuova riflessione in ordine al riconoscimento concreto della libertà religiosa di ogni cittadino presente in Toscana. Abbiamo assistito ad episodi di antisemitismo, che consideriamo estremamente pericolosi e che evocano culture mai definitivamente sconfitte, legate al razzismo e che negano l’ebraismo e la sua storia.

Noi oggi nella nostra regione abbiamo il compito e l’impegno della realizzazione della piena liberta’ religiosa per tutti nei luoghi di pena, negli ospedali, nel territorio.

E’ cresciuto un clima di dialogo profondo della società toscana e delle sue istituzioni con le chiese cristiane, in particolare con la chiesa cattolica, per le sue dimensioni, per il suo radicamento nel territorio, per la sua storia e per i contenuti del messaggio evangelico, incarnato in figure significative della nostra regione, che sono diventate punti di riferimento del nostro paese. La Regione Toscana crede in modo convinto al dialogo, non solo come strumento di confronto con le istituzioni religiose, ma come occasione di crescita civile e morale di tutta la società toscana. Le religioni nella loro diversità, ma anche nella loro passione comune per la persona, esprimono una ricchezza di cui tutti, credenti e non credenti, hanno bisogno. E’ nel dialogo che cresce l’identità di ciascuno, e nel dialogo l’identità di ciascuno contribuisce alla fecondità della vita comune. La consulta per il dialogo interreligioso e per la pace tra le culture vuole essere uno strumento agile per far crescere e dare voce al contributo di ogni chiesa e confessione religiosa al comune sentire e vivere dei cittadini toscani, senza imposizioni, senza catture, senza privilegi, nel pieno rispetto da parte di tutti dei principi e dei valori della nostra costituzione e delle nostre leggi.

In questo modo sarà possibile lavorare insieme contro l’intolleranza, contro il razzismo, contro ogni tentativo di fondamentalismo e di arroganza religiosa, contro il tentativo di usare la religione per giustificare la violenza, contro ogni azione che neghi il primario diritto alla libertà religiosa di ciascuno.

Compito della consulta sarà quello di consigliare, nel pieno rispetto della autonomia di ciascuno l’istituzione pubblica ad una politica, che favorisca l’incontro e la pace delle culture piuttosto che lo scontro e l’inimicizia. Non solo si lavorera’ ad una conoscenza attenta e rigorosa di ciascuna tradizione religiosa, ma si creeranno occasioni per un lavoro comune dei credenti ai grandi temi che toccano il vivere civile del nostro territorio ( i temi dei diritti, la nonviolenza, la pace e la giustizia, la vita e i viventi, il perdono e la riconciliazione etc)

Allora la consulta sarà la sede di un dialogo sui valori, che è una delle ricchezze culturali della nostra regione, non avendo paura delle diversità, ma essendo capaci di costruire insieme fecondi punti di incontro.

Sara’ al tempo stesso uno strumento assolutamente utile anche per il ruolo internazionale della Toscana, che opera con grande impegno nel medio oriente, là dove nascono dal ceppo di Abramo le tre grandi religioni monoteiste.

Come è esplicitamente detto nella bozza costitutiva della consulta, ciascuna chiesa e confessione religiosa indicherà i suoi rappresentanti in modo libero, attraverso le proprie strutture di rappresentanza e di governo.

Consulta per il dialogo interreligioso e per la pace tra le culture

Bozza di regolamento

1) La Regione Toscana promuove la consulta per il dialogo interreligioso e per la pace tra le culture.

2) Della consulta fanno parte il Presidente della Regione Toscana o un suo delegato, i presidenti delle province o loro delegati, cinque rappresentanti delle comunità ebraiche, dieci rappresentanti delle comunità cristiane (cinque delle chiesa cattolica e cinque delle altre chiese cristiane), cinque rappresentanti delle comunità musulmane, quattro rappresentanti delle altre confessioni religiose.

3) La Consulta è presieduta dal Presidente della Regione Toscana o da un suo delegato.

4) Ciascuna chiesa o confessione religiosa indicherà i suoi rappresentanti, su designazione dei suoi organi di governo o di rappresentanza

5) La Consulta, convocata dal Presidente o da un suo delegato, si riunisce non meno di tre volte l’anno.

6) La metà più uno dei membri della consulta può chiederne al presidente la convocazione in via straordinaria.

7) Gli scopi della consulta sono:

    a) contribuire alla conoscenza delle singole tradizioni religiose e del loro contributo alla pace e al rispetto dei diritti umani.

    b) favorire il dialogo tra le comunità religiose e la società civile.

    c) promuovere il pieno rispetto della libertà religiosa per tutti i cittadini, che vivono nel territorio toscano.

    d) superare pregiudizi e incomprensioni, che generano intolleranza, razzismo e non rispetto dell’altro.

    e) promuovere la pace nei luoghi di conflitto e la pace tra le culture

 

 

Note a margine

di Gianna Sciclone

Il dibattito, al quale sono stati invitati alcuni rappresentanti religiosi ancora a titolo provvisorio, ha contato numerosi interventi che hanno segnalato l’opportunità di una funzione di raccordo della Consulta regionale in particolare riguardo all’educazione (testi di storia delle religioni nelle scuole), calendario interreligioso, dizionario dei “valori” comuni, seminari di studio su temi (come il fondamentalismo, la laicità, le donne), l’istituzione di un patrocinio legale per la protezione dei diritti religiosi dei migranti, uno “sportello della libertà religiosa”, creazione di audiovisivi, promozione di scambio di visite e viaggi etc.

In un certo senso la Regione costringerà le chiese protestanti a darsi una organizzazione territoriale regionale e a eleggere propri rappresentanti, se vorranno far parte della consulta. La proposta di allargare la partecipazione a tutti i gruppi esistenti e futuri imbarazza e sembra premiare lo scissionismo piuttosto che la possibilità democratica di rappresentanza (opinione personale di chi scrive!).

Molti problemi restano ancora da risolvere. Se c’è il quello degli evangelici che non hanno organizzazione territoriale, c’è ancora di più quello delle numerose altre religioni esistenti: invitare i Testimoni di Geova, i Mormoni? Che fare dei buddisti Soka Gakkai? Erano presenti solo quelli tibetani, che sono una piccola minoranza rispetto agli altri… Insomma, i prossimi mesi saranno interessanti sotto ogni punto di vista!

Oltre alla Consulta Regionale, si dovranno prevedere sicuramente Consulte a livello comunale (quella di Firenze è in gestazione già dalla primavera scorsa), ma poi anche provinciali? Come faremo a partecipare attivamente a tutte?

La preoccupazione delle rappresentanze, secondo me, dovrà passare in secondo piano rispetto all’utilità del coordinamento e alla possibilità di una migliore conoscenza e visibilità nell’opinione pubblica del nostro paese. C’è lavoro per tutti!

 

Notizie dalle chiese fiorentine

 

Dalla Chiesa Battista

In ottobre tutte le attività della comunità sono riprese a pieno ritmo. Domenica 2 ottobre si è tenuta l'Assemblea: le proposte di programma elaborate dal Consiglio di chiesa sono state accolte con fraterno incoraggiamento. Il Consiglio di Chiesa si è riunito il 6 ottobre per fare il punto sulle attività già avviate e sulla riparazione della Cucina e i Riscaldamenti, questi ultimi sono ormai quasi completati grazie all'impegno profuso da Renzo Ottaviani, il nostro responsabile per la Manutenzione.

Il 2 ottobre è cominciata la Scuola Domenicale: auguri ai piccoli (una decina) e alle monitrici. Il Corso di Omiletica della Domenica mattina (9:30-10:30) tenuto dal pastore Volpe (arrivato ormai al suo 6° appuntamento) si attesta su una media di presenza che si aggira sui 21-23 partecipanti. Anche gli studi biblici del Mercoledì sul libro dell'Apocalisse di Giovanni hanno avuto un avvio molto positivo con un totale di 30-34 partecipanti sui 2 turni (quello delle 17:00 e quello delle 21:00). Il Gruppo Giovanile si riunisce ogni Sabato alle ore 17:00. Il tema che verrà affrontato è “io credo”. Hanno intrapreso questo percorso 5 giovani, tra ragazzi e ragazze.

Si è tenuto Sabato 8 ottobre il primo appuntamento del programma “L'Approdo e la deriva. Viaggio spirituale in 3 tappe”, un ciclo di 3 appuntamenti costruiti con le chiese battiste rumene, ivoriane e latinoamericane. Ospite speciale di questo primo appuntamento dedicato al tema della Testimonianza: il past. Massimo Aprile, segretario del Dipartimento di Teologia dell'Ucebi. Sono intervenuti anche Vasile Budeanu, Lia Goicochea e Patrice Kouko in un clima di profonda comunione, allietata dagli interventi musicali delle diverse lingue e tradizioni presenti.

Giovedì 20 ottobre è ripresa la riunione di preghiera in casa Brandoli-Tonarelli. Un gruppetto di 7 persone, tra giovani e meno giovani, si appresta a raggiungere Vico Equense, vicino Sorrento, per partecipare al Convegno sulla Pastorale Giovanile organizzato dall'UCEBI. E' sempre attivo il gruppo assistenza che coordina le visite a sorelle e fratelli che desiderano ricevere conforto a casa o al Gignoro (referenti: Gloriana e Serena Innocenti).

 

Dalla Chiesa Valdese

Sono riprese tutte le attività: lo studio biblico il sabato, la Scuola Domenicale e il precatechismo la domenica, un catechismo per adulti il giovedì alle 17.30 e l’incontro dei giovani sempre il giovedì alle 18.30: si stanno studiando “profili di personaggi biblici”. Si è deciso di formare dei gruppi di studio sui documenti di Accra e Agape (cioè sulla giustizia economica), bisogna segnalare la propria disponibilità a D. Buttitta. Per i gruppi di incontri biblici nelle case contattare Lucilla Ricca (055 5000879) e per le visite Anna Vezzosi (055 4217515).

Continuano gli incontri per la creazione di un unico Comitato della Diaconia Valdese Fiorentina, con un calendario abbastanza serrato. Si preparano incontri presso gli istituti e nella chiesa si prevede la prima domenica di dicembre come Domenica della Diaconia Si è lavorato alla preparazione della Festa della Riforma con le altre chiese evangeliche il 16 Ottobre: si è rivelata una bellissima giornata di convegno e di sostegno reciproco. La visita del prof. Paolo Ricca ci è stata di molto aiuto. La colletta di 1.130,63 E. è stata inviata alla Società Biblica.

Il Concistoro, che si riunisce regolarmente almeno una volta al mese, si è dato appuntamento al Cares (Reggello) per il prossimo incontro, per partecipare al seminario organizzato dalla CED del III Distretto su “Far crescere le chiese”, sabato 12 e domenica 13 novembre; l’incontro è aperto a quanti vogliano partecipare.

Sabato 19 novembre si terrà il consueto Bazar per l’autofinanziamento della chiesa in via Manzoni a partire dalle ore 12. Il past. Gino Conte, le sorelle Sara Sansone e Lidia Giuliani sono stati qualche tempo in ospedale, ora sono a casa in via di miglioramento.

Domenica 27 novembre

Festa d’Inverno del Gignoro

a partire dalle ore 15.30