“La Parola de Dio fu rivolta a Giovanni figlio di Zaccaria nel deserto”

 

Luca  3 :1-6

 

Il Vangelo di Luca è in realtà una lunga lettera indirizzata probabilmente ad un alto funzionario dell’impero romano o comunque a qualcuno che si trovava in una posizione d’autorità, se non altro dal punto di vista sociale; qualcuno sufficientemente ricco da potersi pagare uno scriba per mettere insieme un libro su dei fatti oscuri, accaduti in una regione lontana, i confini dell’impero; una cosa questa, che a quell’epoca soltanto i più ricchi frai i più ricchi si potevano permettere. 

Visto che si tratta d’informare qualcuno molto importante, Luca ha cercato di essere il più preciso possibile con i dettagli: quando le cose sono successe, dove sono successe, e come sono successe.

In realtà però i due primi versetti del brano di oggi sono un po’ ingannatori. Alle orecchie infatti del lettore moderno, sembrano semplicemente servire a collocare la storia nel tempo, sembrano servire ad informarci più o meno sul periodo nel quali questi avvenimenti si sono svolti: all’incirca negli anni fra il 27 e il 29 d.C.

Alle orecchie del lettore, o meglio dell’ascoltatore dell’epoca, questi due versetti portano in sé l’eco di storie orientali e esotiche, generalmente abitate da strani personaggi, da re dalle ricchezze favolose e da complotti di corte.

Tutti quei luoghi che possiamo avere della difficoltà  a rintraciare sulla carta - la Galilea, l’Iturea, la Traconidite, l’Abilene, e che corrispondono a diverse regioni d’Israele, della Siria e del Libano attuali – non facevano che evocare simili immagini, dato che per di più vi si parla perfino di un profeta nel deserto, e sappiamo che a quell’epoca  questo angolo sperduto dell’impero sembrava essere il concentrato di tutto ciò che poteva esserci di più strano nel campo della religione: una minuscola regione dove la gente - almeno agli occhi dei romani – era completamente impazzita, sempre in rivolta a causa della loro religione.

Ebbene questi due versetti, che probabilmente siamo portati a leggere alla svelta solo perché sono stampati là e che non sembrano comunicarci niente di particolarmente “spirituale” o importante, questi due versetti costituiscono al contrario una vera e propria bomba teologica.

 

In effetti, dopo aver nominato l’imperatore Tiberio - l’uomo all’epoca più importante sulla faccia del pianeta – e diversi re a capo delle regioni di cui abbiamo parlato, dopo aver menzionato le autorità religiose supreme degli Ebrei – il sommo sacerdote ed il suo predecessore, tutte persone che, fatte le debite proporzioni, avevano più autorità che un Papa può averne – dopo aver menzionato tutte queste persone e tutti i differenti livelli di potere del Medio Oriente, ecco che con una piccola frase Luca toglie loro ogni sembianza di potere: sì, la storia ufficiale si svolge a Roma presso l’imperatore e a Gerusalemme presso il sommo sacerdote, ma la storia quella vera ha luogo altrove: “La Parola de Dio fu rivolta a Giovanni figlio di Zaccaria nel deserto” lontano da Roma, lontano da Gerusalemme.

I sovrani del mondo possono darci dei punti di riferimento di luogo e di tempo, ma quando si tratta di guardare a come la storia funziona, quando si tratta di venire a ciò che è veramente importante, loro non ci hanno niente a che vedere.

Vi è un altro aspetto qui che è importante: col darci questi punti di riferimento storici, Luca ci ricorda che la storia della fede si svolge  nella vita ben reale; non si tratta di un racconto lontano, di una favola orientale, al contrario questa storia ha luogo nel bel mezzo della storia ufficiale, e – quel che è ancor più sorprendente – Luca ci mostra come tutta la storia biblica ha questa caratteristica, e che il suo racconto su Giovanni Battista non ne è che la continuazione: “La Parola di Dio fu indirizzata a Giovanni” non è che la ripresa di una formula classica che si trova in molti libri dei profeti dell’Antico Testamento. Tutta la storia della fede dunque, tutta la storia dell’intervento di Dio, si è svolta durante tutto il corso della storia umana, senza che si possano separare le due, senza che si possa fare della fede una cosa da relegare semplicemente nel nostro mondo mentale.

 

Come potete ben vedere, finisce per esser sempre la stessa storia, forse proprio perché si tratta della cosa  di cui ci si può dimenticare più facilmente: Dio presente nel corso della vita ed anche Dio preente nel corso della storia, attraverso l’intervento in delle situazioni semplici - Giovanni, il figlio di una coppia di anziani contadini – ben aldilà di coloro che sembrano apparentemente determinare la storia del mondo.

Ci viene insomma ricordato che non sono loro ad avere il potere, ma Dio; che non sono loro a fare ciò che è veramente importante, ma che ciò si svolge altrove, nel deserto e sulle rive del Giordano - un fiumiciattolo insignificante in un angolo sperduto dell’impero.

 

Il Giordano e il deserto erano due posti chiave nella memoria collettiva d’Israele, ed è proprio con questo concetto di memoria che siamo chiamati a confrontarci in questo periodo dell’anno, e soprattutto a confronatrci con l’uso che ne facciamo. Il Giordano era il fiume - non tanto largo, circa 25 metri – che gli Israeliti avevano dovuto attraversare    per entrare nella terra promessa, e sulla riva del quale per non dimenticare l’intervento di Dio in loro favore, avevano edificato un monumento commemorativo, un mucchio di 12 pietre, una per tribù .... per non dimenticare, per ricordarsi.

Il deserto, l’idea del deserto è lei pure  fortemente legata alla memoria collettiva d’Israele: non soltanto i 40 anni che avevano preceduto l’ingresso nella terra promessa, ma anche tutte le speranze di tornarvi dopo le deportazioni del 6° secolo a.C. verso Babilonia – nell’Iraq attuale – passavano per il deserto da attraversare per tornare in Palestina. Il passo di Isaia che Luca cita parla di questo nel suo contesto originale: Dio che farà tornare il suo popolo nella sua terra attraverso una via che Lui stesso preparerà nel deserto che separa Babilonia dalla Giudea. Il deserto dunque è il posto dove si incontra Dio, dove si è soli, faccia a faccia con Lui.

C’è un passaggio curioso per esempio nel libro del profeta Osea, dove Dio dice al suo popolo: “Un giorno, io, il Signore, la riconquisterò. La porterò nel deserto e le dirò parole d’amore”. il che tradotto vuol dire che nel deserto Dio gli parlerà e lo convincerà, che gli farà capire. Il fatto dunque di trovare un nuovo profeta di Dio – Giovanni – nel deserto vicino al Giordano, ha chiaramente un valore altamente simbolico: si tratta di un appello al popolo a tornare alle radici della sua fede, a tornare a incontrare Dio, il che costituisce la sua vera storia e la vera storia di per sé, aldilà dei poteri umani che sembrano dominarla. Si tratta di una chiamata a rivivere tutto ciò che fa parte  della sua memoria collettiva e a guardarla sotto una nuova luce.

Sappiamo che gli Ebrei dell’epoca aspettavano un Messia politico che li liberasse dai Romani e che ristabilisse il regno d’Israele.

Perfino il cantico di Zaccaria che abbiamo letto insieme poco fa, sembra fare eco a queste speranze e sembra vedere la salvezza in questi termini.

Tuttavia c’è una sorpresa in questo stesso cantico; verso la fine (Luca 1:76-77) Zaccaria dice di suo figlio Giovanni “E tu, figlio mio, deventerai profeta del Dio Altissimo: andrai dinanzi al Signore a preparargli la via.

E dirai al suo popolo che Dio lo salva e perdona i suoi peccati” ed infatti troviamo poi che il centro del messaggio di Giovanni era il “battesimo di pentimento per il perdono dei peccati”. Un invito dunque a fare il vuoto da tutto quanto ci sta intorno – i Romani per esempio –un invito a tornare alle radici della fede, a ciò che è importante, la relazione con Dio; un invito rivolto anche a noi a fare il deserto nelle nostre teste - se non abbiamo la possibilità di andarcene in un luogo appartato – e ad affrontare la questione del pentimento e del perdono dei peccati, perché è in questo che consiste la vera liberazione.

Curiosamente non si tratta di un soggetto facile da trattare  nell’ambiente cristiano  perché alla fine le parole finiscono col perdere il loro senso a causa del fatto che le sentiamo sempre, cosicché diventano vaghe e parte del gergo interno.   Quando si parla di pentimento, la sfumatura della parola nel testo originale greco, fa allusione ad un cambiamento radicale che ha luogo principalmente nel cervello, nella maniera di pensare: letteralmente, andare aldilà del proprio modo di pensare. Nell’esempio fornitoci da Luca  si potrebbe quasi dire  andare aldilà della storia apparente del mondo e renderci conto che c’è un Dio, che questo fa una differenza, che bisogna situarci in questo contesto e far fronte a questa “cosa”.

Per noi gente di chiesa, questo vuol dire anche andare aldilà del gergo che ha finito per neutralizzare la nostra capacità di comprendere ciò di cui parliamo o ciò che leggiamo, e rivivere questi avvenimenti nella nostra memoria, non semplicemente come delle storie del passato che sappiamo si sono svolte tanto tempo fa, ma come dei resoconti di fatti che ci riguardano in prima persona.

 

Che cosa può voler dire per noi il pentimento ?

Non sto qui parlando del fatto di non sentirci a nostro agio a causa di qualche peccatuccio insignificante,  ma veramente di andare in fondo alla nostra maniera di pensare: come crediamo che il mondo funzioni ?

Quali sono i nostri valori ?

Forse che abbiamo finito per dare un nome cristiano, una vernice cristiana, semplicemente ai valori della nostra società - essere un buon cittadino, ecc. ecc. – senza andare al fondo delle cose:

Dio che è un fatto, un arealtà davanti a noi e non semplicemente un fatto mentale, un pio ricordo che abbellisce le nostre vite di tanto in tanto, come sembra essere il caso per l amaggior parte delle persone, adesso che stiamo entrando nel tempo di Natale ?

Il perdono dei peccati, la liberazione dai nostri peccati deve dunque essere qualche cosa di diverso che riprendersi da una sensazione di colpevolezza per qualcosa di specifico, per la lista della spesa delle nostre piccole miserie.

Quel che ci viene richiesto in questo passo deve aver luogo nella nostra testa.

Il tempo dell’Avvento, invece di essere dedicato a prepararsi per il Natale pagano – se abbiamo il coraggio di chiamare le cose col loro nome, e come Cristiani non dovremmo essere imbarazzati, si tratta infatti di un circolo druidico attorno ad un albero sacro; non si potrebbe trovare nient’altro di più pagano –  il tempo dell’Avvento nel quale teoricamente ci si prepara alla venuta del Messia promesso, dovremmo riceverlo come un’occasione per rivivere nella nostra memoria personale e comunitaria questa chiamata di Giovanni Battista al pentimento, alla conversione, non intesa – come sovente è il caso – come il passaggio da una denominazione cristiana ad un’altra, ma come una rimessa in causa profonda della nostra fede e del nostro ruolo in questa storia che è il vero centro della storia del mondo.

 

Il pentimento in vista del perdono, in vista della liberazione dai nemici; è in questi termini che Zaccaria, il padre di Giovanni, vedeva le cose. Salvo che il nemiconon sono i Romani, come forse lui credeva, ma il peccato, quello che è dentro di noi, quello che non ci fa vedere la realtà e che ci mantiene in un mondo artificiale che a un certo momento ci crollerà davanti: il problema siamo noi.

 

Questa mattina queste parole possono sembrare vaghe alle nostre orecchie, o possono lasciarci perplessi, perfino scioccati.

Ma che altro possiamo aspettarci da un testo sulla chiamata al pentimento, se non di farci interrogare e di farci sentire non certo a nostro agio ?

Vi sono ovviamente dei bagliori di speranza; lo scopo di tuttal l’operazione, di questa chiamata a guardare la realtà in faccia in tutte le sue svariate manifestazioni - cercare Bibbia per Isaia 40 – lo scopo di questo invito pressante e urgente a guardare  e ad affrontare quel che non funziona come dovrebbe  nei nostri modi di pensare e di conseguenza nelle nostre maniere d’agire, è di vedere la salvezza, la liberazione di Dio - e non stiamo parlando qui del destino dopo la morte – la salvezza all’opera adesso, ciò che è possibile se prendiamo sul serio questi fatti che ci sono riferiti nei Vangeli, se ci rendiamo conto che non si tratta solo di belle storie pie e edificanti, ma piuttosto che si tratta del centro della storia umana e del centro delle nostre storie personali.

 

Durante le prossime settimane siamo chiamati a riuscire a non farci distrarrre dal caos che ci circonda e che non ha niente a che vedere con gli avvenimenti di 2006 anni fa, ma piuttosto a fare posto alla nostra memoria cristiana, alla nostra partecipazione a quegli eventi, cominciando dalla riflessione sul pentimento, dalla riflessione sul nostro modo di vedere la vita.

Non è che un inizio, così come il messaggio di Giovanni non è stato che l’inizio.

AMEN.

 

Predicazione tenuta da Giancarlo Fantechi il 3 dicembre 2006,

 Chiesa Italiana del Redentore - United Church of Canada