Deut. 32, 48-52

“Tu vedrai il paese davanti a te,

ma non vi entrerai!”

Mosè non è entrato nella terra promessa, dopo aver strappato il popolo dall’autorità del Faraone, e averlo accompagnato per lunghi anni nel deserto. Sappiamo già che il libro del Deuteronomio rappresenta Mosè e il popolo davanti al fiume Giordano, pronti ad “entrare” nella terra promessa. I testi che abbiamo letto e commentato rappresentano le ultime riflessioni di Mosé e le ultime raccomandazioni al popolo. Un problema letterario e teologico che si è posto fin dall’antichità è: perché Mosé non è potuto entrare nella terra promessa, pur essendoci arrivato vicino?

Il nostro testo di oggi viene da una fonte diversa (P: sacerdotale) che ha una teologia più “cattolica”, basata cioè non sulla grazia incondizionata di Dio, ma sulle opere e la loro retribuzione. Alla ricerca del “peccato grave di Mosé” si ricorda della “ribellione di Cades” nel deserto di Sin. E’ difficile dire in cosa consista il peccato di Mosé ed Aaronne per cui Dio li rimprovera ed annuncia loro che non entreranno nella terra promessa. La richiesta di acqua da parte del popolo appare del tutto legittima; il percuotere la roccia è un gesto che avevamo già visto in Oreb (Es.17,  1-7), sempre per far uscire l’acqua; l’accusa di “ribellione” sembra in questo caso un po’ infondata; la domanda è retorica? O ha un tono dubitativo? Non è più possibile percepire queste sottigliezze. Dio accusa Mosé e Aaronne di “non aver avuto fiducia in lui per dar gloria al suo santo nome agli occhi dei figli d’Israele” (Num.20,12). Secondo il Codice Sacerdotale, dunque, Mosé per un errore, per non aver avuto sufficiente fiducia in Dio non è potuto entrare nella terra promessa. Da qui nasce una teologia retributoria, secondo la quale si riceve per come si è vissuti e si deve stare attenti a non sgarrare neanche di un solo comandamento, pena la punizione (ad occhio umano sproporzionata) eterna o provvisoria di cui si sconta la pena nella vita.

Il Deuteronomio invece sembra interpretare diversamente la “punizione” di Mosé: “Il Signore si adirò contro di me a causa vostra e giurò che io non avrei attraversato il Giordano e non sarei entrato nel buon paese che il Signore, il tuo Dio, ti dà in eredità” dice Mosé al popolo (Deut.4,21). Nel discorso programmatico del capitolo 1 (30-39) emerge chiara la linea: nessuno di quelli che hanno lasciato l’Egitto entrerà, tranne qualche eccezione (Caleb, Giosuè) ed anche Mosé subirà una specie di punizione vicaria (“a causa vostra”) e morirà solidale con la generazione del deserto.

Non si fa di Mosé un eroe senza macchia e senza paura, né lo si considera impeccabile; tuttavia c’è una sdrammatizzazione del peccato individuale per una ricerca di definizione di “peccato collettivo” che sembra a noi moderni e post-moderni particolarmente interessante. La storia umana ha conosciuto e conosce  situazioni di penuria di cibo e di acqua o di altri elementi vitali, certo c’è la ruberia, l’accaparramento, l’avvantaggiarsi a causa della debolezza altrui, ma al di là dei meschini errori umani, c’è, come una cupola, il peccato collettivo che consiste nella guerra, nel disordine delle risorse, nell’ingiustizia globale. Alcuni partono svantaggiati nell’avventura della vita, per esempio se sono nati in Afganistan e non negli USA o in Italia. Ma noi non crediamo nel caso o nel destino guidato dalle stelle e ormai sappiamo che questo disordine fa parte di uno maggiore. Il peccato collettivo, che potrebbe anche essere una moderna traduzione del peccato originale, è una cupola che ci racchiude tutti, indipendentemente dalle nostre azioni e dalle nostre volontà.

Occorre dunque qualcuno che “per tutti” in maniera vicaria rompa la cupola del peccato, perché le azioni e le vite individuali riprendano dimensione e valore. Gesù il Messia che muore per tutti e risorge per una vita nella libertà dal peccato risponde a questo bisogno. Ma al tempo di Mosè non c’è ancora, c’è il peccato del popolo e la solidarietà nel peccato che coinvolge anche Mosé. Il cammino verso la terra promessa è una specie di rivoluzione che vede cambiare il corso della storia, almeno per quel popolo. Tutta la generazione della rivoluzione non vedrà il cambiamento; di solito una rivoluzione produce quasi altrettanto sangue di quanto ne era stato versato prima e poi occorre una nuova e diversa rivoluzione per raddrizzare quella precedente. La morte di Gesù accettata e non subita interrompe il cerchio della violenza e dà inizio a una vita che non è ancora mai iniziata nella nostra storia umana, una vita dove la vita vince sulla morte.

Mosé sta per entrare nel regno di questa vita, che per noi mortali comincia dopo la nostra morte: la Bibbia la chiama “ricongiungersi con il suo popolo”. E’ una espressione che si trova nei racconti dei patriarchi: si comincia con Abramo (Gen.25,8), poi con Ismaele (perfino!) (Gen.25,15), Isacco (35,29), Giacobbe (49,33), Aaronne (Num.20,24.26). In fondo non è poi tanto chiara… A chi si ricongiunge Abramo, se ha piuttosto dovuto lasciare la sua tribù d’origine? Ismaele ne crea una nuova, dove sarà contro tutti! E’ come una formula di definizione pacifica della morte: Isacco spirò, morì e fu riunito al suo popolo, vecchio e sazio di giorni. Nel caso di Mosé  Dio gli dice: “Tu morirai sul monte sul quale stai per salire e sarai riunito al tuo popolo, come tuo fratello Aaronne è morto sul monte Or ed è stato riunito al suo popolo” (Dt.32,50). Che la formula funzioni anche per Ismaele dovrebbe metterci all’erta. Non solo i patriarchi, non solo Israele (che sarebbe Giacobbe), ma perfino il selvaggio Ismaele condivide la promessa di appartenere al popolo spirituale di Dio.

La formula non viene usata per chi muore di morte violenta, non potrebbe essere usata per Gesù, la morte di Gesù avviene “fuori”, affinché anche noi usciamo fuori per andare a lui, come dice la lettera agli Ebrei (13,13) che ne ricava una lezione di non conformismo: “non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura”.

C’è un popolo di Dio che da sempre marcia verso una terra promessa e si vive e si muore raggiungendo gli altri che hanno marciato prima di noi. Giacobbe vuole esser riunito materialmente al suo popolo e chiede a Giuseppe che le sue ossa non restino in Egitto, ma siano portate “a casa”.  Tutta la nostra terra potrebbe essere “a casa” per chi vi muore, però c’è un “a casa” più particolare per ciascuno ed è giusto e legittimo che sia così. Però per Mosé non c’è luogo che si possa chiamare “a casa”: l’Egitto è stato il luogo di nascita e di formazione, dal quale è dovuto uscire, ma Canaan non è “a casa”, non lo si conosce, come non si conoscerà mai il luogo dove è stato sepolto Mosè. La Bibbia incoraggia a pensare che Dio stesso l’abbia sepolto sul monte Nebo in un luogo sconosciuto, perché tutta la terra può essere un “tornare a casa”. Quello che importa è esser ricongiunti con quelli che hanno marciato prima di noi.


Pastora Gianna Sciclone, Chiesa Evamgelica Valdese di Firenze