Orgoglio e umiltà

I Pietro 2,21-25

Tutti i testi biblici della liturgia di oggi sono riuniti dallo stesso termine: il pastore. Il testo della predicazione usa questo termine nella parte finale e fa questo nel quadro della classica metafora delle pecore e del pastore: Poiché eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime.

Ciò che stimola fortemente la nostra riflessione è l’accostamento del testo I Pietro 2,21-25 al vangelo secondo Giovanni 10,11-30. Il messaggio è chiaro: Gesù è il buon pastore. Questo messaggio, squisitamente cristiano, è inserito in un universo di riferimenti legato alle Scritture ebraiche. L’autore della lettera attinge a piene mani dal Secondo Isaia (capitolo 53), identificando Gesù con il servo umile e obbediente del SIGNORE. Gli elementi che ovviamente non si trovano in Secondo Isaia sono il legno della croce e l’efficacia del sacrificio vicario, grazie al quale noi siamo morti al peccato e viviamo per la giustizia. La nostra riflessione diventa ancora più stimolante se accostiamo i due testi del Nuovo Testamento (Giovanni 10 e I Pietro 2) al Salmo 23. Nella teologia ebraica il pastore del popolo d’Israele è Dio stesso. Egli guida il popolo attraverso la valle dell’ombra e della morte verso i verdeggianti pascoli, dalla carestia e rassegnazione verso un banchetto abbondante e gioioso. Mettere in relazione i testi neotestamentari che definiscono Gesù come buon pastore e il Salmo 23 significa affermare di fatto che questo Gesù è l’incarnazione dell’Dio di Abraamo, Isacco e Giacobbe.

Proviamo ora ad analizzare il contesto del nostro brano (I Pietro 2,21-25). Tale contesto è molto ampio, inizia con 2,1 per terminare con 4,6. Vorrei dirlo con molta franchezza: è una delle sezioni del Nuovo Testamento più fortemente criticata nel corso dell’ultimo secolo. Bastano pochi esempi per percepire le ragioni di tale critica. Siate sottomessi, per amor del Signore, a ogni umana istituzione (2,13); Domestici, siate con ogni timore sottomessi ai vostri padroni; non solo ai buoni e ragionevoli, ma anche a quelli che sono difficili (2,18); Anche voi, mogli, siate sottomesse ai vostri mariti (3,1). È quanto basta per suscitare in qualcuno già in questo momento un sentimento di forte contestazione…

Stamattina non abbiamo tempo per approfondire i singoli argomenti. Dobbiamo accontentarci dell’affermazione che la Prima lettera di Pietro costituisce un paradigma fondamentale per la teologia cristiana: la visione morale della vita cristiana è fondata sulla cristologia. La regola fondamentale di tale visione è la seguente: Siate tutti concordi, compassionevoli, pieni di amore fraterno, misericordiosi e umili; non rendete male per male, od oltraggio per oltraggio, ma, al contrario, benedite; poiché a questo siete stati chiamati affinché ereditiate la benedizione (3,8-9). La base cristologica di questa regola si trova nel nostro testo della predicazione di oggi al versetto 24: Egli ha portato i nostri peccati nel suo corpo, sul legno della croce, affinché, morti al peccato, vivessimo per la giustizia, e mediante le sue lividure siete stati sanati. La parte finale del versetto è una citazione di Isaia 53,5.

Quale conclusione sorge da questa breve lezione di teologia biblica? Ce ne sarebbero almeno due.

La prima è che nella vita cristiana ci sono regole che partono da un impianto generale improntato su: compassione, amore, umiltà. Queste regole si contrappongono inevitabilmente alle altre fondate su: competizione, desiderio, orgoglio. Il problema non consiste tuttavia in questi discorsi sospesi tra etica e linguistica.

La seconda conclusione coincide con Il punto centrale dell’annuncio cristiano. Non servono a nulla i nostri sforzi umani, volti a trasformare la nostra esistenza individuale o collettiva. Anzi, questi sforzi si prestano il più delle volte ad esaltare un antropocentrismo esasperato, il trionfo dell’IO umano sul TU divino. Soltanto la grazia di Dio, manifestatasi pienamente in Cristo Gesù può trasformare il nostro egoismo in altruismo e il nostro orgoglio in umiltà.

Predicazione del pastore Pawel Gajewski, Domenica 6 Aprile 2008, Chiesa Evangelica Valdese di Firenze.