La chiesa futura

Ebrei 13,12-14

La lettera agli Ebrei è senz’altro il testo più ebraico tra tutte le Scritture cristiane. Inizialmente attribuita all’apostolo Paolo, questa epistola contiene una sintesi delle fede cristina vista alla luce delle Scritture ebraiche. L’autore umano dello scritto ha visto la distruzione del tempio di Gerusalemme (70 d.C.) e nella sua riflessione annuncia la fine del culto sacrificale e la centralità del Nuovo Sacerdote che ha compiuto una volta per sempre il sacrificio di espiazione.

Questa riflessione è particolarmente visibile nel testo di questa mattina. Questi pochi versetti alludono alla liturgia penitenziale dell’Antico patto: Si porterà fuori dall'accampamento il toro del sacrificio per il peccato e il capro del sacrificio espiatorio, il cui sangue sarà stato portato nel santuario per farvi l'espiazione; e se ne bruceranno le pelli, la carne e gli escrementi (Levitico 16,27).

Ovviamente nell’ottica della lettera agli Ebrei Gesù è anche la vittima sacrificale. Nella teologia ebraica la dimensione del “fuori” (fuori della città, fuori dell’accampamento) significa l’eliminazione del peccato dallo spazio abitato da coloro che devono essere puri davanti al Signore. Il nostro autore sembra interpretare questa dimensione in maniera un po’ diversa. Prima di tutto si tratta di abbandonare la sicurezza di una città fortificata, di un accampamento ben popolato in cui si vive abbastanza tranquillamente. D’altro canto il testo allude indubbiamente alla distruzione della città di Gerusalemme e quindi alla dispersione (diaspora) tanto degli ebrei quanto dei cristiani. È particolarmente suggestivo il sostantivo greco ‘oneidismòs’ contenuto nel versetto 13. La traduzione “obbrobrio” è abbastanza appropriata, ma non completa. Il termine greco può significare addirittura “infamia”, “disgrazia”, “privazione di ogni dignità”. La frase è un’esortazione alla sequela; i seguaci di Gesù portano fuori della città, fuori dell’accampamento la loro infamia, la loro disgrazia; sono perseguitati e privati di ogni dignità. Si potrebbe azzardare un’espressione abbastanza forte: i seguaci di Gesù vengono esposti al “pubblico ludibrio”.

Tutto questo è senz’altro un linguaggio che si oppone decisamente a qualunque affermazione del potere, a qualunque tentativo di sopraffazione. Si tratta di esprimere una sorta di anti-potere che sta dalla parte degli ultimi, dei reiet

Come se non bastasse tutto questo, il nostro testo si conclude con la seguente espressione: Perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura (v. 14). Diverse tradizioni cristiane hanno interpretato questo versetto come invito a distaccarsi dal mondo, dalla città appunto e quindi da qualunque impegno politico o sociale. Non credo che sia così. La frase esprime senz’altro la speranza di una città futura priva di tutti i limiti e di tutte le degenerazioni che hanno le città del presente. Per un credente la fede radicata in un futuro escatologico è una risorsa in più e non l’oppio dei popoli che calma la sofferenza del tempo presente e neutralizza ogni tentativo di cambiare la situazione.

Credo che, nella nostra lettura personale del versetto 14, dobbiamo concentraci di più sull’aggettivo “stabile”. L’aggettivo greco esprime qui un concetto di continuità: una città “continua”, in altre parole una città che non ha mai subito fratture, interruzioni appunto. La frase invece afferma la negazione: non abbiamo una città stabile. Basta una conoscenza appena superficiale della storia per affermare che sono proprio fratture, interruzioni che generano dinamiche sociali ed ecclesiali nuove; migliori o peggiori delle precedenti – tale valutazione non è rilevante in quanto sempre provvisoria. Si tratta in ogni caso di movimento e non di una deleteria stagnazione.

Se queste osservazioni valgono per la vita di una civiltà (polis), a maggior ragione esse sono applicabili alla Chiesa di Gesù Cristo. Il testo non solo ci autorizza a fare questa operazione ma ci spinge addirittura a compiere questo passo. Cercare rifugio in una chiesa stabile, circoscritta dalle possenti mura, con porte d’accesso ben controllate, protetta dai potenti di questo mondo, può dare una sensazione di sicurezza. Fuori di questa chiesa si corrono tanti pericoli, si affrontano sfide impegnative, il più delle volte bisogna rivedere i propri schemi mentali, liturgici, omiletici, pastorali. Si rischia di fallire, di crearsi inimicizie di scontentare i più. Insomma, una prospettiva poco attraente ma fortunatamente legata non ai nostri calcoli personali bensì alla volontà di Colui che ci ha indicato la via verso la “chiesa futura”.

Predicazione del pastore Pawel Gajewski, Domenica 9 Marzo 2008, Chiesa Metodista e Chiesa Evangelica Valdese di Firenze.