Deut. 13, 5 “Seguirete il Signore, vostro Dio”

 

Questa raccomandazione è collocata in un capitolo molto imbarazzante, che si legge con fatica anche nella “cameretta” e con ancora più difficoltà in chiesa, sperando che tutti siano distratti e non seguano con attenzione e che non ci sia nessuno di “esterno”, che possa mettere la nostra amata Bibbia seriamente in questione. Non neghiamo il nostro scandalo per le espressioni crude sulla morte da impartire, con la raccomandazione che la nostra mano sia la prima (v. 10: “uccidilo senz’altro; la tua mano sia la prima a levarsi su di lui per metterlo a morte; poi venga la mano di tutto il popolo; lapidalo e muoia, perché ha cercato di spingerti lontano dal Signore tuo Dio…).

Il libro del Deuteronomio sta ammonendo contro l’apostasia, parola, per fortuna, fuori uso, che vuol dire “allontanarsi” da Dio o dalla retta dottrina o dalla retta via. Le espressioni del nostro capitolo sono “andar dietro a dèi altri”, “servire dèi altri”, cioè sono i termini più significativi della teologia sia ebraica che cristiana: seguire, temere, obbedire, servire, tenersi stretti, che sono i termini del corretto discepolato (diremmo dopo Gesù), se sono riferiti al Dio vero, qui ricordato sempre, come quello che hai conosciuto perché “ti ha tratto fuori dal paese d’Egitto e liberato dalla casa di schiavitù” (v.6 e 11). Gli “dei altri” sono definiti “stranieri”, “che tu non hai mai conosciuto”, “adorati dai popoli che vi circondano” “vicini a te o da te lontani” “da una estremità all’altra della terra”.

Sono previste tre situazioni possibili: a) che il culto venga inquinato da un “profeta” ufficiale responsabile del culto nazionale e tutto il popolo sia deviato verso l’idolatria; b) che questo avvenga in privato, in casa, frutto di matrimoni misti, per influenza di un parente o dell’amico/a del cuore;   c)  che sia una città in particolare che si allontani dalla retta via. Quello che va fatto (da chi e come?) è:  riconoscere l’aberrazione, fermarsi, mettere a morte il singolo e se è un’intera città votarla allo sterminio, in modo che non ne rimanga nessuna traccia (neanche gli animali), come quando Israele era in guerra e veniva dichiarato l’interdetto al bottino che doveva essere interamente bruciato. In questo caso si parla perfino di votare a Dio stesso l’eccidio, considerandolo un “sacrificio arso interamente” (olocausto) per il Signore.

C’è l’orrore per un sacrilegio commesso davanti ai nostri occhi e il bisogno di cancellarlo, eliminandone l’autore e perfino il luogo da dove viene o tutti i suoi parenti anche innocenti. In realtà non sappiamo se mai siano state eseguite queste sentenze, tranne casi particolari molto rari (il caso di Acan in occasione della presa di Gerico, Giosuè 7). Però la cosa è nell’immaginario umano da sempre e perciò è tanto dura a scomparire la “pena di morte”. Per reati molto gravi e insopportabili viene spontaneo anche al cuore più sensibile il desiderio di vendicare la morte innocente e cancellare l’obbrobrio della violenza commessa. Sembra quasi un atto purificatore uccidere l’impuro, il colpevole per risanare la società e cancellare il male. Dovremo considerare un processo di maturazione del pensiero umano se ormai non si commina più la pena di morte per reati di opinione, come invece era usuale fino a poche centinaia di anni fa, e la si riserva a reati contro la vita di altri esseri umani.

Forse non ne siamo consapevoli, ma è come se dicessimo che la cosa più sacra che c’è è la vita umana e non più la dottrina o Dio (ma ora siamo consapevoli che la religione è un nostro modo di parlare di Dio e non Dio stesso). In altri tempi si è considerata con maggiore severità la devianza dell’eretico, anche se non faceva male a nessuno, che non la trasgressione sociale. La nostra storia valdese ce lo ricorda in molti modi! Il timore del sacrilegio e della devianza nel nostro paese è stato inculcato dal Cattolicesimo fino a pochi decenni fa, al punto da essere determinante nel rifiuto del Protestantesimo, che si presentava molto vario in un contesto dove invece la dottrina era rimasta al Concilio di Trento e alla Controriforma senza discussione e quasi senza movimenti interni, come ci ha spesso ricordato il fratello storico Giorgio Spini.

Abbiamo affiancato alla lettura del capitolo 13 del Deuteronomio, un pezzetto del Sermone sul Monte, là dove Gesù parla dell’amore per i nemici. Sarebbe troppo facile e superficiale contrapporre i due Testamenti, il Vecchio e il Nuovo, e dire che l’uno predica l’odio e l’altro l’amore, com’è stato fatto da Marcione in avanti varie volte nella storia della chiesa. E così si è predicato l’odio contro gli ebrei… Il centro del nostro capitolo è il v. 5 “Seguirete il Signore, il vostro Dio, lo temerete, osserverete i suoi comandamenti, ubbidirete alla sua voce, lo servirete e vi terrete stretti a lui”. Questo è il Dio che Gesù ha amato, seguito, servito e a cui si è tenuto stretto!

 Chi segue Dio in questo modo non vivrà nell’odio, o nel sospetto dell’apostasia altrui. E’ dentro se stesso che deve indagare se sta seguendo, temendo e osservando i comandamenti. E’ dentro se stesso che deve eliminare gli idoli che possono allontanarlo/ci dal Dio vero. Perché il Dio vero, quello amato e rivelato da Gesù, è quello che ordina l’amore per il prossimo: si veda il cap. 19 del Levitico con tanti esempi concreti: occuparsi del povero e dello straniero, dare un giusto salario, favorire gli svantaggiati e handicappati, giudicare con giustizia, non diffamare a danno della vita altrui, non odiare… fino alla formula “amerai il prossimo tuo come te stesso” (v.18)  ripresa da Gesù nel “Grande comandamento”.

L’amore per i nemici e la cancellazione del concetto di nemico è un “unicum” di Gesù che non è esistito prima di lui e non diventerà vita vera se non passando per la sua morte e risurrezione. Perché è così importante per Gesù l’amore per il nemico? Forse perché è il limite estremo dell’amore del prossimo. Non esisteva l’apostasia al tempo di Gesù? Certo Gesù insegna a distinguere fra Dio e Mammona e a servire solo Dio, senza sviarci dietro Mammona. Il Gran Comandamento ha l’amore di Dio al primo posto e l’amore del prossimo al secondo, però Gesù rivela un Dio che non ha nemico, perché lo ama e dunque si fa amico e non nemico dell’essere umano, che dà la sua vita per i suoi ex-nemici, diventati amici (Gv. 15, 13: “Nessuno ha amore più grande di quello di dar la sua vita per i suoi amici” ).

Nella scorsa settimana è intercorso un bel dibattito fra un gruppo di nostri fratelli sul tema della pena di morte. In particolare ci ha colpito l’editoriale interno del nostro giornale “Riforma”, (che avrebbe fatto meglio ad essere l’editoriale esterno), di un giornalista cattolico Beppe Marasso, intitolato “Abbiamo capito la lezione di Cristo?” dove si afferma che chi sostiene la pena di morte in realtà è affascinato dalla violenza. “E’ redentiva unicamente la vita data, mentre se prendiamo la vita, se condanniamo a morte, ci condanniamo a morte”. La violenza subìta e ricambiata non interrompe la catena del male. Solo il Gesù del Vangelo di Giovanni che dice: “io depongo da me stesso la mia vita” (Gv. 10,18) interrompe la catena della vendetta e dell’odio.

“Seguirete il Signore vostro Dio” vuol dire per noi seguire Gesù, che è l’interprete per eccellenza di Dio, nel suo cammino che ci porta “fuori dalla casa di schiavitù” della violenza e che è l’unico vero Dio, il Dio che ama l’essere umano oltre ogni misura ed è il Dio della vita e dell’amore.

Pastora Gianna Sciclone - Chiesa Valdese di Firenze Domenica 14 Gennaio 2007