Deuteronomio 14,21 

“Tu sei un popolo consacrato al Signore, tuo Dio”

 

Quando si legge questo capitolo del Deuteronomio, con l’elenco degli animali “puri e impuri” cioè quelli che è lecito mangiare e quelli che invece non si possono in nessun caso mangiare, perché sarebbe “cosa abominevole” (to‘evah), si pensa a qualcosa di molto arcaico, veramente troppo lontano dalla nostra civiltà. Inoltre questi divieti alimentari, che gli ebrei osservanti ancora rispettano, sono diversi da un popolo all’altro e da una religione all’altra, fino alla nostra che non ne conserva nessuno. Un tempo si evitava la carne di quaresima, si prescrivevano periodi di digiuno, il mangiare “grasso” o “magro” è cambiato di valore in modo considerevole. Si tratta di “tradizioni” e “costumi”, così definiamo quello in cui si viene abituati e che viene inculcato alle nuove generazioni. Sono regole di comportamento che vengono conservate o superate a seconda dei casi.

E’ incredibile quanto vi sia di religioso in queste tradizioni. Infatti per conservarle bisogna che siano parte viva della religione: il Deuteronomista insegna che è un ordine del Signore mangiare animali puri e li elenca uno per uno; un elenco più dettagliato, ma identico nella valutazione della purezza o impurità degli animali si trova in Levitico 11. Stupisce il divieto di mangiare la lepre, o il coniglio, invece ci siamo abituati al divieto del maiale (che si troverà più tardi anche fra gli islamici); i crostacei e i molluschi sono mangiati in molte parti della terra senza danno (a parte la difficoltà di digestione!). Il divieto del maiale potrebbe venire dal rifiuto di culti pagani siro-fenici che conoscevano il sacrificio del cinghiale femmina, come simbolo della forza e fecondità femminile, alla quale sacrificavano antiche civiltà matriarcali? Nel nostro testo del Deuteronomio c’è quell’unico accenno al divieto di “cuocere il capretto nel  latte di sua madre”, che è un testo molto oscuro, interpretato come ordine, ancora molto osservato dagli ebrei ortodossi, di separare la carne dai latticini sia nelle vivande, sia nella loro preparazione e conservazione. Accenno a riti magici dell’antico Oriente, basati sull’osservazione del caglio del latte? Non importa.

Il fatto che noi qui vogliamo studiare è : che cosa è il fulcro di una religione, il centro che deve esser tramandato e imposto con una serie di regole, anche alimentari, che codificano nel tempo un costume. L’obbedienza a Dio deve essere qualcosa di visibile, che diventi “testimonianza” per gli altri, come per esempio il velo per le donne islamiche? A volte le abitudini alimentari sono la cosa più visibile e quella che è più facilmente trasmissibile. Le abitudini alimentari, siccome vengono tramandate da ogni famiglia, sono fra le più forti, che sopravvivono anche molto tempo dopo che gli umani si sono laicizzati o non capiscono più perché osservarle. Più tardi si cercheranno elementi giustificativi, si dirà che Dio ha ordinato quel divieto “nel bene” di alcune tribù itineranti che erano nella impossibilità di conservare la carne fresca, ma in realtà non è più possibile risalire alla causa del divieto stesso; lo si osserverà e basta, se si vorrà essere osservanti, oppure si uscirà fuori dalla religione dei padri. A meno che la religione non diventi essa tollerante e consista non in regole e divieti, ma in messaggio personale di salvezza redentiva.

A parte le proibizioni alimentari, che tuttavia ancora rappresentano un problema, per esempio nell’incontro con le altre religioni, c’è da chiedersi se non avviene lo stesso anche per le regole “morali” o “familiari”, che comprendono ugualmente consuetudini e tabù. A volte si ha l’impressione che l’unico modo di esprimere una religione sia il costume stesso di un popolo, almeno nell’immaginario di quella casta di persone, di solito il clero di quelle religioni, che giustifica la sua vita e il suo impegno nell’applicare regole e farle applicare; nel distinguere fra i “praticanti” e i “non praticanti”.

In realtà il costume è, o dovrebbe essere, solo qualcosa di esteriore, rispetto al contenuto religioso, perché il costume corrisponde a una sensibilità che si modifica nel tempo secondo il livello di sincerità raggiunto: per esempio i matrimoni civili per i cattolici non frequentanti nel nostro paese sono sempre più numerosi specialmente in regioni storicamente laiche e non esistono quasi in Sud-Italia. Il divorzio, l’aborto, i patti civili di solidarietà, l’eutanasia, la donazione di organi sono questioni morali controverse, ed è giusto che lo siano e che lo siano trasversalmente alle varie tradizioni religiose. Va evitata l’identificazione di una religione con la tabuizzazione di un comportamento o con la sua accettazione acritica.

Questo vuol dire che ci saranno sempre delle differenze da “sopportare” e che si dovrà concordare con altri comportamenti che non siano del tutto lesivi dei diritti umani, perché altrimenti li si dovrà proibire. E’ un azzardo fare degli esempi: sì alla circoncisione (per chi non ne può fare a meno fra gli ebrei e i mussulmani), no alle mutilazioni femminili, che sono dannose in ogni caso, anche se altrettanto ben radicate in tradizioni millenarie di molti paesi africani. Sì al divorzio in caso di grave disaccordo dovuto alla “durezza del nostro cuore”, come dice Gesù; ma assolutamente No alla poligamia, anche se tollerata da un libro sacro, perché basata su  una terribile discriminazione a sfavore delle donne. Etc. etc. Sarebbe bello, ma pericoloso, fare ogni tanto degli elenchi di quello che è ammissibile e quello che assolutamente non lo è! In ogni caso si dovrebbe farlo dopo un ampio dibattito assembleare e solo essendo consapevoli che le scelte che facciamo sono nell’ordine del provvisorio, perché  parte del costume, e non nell’ordine della rivelazione della Verità.

E veniamo a Gesù e alle regole del suo tempo: i Vangeli non ne fanno un uomo ossequioso delle regole. Abbiamo letto in Marco 7 del suo conflitto con i farisei, che invece le osservavano e avevano da ridire sulle libertà che i discepoli si prendevano: mangiano senza essersi lavati (7,4)! La maggior parte delle persone al tempo di Gesù era il popolino (‘am haharetz, gente della terra) che non aveva grande conoscenza delle regole e le trasgrediva abitualmente, mentre i sacerdoti e gli scribi e i farisei mettevano in pratica anche le virgole della legge e osservavano anche le minuzie di cui non si capiva più il significato. Gesù, che era stimato come un grande Rabbi, si mette dalla parte del popolo, contro gli osservanti, e “dichiarava puri tutti i cibi”. In questo, che è un grande discorso, Gesù distingue un “dentro” e un “fuori” dell’essere umano, che sono a volte inversamente importanti, perché quello che conta è come “amare” gli altri.

Nella fede, che Gesù insegna, è più importante amare il prossimo che restare puri in vista di fare dei riti (v. Samaritano), anzi si può diventare impuri per la tradizione e lasciarsi toccare dalla donna emorroissa, per darle guarigione. Gesù interpreta nel giusto modo la “consacrazione a Dio” nello appartenergli in ogni aspetto per quanto attiene i rapporti umani e non per l’obbedienza a divieti e a regole di cui non si conosce più il significato.

E infine abbiamo letto la distinzione fatta da Paolo di ciò che è “utile”, “lecito” e di ciò “che edifica” . Paolo ha compreso bene la libertà profonda dell’amore insegnata da Gesù e si sforza di applicarla nei rapporti di accoglienza degli ebrei e dei pagani. E’ importante la libertà, ma è importante anche il rispetto dell’altro. Perché perdere l’altro per un cibo? D’altronde bisogna che anche l’altro rispetti la mia libertà di coscienza. Ma intanto io come rispondo al Signore Dio mio della libertà che mi ha data? La raccomandazione è di cercare non il proprio vantaggio, ma il vantaggio altrui. Ecco una raccomandazione difficile da osservare. Ma il testo della lettera ai Corinzi è liberatorio quando dice: fate tutto alla gloria di Dio! (1 Cor. 10,31). Si può mangiare di tutto ringraziando Dio, che è il Creatore di ogni cosa. Si può abolire ogni tabù e distinzione e sentirci liberi, però poi ci si confesserà debitori di ognuno della testimonianza dell’Evangelo della libertà. Liberi e tuttavia debitori, disposti a rispondere alla nostra stessa coscienza, però avendo riguardo alla coscienza altrui, perché anche gli altri siano salvati.

 

Pastora Gianna Sciclone, Chiesa Valdese di Firenze 28 Gennaio 2007