Misericordia, compassione e unità nella fede

Romani 9, 14-16

 

Abbiamo appena letto pochi versetti da un grande (e grandioso!) discorso di Paolo dedicato al Popolo d’Israele (capitoli 9-11). È un discorso di capitale importanza per tutta la teologia cristiana. Oggi, in questa domenica che cade a metà della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, possiamo anche dire che si tratta di un discorso particolarmente ecumenico. Qual è la sua tesi? Chi conosce superficialmente gli scritti di Paolo potrebbe pensare che egli voglia mettere da parte l’Israele con i 613 precetti della Torah, con la sua ritualità, affermando che i cristiani hanno preso il posto degli ebrei nella storia della salvezza. Ricordiamo qui la dura polemica con i sostenitori della circoncisione le cui testimonianze conserva l’Epistola ai Galati.

La tesi di Paolo non è però questa. Dio non ha respinto il suo popolo. La fede tuttavia vale più dei precetti della Torah e quindi Abraamo è il padre di tutti, degli ebrei, sì, ma anche dei non ebrei che credono che in Gesù si compie la Torah (legge). Questa seconda categoria però non è più sottoposta ai precetti rituali perché l’innesto nella discendenza di Abraamo avviene esclusivamente grazie alla misericordia di Dio. Questa, in estrema sintesi, è la teologia di Paolo, ma il nostro breve brano di stamattina ci permette di allargare la nostra riflessione.

Il centro del brano è una citazione tratta dal libro dell’Esodo 33,19: «Io avrò misericordia di chi avrò misericordia e avrò compassione di chi avrò compassione». Entrambi i concetti ebraici, misericordia e compassione, fanno riferimento alle relazioni di famiglia; la misericordia allude ai rapporti tra fratelli (fraternità) la compassione fa pensare al seno materno e quindi a un rapporto particolarmente forte. Tutto questo contrasta abbastanza con la grammatica della frase che fa pensare a un sovrano assoluto che pronuncia una sentenza. La bellezza del testo sta proprio in questo contrasto, in questo stupendo paradosso: da un lato la tenerezza materna e la solidarietà fraterna, dall’altro la sua sovranità assoluta.

Paolo tuttavia, da buon maestro, aggiunge una spiegazione: «Non dipende dunque né da chi vuole né da chi corre, ma da Dio che fa misericordia» (v. 16). La frase si riferisce a Giacobbe ed Esaù. Conosciamo bene questa storia: Dio elegge Giacobbe e non Esaù, il primogenito dei due fratelli e questo non avviene in base alle opere o al merito conseguito ma esclusivamente grazie a una sovrano atto di misericordia. Questa riflessione biblica ha suscitato un dibattito plurisecolare sulla cosiddetta predestinazione, da Agostino a Calvino, da Giovanni Diodati a Karl Barth. Ma la predestinazione non è l’argomento di questa meditazione.

Questa domenica siamo chiamati a riflettere sull’unità dei cristiani. Esattamente un secolo fa è nata, in alcuni ambienti dell’anglicanesimo e del protestantesimo anglosassone, l’idea di pregare per l’unità dei cristiani; è successo molto prima dei grandi colloqui teologici. Era un’epoca in cui ogni chiesa cristiana riteneva di avere il monopolio della verità. Le cose che per noi oggi sono ovvie: la piena comunione con le sorelle e i fratelli metodisti in Italia, la concordia di Leuenberg che sancisce una simile comunione tra luterani e riformati in tutti i paesi dell’Europa, la nostra collaborazione con i battisti, il grandioso progetto chiamato Consiglio Ecumenico delle Chiese, il quale, nonostante tante difficoltà, da sessant’anni unisce (anche visibilmente) tutte le chiese cristiane, tranne quella romana; sono passi da giganti che non erano immaginabili allora. In questo processo conciliare tuttavia bisogna riconoscere, prima di tutto, l’azione della Grazia, legata alla preghiera incessante di tante persone credenti.

La situazione del cristianesimo oggi è senz’altro diversa rispetto a un secolo fa; le divisioni in ogni caso non mancano. Da un lato c’è il papato. L’anno scorso il nostro sinodo ci ha ricordato, la triste verità che il papato costituisce il più grande ostacolo istituzionale per l’unità dei cristiani. Ci sono anche frange estreme dell’evangelismo nell’America del Nord o dell’ortodossia orientale (pensiamo ai monaci del Monte Athos in Grecia) che rifiutano decisamente qualunque idea di dialogo con altre denominazioni cristiane non riconoscendole affatto come chiese di Gesù Cristo. L’invito alla preghiera per l’unità dei cristiani è dunque oggi ugualmente valido. Dobbiamo però fissare bene l’oggetto della nostra intercessione.

Per che cosa preghiamo? Ho la sensazione che anche tra coloro che in questi giorni si riuniscono per pregare le intenzioni non saranno proprio uguali. Qualche cattolico zelante pregherà senz’altro affinché gli ortodossi e i protestanti si sottomettano al potere del papa. Qualche evangelico fervente pregherà affinché il papa si converta e accolga tutte le istanze della Riforma protestante (escludiamo però ragionevolmente la preghiera per una tempestiva canonizzazione di Lutero, Calvino e Zwingli – “Santi subito!”).

Lo scrittore polacco ottocentesco Henryk Sinekiewicz, noto in Italia grazie al suo romanzo Quo vadis, fu anche autore di brevi racconti di edificazione cristiana. In uno di questi racconti egli parla della preghiera, paragonandola a tante colombe che si alzano in volo per raggiungere il cielo. Solo che a una certa altezza tutte le colombe si trovano in una specie di mischia, impigliandosi le ali a vicenda e azzuffandosi per cadere alla fine in terra. In certo momento, nel bel mezzo di questa confusione una colomba bianca spicca il volo e senza alcun intoppo, in pochi istanti raggiunge il cielo per posarsi serena e tranquilla sul seno dell’Eterno. La parabola è facile da interpretare: le colombe che cadono sono le preghiere che si contrastano, che in fondo pensano al proprio vantaggio a discapito dell’altro; il contadino invoca un raccolto abbondante, il commerciante invece chiede che diminuisca la quantità del grano sul mercato per rivendere con profitto le sue scorte. Che cosa significa in questo quadro la colomba bianca? È la preghiera di un bambino che non chiede nulla per sé, ma semplicemente loda Dio per la sua bontà e per la sua compassione.

Traendo spunto da Sienkiewicz, vorrei terminare la predicazione, affermando che quando dai nostri cuori purificati dallo Spirito si alza la preghiera di lode e di adorazione, proprio in questo momento si manifesta visibilmente l’unità dei credenti in Gesù Cristo che è già in atto, che è stata sempre reale e che dipende esclusivamente dalla misericordia di Dio

Predicazione del pastore Pawel Gajewski, Domenica 20 Gennaio 2008,
Chiesa Metodista e Chiesa Evangelica Valdese di Firenze