Giovanni 4,19-26

 Il “vedere” profetico

 

La donna gli disse: «Signore, vedo che tu sei un profeta. (Giovanni 4:19).

La prima parte dell’incontro di Gesù con la donna samaritana si conclude con questa affermazione forte. Nella mentalità ebraica dell’epoca attribuire a qualcuno il titolo di profeta era il massimo riconoscimento che si possa immaginare. Sacerdoti si nasceva; solo la discendenza di Aaronne aveva questo privilegio; re si diventava in base alla successione dinastica, essere proclamati profeti significava invece un riferimento forte all’azione diretta di Dio.

L’Autore del Quarto vangelo usa in questa frase un particolare gioco di parole legato al verbo vedere: vedo che tu sei un profeta. La frase letta in greco suona tuttavia in modo leggermente diverso: theôrô hoti profêtês ei su. Il verbo usato nel testo greco significa letteralmente una convinzione che scaturisce da un attento scrutare della realtà circostante. Il gioco continua ancora ritraducendo il termine profeta in ebraico: navij, letteralmente colui che vede, in altre parole “veggente”. Parlando della nostra donna il Diodati usa l’antico verbo italiano “veggo”: io veggo che tu sei profeta.

Siamo dunque di fronte a due veggenti, si tratta però di due modi piuttosto diversi di vedere. Prima di spiegarli proviamo tuttavia ad esaminare con i nostri occhi ciò che “veggono” i due protagonisti del nostro racconto, ovverosia che cosa vede la comunità cristiana che ci trasmette questa stupenda narrazione.

Nella parte del racconto che non abbiamo letto si apre davanti a noi uno scenario segnato dalla precarietà della situazione della donna e dalla fallibilità delle relazioni di coppia. Nella seconda parte percepiamo invece una profonda spaccatura tra giudei e samaritani, un conflitto acceso sul luogo di culto considerato legittimo: tempio di Gerusalemme o il monte Garizim?

Il vedere “teorico”, o meglio umano, razionale della donna la porta verso una scarsa considerazione di sé stessa, verso una totale mancanza di fiducia nella possibilità di risolvere un antico conflitto tra due comunità di fede.

Tale vedere teorico genera sensi di colpa in chi ha alle spalle un matrimonio fallito o un orientamento affettivo diverso da un modello comunemente accettato. Alcune teorie etiche di matrice religiosa non di rado creano leggi disumane; pensiamo in Italia alla Legge 40 sulla procreazione assistita. Capita anche nelle chiese cristiane che una teoria, apparentemente conforme alla Scrittura e a una prassi plurisecolare, condanni alla scomunica persone colpevoli di aver amato persone giuste nei momenti sbagliati, o viceversa, persone sbagliate nei momenti giusti.

In questa stessa ottica anche i conflitti dottrinali, tra cattolicesimo e protestantesimo (Roma o Ginevra), tra conservatori e progressisti cristiani sembrano insanabili.

Il vedere di Gesù (e quindi della sua comunità) è diverso. È un vedere “profetico” che supera la soglia del visibile.Dobbiamo questa definizione a uno dei più grandi credenti e pensatori dell’ebraismo moderno Martin Buber, morto nel 1965. In questa ottica la donna diventa una figlia amata di Dio, al di là del suo misero status sociale e a prescindere dalla sua situazione esistenziale abbastanza discutibile.

Nella visione profetica l’antico conflitto è superato. Non si tratta però di esprimere un giudizio definitivo nella logica torto – ragione. Si tratta piuttosto dell’istituzione di un nuovo culto “in spirito e verità”. Su questo argomento Gesù si trova in perfetta sintonia con i profeti dell’Antico Testamento. Nel nostro racconto però c’è qualcosa in più. Gesù, sì è un profeta, ma non solo questo.

La donna samaritana dopo averlo ascoltato introduce nel dialogo il termine “messia”, un termine ebraico carico di grande significato: il messia è colui che cambia (o cambierà) il mondo. Detto per inciso: è interessante il fatto che due pensatori laici, quali Corrado Augias e Mauro Pesce abbiano aggiunto al titolo del loro celebre libro “Inchiesta su Gesù” un sottotitolo alquanto eloquente: “Chi era l’uomo cha ha cambiato il mondo”. Questa apparente domanda contiene in sé un’ipotesi di risposta: era il messia.

Torniamo ancora al nostro testo. All’affermazione abbastanza “teorica” della donna samaritana segue la risposta di Gesù: Egô eimi, io sono. Il gioco di parole continua. Questa formula, tipica del Vangelo di Giovanni non è altro che la confessione di fede nella divinità di Gesù. La breve frase greca traduce, di fatto, il nome di Dio trasmesso nell’Esodo 3,14: IO SONO.

In questo gioco di parole sta oggi la più grande sfida per la testimonianza cristiana. Non basta presentare Gesù come profeta, d'altronde lo fanno già i seguaci del Profeta Muhammad. Non è nemmeno sufficiente affermare l’ammirazione per un uomo che ha cambiato il mondo. Il nostro compito è di affermare la fede in un Dio che in Gesù è diventato uomo. Il nostro vedere profetico e le nostre affermazioni circa le più importanti sfide della società odierna devono costantemente nutrirsi di questa confessione di fede.

 

Pastore Pawel Gajewski Chiesa Evangelica Valdese di Firenze, Domenica 12 agosto 2007