Narrazione, memoria, legge

Esodo 4, 10-16

Mosè è particolarmente sincero nell’ammettere la sua incapacità di parlare al pubblico. La scena che abbiamo ancora davanti ai nostri occhi contiene addirittura alcuni elementi di comicità. Mosè è stato appena chiamato da Dio per compiere una missione ed ecco gli manca il requisito fondamentale per compierla: l’arte oratoria. Il Signore si arrabbia con Mosè, ma alla fine gli prospetta una via d’uscita. Sarà il fratello Aaronne a parlare al suo posto; al tempo stesso Mosè sarà per il fratello come Dio.

Dal punto di vista storico-critico questo brano risente fortemente dell’elaborazione compiuta durante l’esilio in Babilonia. La stirpe di Aaronne, i sacerdoti appunto, privati del tempio trovano in questo episodio la legittimazione del loro ruolo di custodi della Legge (la Torah) dell’Eterno. Proseguendo nella lettura dell’Esodo scopriamo tuttavia che Mosè parla e anche molto bene. Va da sé che le altre tradizioni teologiche, anteriori a quella sacerdotale hanno attribuito a Mosè un ruolo di primissimo piano nella guida e nell’educazione del popolo d’Israele. Lo vediamo ancora oggi quando la religione ebraica viene chiamata “religione di Mosé”, espressione molto in uso nella lingua polacca. Lo possiamo intuire quando alcuni fratelli e sorelle cristiani affermano che i primi cinque libri della Bibbia sono stati scritti da Mosè. Sappiamo bene che Mosè ha dato soltanto l’impulso iniziale alla stesura del Pentateuco, il suo nome indica piuttosto il principale protagonista di questi scritti nonché il garante umano della loro credibilità.

Dobbiamo fermarci qualche istante sul termine “legge” (Torah). Per noi cristiani, questa parola ci rimanda sostanzialmente ai dieci comandamenti; i 613 precetti e divieti rituali hanno per noi un significato puramente storico mentre per gli ebrei di oggi essi costituiscono il vero timone della loro vita quotidiana. In ogni caso i testi di carattere normativo, legale, occupano una parte minoritaria del Pentateuco che gli ebrei chiamano “Torah” (legge). Il resto è una serie di racconti, che vedono Abraamo e Mosè come protagonisti principali. Perché dunque tanta enfasi sul nome Torah riferito all’intero corpus di questi scritti?

«I racconti operano a un livello eticamente prioritario o primario, mentre le leggi, persino quelle apodittiche, operano a un livello secondario o subordinato», scrive Waldemar Janzen nel suo saggio dedicato all’etica dell’Antico Testamento (Claudiana, 2004, p. 80). Vorrei applicare questa affermazione del teologo canadese al Giorno della Memoria della Shoah che cade proprio oggi. Non si tratta di una festività ecclesiastica. È stato il Parlamento italiano a istituire questa giornata con la legge n. 211 del 20 luglio 2000 al fine di aderire alla proposta internazionale di dichiarare il 27 gennaio come giornata dedicata alla commemorazione delle vittime della Shoah. La scelta della data ricorda il 27 gennaio 1945, quando le truppe sovietiche arrivarono nei pressi della città polacca di Oswiecim (Auschwitz in tedesco) scoprendo l’orrore del più grande campo di sterminio che la storia umana abbia mai conosciuto. In questa ricorrenza annuale le due dimensioni, racconto e legge, si intrecciano abbastanza.

Vivendo in Italia da figlio di quella terra che porta, geograficamente e fisicamente, il peso di Auschwitz, mi chiedo se questa ricorrenza annuale sia veramente entrata a un livello eticamente prioritario. Senz’altro a tale livello è entrata la magistrale narrazione di Primo Levi Se questo è un uomo. Infatti la Giornata e il libro sono diventati un binomio; si tratta di una riuscita integrazione tra racconto e legge. Il racconto di Levi tuttavia non basta per stimolare il senso etico dei più. Frequentando gli ambienti dei sopravvissuti allo sterminio mi rendo conto di un fatto apparentemente ovvio: si tratta sempre di persone parecchio avanti negli anni. La necessità di conservare la loro memoria, di fissare e trasmettere i loro racconti è dunque evidente. Fortunatamente non mancano i mezzi tecnologici per compiere tale opera. Non si tratta semplicemente di un atto dovuto o formale. «La memoria è un possente strumento per capire e per rispondere alle sollecitazioni del presente», scrive Amos Luzzatto sulla pagina Web dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia (www.ucei.it/giornodellamemoria). E il presente italiano pone davanti a noi diverse sollecitazioni di enorme spessore.

Noi cristiani siamo chiamati a testimoniare la fede in Gesù Cristo in un’Italia che dal punto di vista sociologico, è ormai un paese in cui esistono comunità radicate in fedi e culture diverse. Queste comunità già adesso sono in grado di condividere con la società italiana le proprie narrazioni, attraverso la letteratura, la musica, il cibo. Noi possiamo e dobbiamo raccontare loro la nostra fede cristiana. In Italia però questa ricchezza che scaturisce dalla diversità non è tutelata dalla legge. Tale lacuna è particolarmente visibile sul piano della libertà religiosa. Considerata la situazione politica attuale, è difficile pensare a una rapida approvazione del disegno di legge sulla libertà religiosa. L’istituzione ufficiale di una giornata della libertà religiosa e di coscienza potrebbe creare un’occasione in cui ascoltare attentamente i racconti degli altri e proporre le nostre narrazioni imparate sulla Bibbia; tutto questo in vista di una società veramente aperta anche sul piano religioso.

Predicazione del pastore Pawel Gajewski, Domenica 27 Gennaio 2008,Giorno della Memoria
Chiesa Metodista e Chiesa Evangelica Valdese di Firenze