Romani 14,10-13

“Non giudicate”



La Crisi... Da qualche tempo ormai sentiamo declinare questa parola in tutte le forme sintattiche grammaticali possibili. E' una parola che ci inquieta, infonde preoccupazioni e angosce. Eppure il suo equivalente greco “krisis” significa cose assai diverse: giudizio, svelamento della verità, la fine di ogni incertezza. Concetti non sempre facili da comprendere ma comunque positivi.

Il brano Romani 14,10-13 usa però il verbo “kritein” ancora in un'altra accezione, molto più vicina a nostro uso corrente. Va da sé che in una frettolosa attualizzazione si potrebbe interpretare le esortazioni di Paolo come condanne nette del pettegolezzo e della diceria. Non posso e non voglio negare che il nostro brano dica questo, la sua sostanza va tuttavia ben oltre la dimensione dell'inciucio. Alla sua base c'è un problema assai serio per la chiesa delle origini: il consumo delle carni provenienti dai sacrifici pagani e le relative questioni di purità rituale. In questo emerge chiaramente un cospicuo residuo del ritualismo ebraico perché la base delle comunità è costituita da loro, dai cosiddetti giudeo-cristiani. La prospettiva in cui è collocato il ragionamento è però quella escatologica, vale a dire delle morte, della risurrezione e della vita eterna.

Posto così il giudizio umano anche su cose apparentemente “divine” o almeno “religiose” perde qualunque rilevanza. Ciò che conta è il tribunale di Dio. In modo più implicita che esplicita l'autore dell'epistola propone il criterio di agape e quindi di solidarietà e di mutuo sostegno. Paolo è molto realistico nel v. 13. La maggior parte di cadute morali e/o spirituali nelle comunità di fede avviene a causa dei giudizi spietati che spesso mettono in crisi anche le persone più forti sul piano interiore. Spesso alla forza interiore della fede si associa una notevole (iper-?) sensibilità sul piano relazionale e il disastro inizia proprio da questa sfera.

Dobbiamo dunque invocare la sospensione del giudizio? Non credo che questa sia la soluzione. Per quanto riguarda le leggi dello Stato il ruolo dei giudici è insostituibile. La situazione è invece diversa sul piano dell'agire morale (o immorale che sia). Credo che la regola paolina di non porre occasioni di inciampo possa tradursi in una netta sospensione di qualunque giudizio sulla persona in quanto tale. Provo a fare un esempio banale. “E' una persona per bene” oppure “E' un farabutto”, spesso e volentieri dispensiamo sentenze di questo genere e può capitare a distanza di tempo che le due valutazioni appena citate riguardino la stessa persona. Ritorna qui l'antica saggezza popolare che distingue (non sempre) nettamente tra “peccato e peccatore”.

Vorrei però ritornare all'altro giudizio menzionato da Paolo, quello di Dio. Credo che proprio in questa dimensione ritorni il significato originale del termine “krisis”. Per non pochi pensare alla necessità di comparire davanti a Dio per rendere conto del proprio operato provochi crampi allo stomaco. La verità invece è che questo tribunale di Dio opera già in mezzo a noi. Fortunatamente non è un tribunale composto da uomini e donne. Il suo foro è interiore e si chiama coscienza. Dovrei aggiungere: coscienza vincolata alla Parola di Dio. Il vincolo della Parola è fondamentale. Non di rado la nostra coscienza ci condanna, emettendo nei nostri confronti una sentenza assai severa, qualche volta talmente severa da provare il desiderio di togliersi la vita. Qualche “amico” o “amica” possono rincarare magari la dose della disperazione con un maldestro tentativo di aiuto. Ma proprio in questi momenti così drammatici l'annuncio dell'evangelo diventa veramente un atto di Grazia affermando che un nuovo inizio è sempre possibile e che il nostro agire non potrà in alcun modo sminuire l'immenso valore che ogni persona ha agli occhi di Dio.

Predicazione del pastore Pawel Gajewski Domenica 27 Giugno 2010, Chiesa Evangelica Valdese di Firenze